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Striscia continua Morti e feriti per un incendio causato da un raid aereo. Generali israeliani: niente cibo e sfollamenti per cacciare Hamas dal nord. A Jabaliya uccisi 10 palestinesi in fila per il cibo. 22 morti in una scuola a Nuseirat

I resti della tendopoli dopo l’incendio della notte - foto Ap/Abed Rahim Khatib I resti della tendopoli dopo l’incendio della notte – foto Ap/Abed Rahim Khatib

Il fuoco che divora le tende, esseri umani, tra cui un bambino, in lotta con le fiamme, l’oscurità spezzata dai bagliori delle esplosioni, soccorritori che si affannano per salvare i feriti, urla di disperazione dei parenti di chi è rimasto intrappolato. Abbiamo ricevuto tante immagini spaventose nell’ultimo anno da Gaza sotto i bombardamenti aerei israeliani. Eppure, gelano il sangue quelle arrivate ieri alle prime ore del giorno dal campo di tende per sfollati all’esterno dell’ospedale dei Martiri di Al Aqsa a Deir al Balah.

DECINE DI TENDE sono andate a fuoco in pochi attimi, i pompieri hanno impiegato un’ora per domare l’incendio. È stato un inferno di fuoco simile a quello che prima dell’estate avvolse l’accampamento per sfollati di Tel El Sultan a causa di bombe esplose nei paraggi: i morti furono decine. Gli uccisi ieri sono stati almeno quattro, 70 i feriti, alcuni sono in condizioni critiche, con ustioni su tutto il corpo. I medici dell’Al Aqsa dicono di non avere modo di curare ustionati così gravi nel loro ospedale.

«Pazienti con ustioni tanto estese non possono farcela, il loro destino è segnato. Non arriveranno nemmeno in terapia intensiva», ha previsto con dolore il dottor Mohammed Tahir intervistato da Al Jazeera. I sopravvissuti hanno raccontato di essere stati svegliati dalle esplosioni e di aver visto le tende prendere fuoco. «La quantità di fiamme ed esplosioni era enorme. Abbiamo assistito a una delle notti più orribili e brutali», ha detto una donna. A Gaza sottolineano: è la settima volta che Israele colpisce l’area dell’ospedale di Al-Aqsa e la terza in due settimane.

ANCHE LE SCUOLE piene di sfollati sono prese di mira. Domenica almeno altri 22 palestinesi sono stati uccisi, tra cui 15 donne e bambini, e altri 80 feriti quando i carri armati israeliani aperto il fuoco verso la zona centrale di Gaza colpendo il campo profughi di Nuseirat. È solo l’ultimo massacro di sfollati all’interno di scuole e di rifugi per sfollati bombardati dall’ottobre dello scorso anno: il totale, denunciano i palestinesi, è salito a 191.

Anche aspettare in strada per prendere un po’ di cibo può costare la vita. È successo a dieci palestinesi, tra cui bambini, uccisi da un colpo di artiglieria (secondo un’altra versione da un drone) ieri nel campo profughi Jabaliya, davanti a un centro di distribuzione degli aiuti alimentari. Israele giustifica i bombardamenti con la presunta presenza in scuole e rifugi di «centri di comando» di Hamas e altri gruppi combattenti. Il movimento islamico ha sempre negato l’accusa.

Lo spettro della fame intanto torna nel nord di Gaza dove è in corso da giorni una massiccia operazione dell’esercito israeliano con l’impiego di decine di mezzi corazzati e che si accompagna a intimazioni ad evacuare subito la parte settentrionale della Striscia.

JABALIYA, Beit Hanun, Beit Lahiya, Sheikh Radwan, Zaytun, il capoluogo Gaza city sono stati isolati. I soldati lasciano passare solo i civili che scappano verso il sud. Oltre 300mila palestinesi restano intrappolati mentre la crisi alimentare peggiora a causa dell’impossibilità di far entrare gli aiuti e le stazioni di distribuzione dell’acqua potabile chiudono a causa della carenza di carburante per i generatori di elettricità. Il capo dell’Unrwa (Onu), Philippe Lazzarini, ieri ha denunciato su X che dal 30 settembre il nord della Striscia non ha più ricevuto generi di prima necessità. Gli aiuti per Gaza, aggiungono le Nazioni unite, hanno toccato il livello più basso degli ultimi mesi.

