Concepire la violenza di quello che accade a Gaza e la sproporzione dello sterminio, è proprio il senso pedagogico che si voleva suscitare con il racconto dell'Olocausto nelle scuole
La disturbante opera Maus di Art Spiegelman che raffigura gli ebrei vittime della Shoah come topi
Oggi fa impressione ascoltare Liliana Segre che parla della libidine "con cui troppi sembrano cogliere un’opportunità per sbattere in faccia agli ebrei l’accusa di fare ad altri quello che è stato fatto a loro”
Christian Raimo
Buongiorno,
domani è il Giorno della memoria, per ricordare vittime, carnefici e complici della Shoah e confrontarsi con la sua unicità ma anche con la consapevolezza - come diceva Primo Levi - che se è accaduto può accadere di nuovo.
Mai come quest’anno è una ricorrenza che solleva domande, genera tensioni, a Milano la Comunità ebraica non parteciperà agli eventi dove c’è l’Anpi, l’Associazione nazionale partigiani per la divergenza di toni e vedute sulla guerra di Israele ad Hamas a Gaza. L’Anpi parla di genocidio, la Comunità ebraica lo ritiene in accettabile.
Ne approfitto quindi per riproporvi questo articolo di Christian Raimo, uscito qualche tempo fa, che è un utile spunto di riflessione.
Più sotto trovate anche il saggio più recente che Raimo ha pubblicato su Appunti, dedicato al tema della violenza della polizia e alla serie Acab su Netflix.
Fateci sapere che ne pensate,
Buona domenica
Stefano
La banalità della banalità del male
di Christian Raimo
Nel 2000 viene istituito il Giorno della memoria, con cui si incarna anche a scuola e fuori dalla scuola, una forma di educazione istituzionale contro l'antisemitismo.
La sfida pedagogica è provare a parlare di tre cose: la violenza sistemica di un genocidio storicamente determinato, la modellistica di una politica dello sterminio (il Ruanda, Srebenica, avevano fatto riparlare negli anni Novanta di genocidio e di lager), l'assurdo di un male indicibile.
Pensando, questa è la sfida più alta, a come fare di quella riflessione storica una riflessione e un'esperienza universalizzabile.
In quegli stessi anni e prima anche e dopo ovviamente su questi tre temi - Olocausto storico, modellistica dello sterminio, vertigine di un male indicibile - si è dibattuto fino allo stremo, provando a produrre anche gli stessi antidoti all'eccesso di memoria, all'eccesso di comparazioni, all'eccesso di centralità della vittima.
Il risultato purtroppo è stato scarso.
Il senso della riflessione sull'Olocausto, i lager, la violenza sistemica dello sterminio, e soprattutto sull'assurdo del male, è stato spesso ridotto, nella retorica politica, a un dispositivo di empatia velocizzato, standardizzato. La banalità della banalità del male.
Invece di trovare il modo di sostare nel trauma, un trauma distante nel tempo, sproporzionato, disumano, si è pensato spesso a come creare una dottrina frettolosa, che ci consentisse di elaborarlo in fretta, come un'educazione civica da mandare a memoria, un catechismo postnovecentesco, spesso usato come sostituto alla pedagogia antifascista.
Nel 1993 era uscito il film Schindler’s list, nel 1997 La vita è bella, ed erano sembrati a moltə gli strumenti più accessibili per
introdurre a questi temi adolescenti e bambinə.
Se in quei film c’era ancora la possibilità della sosta nel trauma, anche se mescolati nella retorica vischiosa di un sollievo della bontà e della rimozione, in molti dei prodotti culturali successivi questa sosta era o inconsapevolmente o anche consapevolmente evitata.
Ecco l’inflorescenza editoriale dei bambini con i pigiami a righe, il consumo della memoria, fino alla replicabilità speculare del Giorno del ricordo e di altre celebrazioni della vittima...
Ma c'è stato un tempo lungo, tra gli anni Novanta e gli anni Duemila, un tempo che ancora oggi è ripensabile anche se tutto sembra dire il contrario, un tempo lungo importante nella nostra formazione, in cui sostare nella vertigine dello sterminio e dell'antisemitismo sembrava davvero un modo per imparare qualcosa dell'essere umano.
Uomini comuni di Christopher Browning (1995), Le benevole di Jonathan Littell (2000) o The believer di Henry Bean (2001), tra i film, saggi, romanzi, documentari, sono tra i molti esempi di quella che potremmo definire davvero una luce sulla libidine dell’antisemitismo: la parte più indicibile dell’indicibilità del trauma. Qualcosa di emotivamente ancora più ingestibile dell’aver a che fare con la zona d’interesse.
La domanda “Come è potuto accadere?” non si risolveva con l’afasia della commozione, ma con una traduzione di un altro genere di domanda: in cosa consiste l’essere umano di fronte allo sterminio di massa?
"Perché non hanno reagito?", come dice il protagonista di The believer, ebreo che decide di diventare neonazista. E: “cosa c'è di affascinante nella violenza dello sterminio, nell’ideologia antisemita?”
Il trauma è quanto di più singolare possa accadere, ma c’è stato, in molti, per molti docenti a scuola, in molti progetti educativi, in molte esperienze di riflessione storica, c'è ancora oggi, uno sforzo etico, politico, pedagogico, per non ridurre la memoria a una liturgia vuota, ma alla convinzione che possa essere un reale percorso personale e collettivo in cui guardare e sostare di fronte l’abisso, e che questo percorso potesse e possa servire come rito di passaggio, per poter guardare altri abissi, al di là dei nomi dei nazionalismi: Beslan, Bataclan, il fanatismo islamista, per esempio, o altri massacri spaventosamente insensati del passato.
Questo non pensando di poter passare direttamente a un’identificazione veloce con le vittime o con i testimoni.
Per questa ragione oggi fa impressione ascoltare Liliana Segre che parla della libidine “con cui troppi sembrano cogliere un’opportunità per sbattere in faccia agli ebrei l’accusa di fare ad altri quello che è stato fatto a loro. Un complesso di colpa collettivo prodotto dalla storia si scioglie in un rabbioso sfregio liberatorio verso lo Stato ebraico di Israele, non solo equiparandolo ai nazisti ma rinfocolando tutti i più vieti stereotipi sugli ebrei vendicativi, suprematisti, assetati del sangue dei bambini non ebrei dell’antisemitismo nelle manifestazioni per Gaza”.
Sembra la negazione stessa di quello sforzo e della forza di quella pedagogia, poter stare vicino al trauma degli altri, poter sostare nel trauma; la possibilità di sentirsi umani, senza vie brevi.
E questo non avviene solo sul piano retorico, nel dibattito sulla definizione di genocidio, ma nel non concedere la possibilità di guardare l’abisso dalla parte dei carnefici e non solo delle vittime, ragionando sull’ipotesi e il senso di essere entrambi.
Concepire la violenza di quello che accade a Gaza, provare a concepire la sproporzionatezza dello sterminio, è proprio il senso pedagogico che si voleva suscitare con la riflessione e il racconto dell'Olocausto, persino quello istituzionale del Giorno della memoria.
Non è un cortocircuito della storia, né una conversione da anime belle, ciò per cui oggi è esattamente quella pedagogia che fa scendere moltə in piazza per liberazione della Palestina e di Gaza, o pensare che il premier israeliano Benjaimin Netanyahu vada arrestato e processato come criminale di guerra.
Se si pensa che esista qualcosa di universale che riguarda tutti gli esseri umani.