Opposizioni Le forze oggi all’opposizione hanno posizioni diverse su molti punti; è inutile quindi aprire i famigerati “tavoli” per trattare un programma comune
Finalmente, la ragionevolezza sembra farsi strada. Un’intervista di Dario Franceschini, ieri, ha il merito di porre le questioni in modo netto. Un’impostazione simile era stata proposta, su queste pagine, in un articolo del 14 settembre («Centrosinistra, un’alleanza a più livelli»).
Tutto si può ridurre a un semplice sillogismo: le forze oggi all’opposizione hanno posizioni diverse su molti punti; è inutile quindi aprire i famigerati “tavoli” per trattare un programma comune. Beninteso, alcune di queste forze possono anche provare a farlo, perché hanno posizioni simili o compatibili; ma non si potrà mai essere d’accordo tutti su tutto. D’altra parte, tutti sono necessari, se si vuole evitare il ripetersi dello scenario sciagurato del settembre 2022.
Che fare, allora? È bene ricordare alcuni dati. Nel 2022, i partiti della destra, con il 43,8% dei voti, ottennero 114 seggi nella quota proporzionale; i tre spezzoni dell’attuale opposizione separati ottennero il 45,9% e 130 seggi. Questi rapporti di forza, questi stessi voti, produssero un clamoroso rovesciamento nella quota maggioritaria: alla Camera, su 147 seggi in palio, la destra ne vinse ben 122, tutti gli altri appena 22 (10 il Pd e Avs, 12 il M5s). La soluzione per evitare un esito simile è quella di concordare candidati comuni nei collegi e, per il resto, aprire una libera competizione nel proporzionale.
Questo è possibile grazie ad alcune peculiarità del sistema elettorale, che spesso non vengono considerate. Ricapitoliamo: questo sistema prevede il 37% dei seggi assegnati attraverso sistemi uninominali maggioritari e il 61% su base proporzionale, mediante liste bloccate che convergono su una candidatura uninominale (con soglia al 3%). Il voto degli elettori è molto vincolato: nessuna possibilità di voto disgiunto, chi vota un simbolo vota automaticamente il candidato collegato.
I voti dei candidati uninominali sono quindi, in larghissima misura, la somma dei voti alle liste collegate.
È vero che si può anche votare solo il candidato nel collegio: ma, come mostrano i dati delle scorse elezioni, sono stati molto pochi gli elettori che hanno fatto questa scelta, mentre la gran parte ha votato solo il simbolo del partito, con una logica di comportamento tipica delle competizioni proporzionali. Si tratta quindi di mettere in atto una strategia che punti a neutralizzare gli effetti distorsivi dei collegi, evitando un’asimmetria dell’offerta elettorale. La principale obiezione che viene sollevata è questa: sarebbe “un accrocchio” poco credibile e poi non è detto che la sommatoria funzioni: sono probabili defezioni dall’uno o dall’altro versante della coalizione. A questa obiezione si può rispondere in vari modi. Politicamente, come detto, non si deve escludere che una parte più coesa della coalizione concordi comunque un programma comune (e questo Franceschini, nella sua intervista, non lo dice); ma soprattutto il “patto repubblicano” che verrebbe sottoscritto da tutti avrebbe un grandissimo obiettivo politico: eleggere, comunque, un parlamento più rispondente ai reali rapporti di forza nel paese, che impedisca forzature e rischi per gli equilibri costituzionali – quelle forzature e quei rischi che stiamo sperimentando in questa legislatura. Vi pare poco?
Sul piano “tecnico”, l’obiezione sulla non-sommabilità dei voti cade per due motivi: per quanto detto sopra a proposito della logica “proporzionale” che guida il comportamento degli elettori e per un altro, fondamentale motivo: se anche un po’ di voti, per così dire, si perdessero per strada, lo scenario competitivo non cambierebbe molto. Si possono fare varie simulazioni e chi scrive sta provando a farle. Ebbene, conta molto la geografia elettorale: nel 2022, ad esempio, in tutte le maggiori aree metropolitane (a parte Napoli, dove il M5S fece cappotto: 7 collegi su 7), il centrosinistra ha vinto (pochissimi) collegi e ne ha persi (molti) con uno scarto di voti non molto ampio. Sono tutti collegi ampiamente contendibili, anche scontando una quota di defezioni.
Si prenda poi il caso della Toscana e dell’Emilia Romagna: nel 2022 finì, rispettivamente, 7 a 2 e 7 a 4 a favore della destra: non occorrono calcoli complicati per capire che la situazione qui si può esattamente (quanto meno) rovesciare. E lo stesso potrebbe accadere in Puglia (dov’era finita 9 a 1 per la destra).
Si deve rinunciare a un lavoro politico per costruire anche una coalizione con un programma politico comune? No, assolutamente, è bene provarci.
Ma sarebbe un fatto salutare politicamente, che sgombrerebbe il campo da tante chiacchiere inutili, se tutti i protagonisti dicessero sin da ora: bene, stiamo lavorando a un programma comune, non saremo forse d’accordo tutti su tutto; ma, cari signori, sia chiaro: noi faremo comunque un accordo elettorale, perché non vogliamo regalare alla destra quella maggioranza in Parlamento che non ha tra gli italiani. C’è da sperare che la ragionevolezza, e anche un po’ di accortezza tattica, e di buon senso, finalmente prevalgano.