Le fiamme che hanno distrutto decine di tende nel cortile dell’ospedale Martiri di al-Aqsa a Deir al Balah foto Ap/Abdel Kareem Hana
Le fiamme che hanno distrutto decine di tende nel cortile dell’ospedale Martiri di al-Aqsa a Deir al Balah – foto Ap/Abdel Kareem Hana

ISRAELE IERI ha comunicato che sono stati riaperti alcuni punti di transito e che camion del Programma alimentare mondiale sono finalmente entrati nella Striscia. Ma i rifornimenti alla popolazione civile nel nord restano incerti, se non occasionali, a causa di decisioni politiche. Le organizzazioni umanitarie da mesi denunciano che i furti dei beni primari e gli attacchi agli operatori umanitari e agli autisti dei camion rappresentano uno dei principali ostacoli alla consegna degli aiuti, insieme agli attacchi militari e al diniego delle autorizzazioni israeliane per i convogli. Il mese scorso il relatore dell’Onu sul diritto al cibo, Michael Fakhri, aveva accusato Israele di aver condotto una «campagna di fame» contro i palestinesi di Gaza. Israele ha respinto seccamente l’accusa, ma ieri l’agenzia di stampa Usa Associated Press (Ap) ha scritto che il primo ministro Netanyahu sta esaminando un piano per bloccare gli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza settentrionale in modo da portare alla fame i militanti di Hamas.

UN PIANO che, se attuato, intrappolerebbe senza cibo né acqua centinaia di migliaia di palestinesi che non vogliono o non possono lasciare le loro case. I civili avrebbero una settimana per lasciare il nord della Striscia e Gaza City. Quelli che rimarranno saranno considerati combattenti, quindi privati di cibo, acqua, medicine e carburante. Lo chiamano il «Piano dei generali» perché è stato formulato da un gruppo di generali in pensione e rilancia quanto proposto lo scorso anno dall’ex comandante Giora Eiland. Secondo una copia del piano consegnata all’Ap dai suoi autori, sarebbe questo l’unico modo per spazzare via Hamas dal nord e fare pressione su di esso affinché rilasci gli ostaggi israeliani. La proposta prevede il controllo israeliano del territorio per un periodo di tempo indefinito e la divisione di Gaza in due. Da tempo alcuni membri del governo e del parlamento e i coloni premono sul premier per rioccupare in modo permanente almeno una metà della Striscia.

LA AP AGGIUNGE che i militari affermano di non aver ricevuto questo piano, ma un funzionario governativo sostiene che alcune parti sono già in fase di attuazione. Il diritto internazionale proibisce l’uso del cibo come arma e i trasferimenti forzati di popolazione

 

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La nave dei rifiuti Sono originari dell’Egitto e del Bangladesh. L’arrivo previsto per mercoledì mattina

Centri in Albania, partiti i primi sedici migranti

 

Dopo tanti annunci alla fine i primi migranti destinati ai due centri che l’Italia ha aperto in Albania sono partiti ieri da Lampedusa a bordo della nave militare Libra. Chi si aspettava grandi numeri, però, è rimasto deluso. A bordo del pattugliatore della Marina, che arriverà mercoledì nel porto di Schengjin dove si trova il primo dei due hotspot voluti dal governo Meloni, ci sono infatti appena 16 migranti, tutti maschi adulti, come prevede il protocollo siglato nel 2023, non vulnerabili e provenienti da paesi considerati sicuri, in questo caso Egitto e Bangladesh. Un numero talmente esiguo da far sorgere il sospetto che il viaggio serva al governo più che altro a smorzare la possibilità di un fallimento del progetto viste le volte in cui l’apertura dei centri è stata data per fatta e poi è slittata. «In effetti colpisce un numero così ridotto» commenta l’avvocato Gianfranco Schiavone, giurista dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). «Sarebbe interessante capire come sono state selezionate queste persone, se hanno manifestato una debolezza nella loro domanda di asilo, magari dicendo che sono venuti in Italia alla ricerca di un lavoro. Oppure se si è trattato semplicemente di un piccolo sbarco».

I migranti che in queste ore stanno viaggiando verso l’Albania facevano parte di un gruppo più numeroso che si trovava su due barchini partiti dalla Libia e tratti in salvo due notti fa in acque internazionali, ma in area Sar italiana, dalle motovedette della Guardia costiera. Donne, minori e persone vulnerabili sono stati portati a Lampedusa, mentre i sedici rimasti sono stati trasferiti a bordo della Libra in attesa al largo dell’isola siciliana. Una volta giunti nell’hotspot di Schengjin, nel nord dell’Albania, verranno completate le procedure di identificazione e le visite mediche. Da mercoledì mattina, quando è previsto l’arrivo, la sezione immigrazione del tribunale di Roma avrà 48 ore di tempo per confermare il provvedimento di fermo firmato dal questore di Roma.

Chi avrà i requisiti per richiedere asilo verrà trasferito nel centro di Gjader che si trova a venti chilometri di distanza. Sempre lì, ma in una struttura separata ,è stato allestito anche un Cpr per quanti invece dovranno essere

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Nella foto: Il giorno della resistenza indigena a Caracas, Venezuela (12 ottobre, Columbus Day) @ Ap/Jesus Vargas

Oggi un Lunedì Rosso dedicato alle varie forme che può assumere la resistenza.

Dalle macerie del campo profughi di Jabaliya, nel Nord di Gaza, dove i sopravvissuti attendono la morte o qualsiasi altra cosa. Fino al tessuto produttivo della Toscana, dove la lotta alla dismissione industriale ha prodotto una fuga in avanti: il progetto collettivo di una fabbrica sostenibile e socialmente integrata, nel sito della Ex Gkn.

Ancora resta forse una declinazione della resistenza l’amore, con le sue infinite complicazioni, raccontate in All we imagine as light, un film ambientato nel tiepido blu tropicale di Mumbai. 

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Il contingente Onu ha denunciato due episodi. Uno oggi, con l'irruzione di due carri armati israeliani in una postazione a Ramyah, e uno ieri, nel quale "soldati dell'Idf hanno fermato un movimento logistico critico dell'Unifil nei pressi di Meiss ej Jebel, negandogli il passaggio". La missione ha "chiesto spiegazioni in merito a queste scioccanti violazioni". Israele ha spiegato che un suo tank si è scontrato con una postazione perché era "sotto tiro". 15 caschi blu intossicati dal fumo dopo colpi sparati dall'Idf

https://tg24.sky.it/mondo/2024/10/13/unifil-israele-libano-news

 

Due carri armati israeliani hanno “fatto irruzione” in una postazione dell'Unifil nel sud del Libano. A denunciare l’ingresso “con la forza” dei tank è stata la stessa missione di peacekeeping dell’Onu. L'Unifil ha anche accusato l'esercito israeliano di aver bloccato uno dei suoi movimenti logistici, chiedendo "spiegazioni" dopo queste "scioccanti violazioni". "Ieri i soldati dell'esercito israeliano hanno bloccato un movimento logistico cruciale dell'Unifil vicino a Meiss el-Jabal, impedendone il passaggio. Questo movimento cruciale non ha potuto essere effettuato", ha fatto sapere la missione di peacekeeping nel sud del Libano. Quindici caschi blu, inoltre, sono rimasti intossicati dal fumo dopo alcuni colpi sparati dall'Idf vicino alla postazione Unifil. La missione ha "chiesto spiegazioni in merito a queste scioccanti violazioni". Israele ha risposto che un suo tank si è scontrato con una postazione della missione di pace perché era "sotto il fuoco". Intanto, una fonte qualificata ha fatto sapere all'Ansa che i 27 Paesi dell'Ue hanno trovato un'intesa sul testo della dichiarazione in risposta alle azioni israeliane contro il contingente Unifil in Libano: il testo, ha aggiunto, dovrebbe essere diffuso in serata. Le forze di interposizione delle Nazioni Unite da giorni sono sotto il fuoco incrociato tra Israele e Hezbollah. I caschi blu sono 10mila in tutto, tra cui oltre mille soldati italiani (GLI AGGIORNAMENTI LIVE SUL CONFLITTO).

La denuncia dell'Unifil

Il contingente Onu, in una nota, ha quindi denunciato due diversi episodi. Uno stamattina, con l'irruzione di due tank israeliani in una postazione a Ramyah, e uno ieri, nel quale "i soldati dell'Idf hanno fermato un movimento logistico critico dell'Unifil nei pressi di Meiss ej Jebel, negandogli il passaggio". Nella nota, Unifil ha spiegato: “Questa mattina presto le forze di peacekeeping dislocate presso una postazione a Ramyah hanno osservato tre plotoni di soldati dell'Idf attraversare la Linea Blu verso il Libano. Verso le 4.30 del mattino, mentre i peacekeeper erano nei rifugi, due carri armati Merkava dell'Idf hanno distrutto il cancello principale della posizione e vi sono entrati con la forza. Hanno chiesto più volte che la base spegnesse le luci. I carri armati se ne sono andati circa 45 minuti dopo, dopo che l'Unifil ha protestato tramite il nostro meccanismo di collegamento, affermando che la presenza dell'Idf stava mettendo in pericolo i peacekeeper". L'Unifil ha aggiunto che "verso le 6.40 del mattino, i peacekeeper nella stessa posizione hanno segnalato lo sparo di diversi colpi a 100 metri a nord, che hanno emesso fumo. Nonostante indossassero maschere protettive, 15 peacekeeper hanno subito effetti, tra cui irritazioni cutanee e reazioni gastrointestinali, dopo che il fumo è entrato nel campo. I peacekeeper stanno ricevendo cure.

"Chiesto spiegazioni per queste scioccanti violazioni"

Nella nota si sottolinea anche che "per la quarta volta in pochi giorni, ricordiamo all'Idf e a tutti gli attori i loro obblighi di garantire la sicurezza del personale e delle proprietà delle Nazioni Unite e di rispettare in ogni momento l'inviolabilità dei locali delle Nazioni Unite. Violare ed entrare in una posizione Onu è un'ulteriore flagrante violazione del diritto internazionale e della risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza. Ogni attacco deliberato ai peacekeeper è una grave violazione del diritto internazionale umanitario. Il mandato dell'Unifil prevede la sua libertà di movimento nella sua area di operazioni e qualsiasi restrizione a ciò è una violazione della risoluzione 1701". Per questo l'Unifil ha reso noto di aver "chiesto spiegazioni in merito a queste scioccanti violazioni".

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La versione di Israele

Israele ha poi spiegato che un suo tank si è scontrato con una postazione della missione di pace perché era "sotto il fuoco". "Una revisione iniziale ha mostrato che un carro armato dell'Idf che stava cercando di evacuare i soldati feriti mentre era ancora sotto tiro è arretrato di diversi metri in una postazione Unifil. Una volta cessato il fuoco nemico, e in seguito all'evacuazione dei soldati feriti, il carro armato ha lasciato la postazione", ha comunicato l'Idf.

Crosetto: "Atto inaccettabile"

L'incidente di oggi con 2 carri armati israeliani entrati con la forza in una postazione Unifil "costituisce un atto inaccettabile nei confronti della Forza di pace delle Nazioni Unite, il cui mandato è orientato esclusivamente al mantenimento della stabilità e della sicurezza nell'area", ha commentato il ministro della Difesa Guido Crosetto. "A seguito di questa grave violazione ho chiesto al capo di Stato Maggiore della Difesa, generale Luciano Portolano, di mettersi in contatto con il suo omologo. Il generale Portolano ha prontamente interloquito con il capo di Stato Maggiore delle Forze di Difesa israeliane, generale Herzi Halevi, ribadendo la necessità di evitare ulteriori azioni ostili. Stessa cosa mi ha assicurato il mio omologo, Gallant", ha aggiunto Crosetto.

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Feriti paramedici della Croce Rossa

Intanto, la Croce Rossa ha fatto sapere che alcuni suoi paramedici sono rimasti feriti durante un raid avvenuto oggi nel sud del Libano, mentre erano impegnati in operazioni di soccorso. I soccorritori erano stati inviati in una casa "in coordinamento" con la missione delle Nazioni Unite che funge da cuscinetto tra Israele e Libano. "Mentre la squadra cercava vittime da soccorrere, la casa è stata colpita per la seconda volta, provocando traumi ai soccorritori e danni a due ambulanze", ha riferito la Croce Rossa libanese. Questa squadra, ha aggiunto, "era stata inviata in coordinamento con la Forza ad interim delle Nazioni Unite (Unifil) dispiegata nel sud del Libano, bombardato quotidianamente da aerei israeliani”.

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Le reazioni internazionali

E su Unifil non si fermano le tensioni internazionali. “È giunto il momento di rimuovere l'Unifil dalle roccaforti e dalle aree di combattimento di Hezbollah", ha detto il premier israeliano Benyamin Netanyahu in una dichiarazione registrata, in cui si è rivolto al segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres. "L'Idf lo ha chiesto ripetutamente, e ha avuto ripetuti rifiuti, tutti volti a fornire uno scudo umano a Hezbollah. Il vostro rifiuto di evacuare i soldati li rende ostaggi di Hezbollah. Questo mette in pericolo la loro vita e quella dei nostri soldati. Ci rammarichiamo per l'infortunio subito dai soldati Unifil, facciamo tutto per prevenire questi incidenti", ha aggiunto. E ancora: "Sfortunatamente, alcuni leader europei stanno esercitando pressioni nel posto sbagliato. Invece di criticare Israele, dovrebbero rivolgere le loro critiche a Hezbollah, che usa l'Unifil come scudo umano proprio come Hamas a Gaza usa l'Unrwa". Per parlare della questione, anche la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha avuto una conversazione telefonica con Netanyahu. “Meloni ha ribadito l'inaccettabilità che Unifil sia stata attaccata dalle forze armate israeliane, ricordando come la Missione agisca su mandato del Consiglio di Sicurezza per contribuire alla stabilità regionale", ha fatto sapere Palazzo Chigi, spiegando che la premier "ha sottolineato l'assoluta necessità che la sicurezza del personale di Unifil sia sempre garantita".

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I combattimenti al confine

Nel frattempo, a due settimane dalle operazioni di terra di Israele, continuano i combattimenti lungo il confine libanese. Mentre aumentano le incursioni, Hezbollah ha dichiarato che i suoi combattenti stanno affrontando le truppe israeliane in diversi villaggi al confine. "Durante il tentativo di una forza di fanteria nemica israeliana di infiltrarsi nel villaggio di Al-Qawzah, dal lato meridionale, i militanti di Hezbollah si sono scontrati con loro usando le mitragliatrici”, ha dichiarato il gruppo in un comunicato. I combattenti di Hezbollah hanno anche fatto esplodere ordigni esplosivi contro i soldati israeliani e "si sono scontrati con loro mentre tentavano di infiltrarsi" due volte nei pressi del villaggio libanese di Ramia, ha affermato il gruppo. Hezbollah ha anche dichiarato di aver lanciato "dei razzi" contro soldati israeliani nel villaggio di Maroun al-Ras, vicino al confine tra Libano e Israele. 

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Dall'inizio della guerra, il Paese ha perso 14 milioni di cittadini — da 42 a 28 milioni — in gran parte fuggiti o riparati all'estero. Un'emorragia che include donne, minorenni e disertori, e rischia di lasciare l'Ucraina con una carenza di forza lavoro e una crisi sociale a lungo termine.

https://www.youtube.com/shorts/liC-y3vqEfY

 

 

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Con una lettera aperta, un gruppo di riservisti ha dichiarato il rifiuto a combattere fino a quando non ci sarà un accordo per liberare gli ostaggi. Rischiano fino a un anno di carcere

Carristi israeliani al confine con il Libano Carristi israeliani al confine con il Libano - Ansa

«Not in their name», «non nel loro nome». Michael Ofer Ziv sintetizza così il motivo che ha spinto lui e altri 129 soldati israeliani a dichiarare lo sciopero dal servizio fin quando il premier Benjamin Netanyahu non raggiungerà un accordo per il rilascio dei 101 ostaggi ancora prigionieri a Gaza. «Non sono più disposto a uccidere o a morire per un governo che non rappresenta né me né gli interessi del Paese. È il mio punto di vista ma è anche il sentire comune di quanti hanno deciso di firmare la lettera aperta all’esecutivo e al ministero della Difesa», afferma il 29enne impiegato nel settore dell’high-tech che, tra ottobre e dicembre, per tre mesi, ha prestato servizio come riservista e ufficiale di fanteria nella Brigata Gerusalemme nel nord di Gaza. Prima di entrare nella Striscia, è stato per alcune settimane a Sde Teiman, la base diventata tragicamente nota per gli abusi sui detenuti palestinesi. «Ma non mi trovavo nella parte “incriminata” del compound», precisa. Il documento, sottoscritto a settembre, è diventato pubblico questa settimana, suscitando scalpore nell’opinione pubblica nazionale. L’esercito – Tzahal, dall’acronimo – è uno dei pilastri di Israele: ragazzi e ragazze prestano servizio militare obbligatorio da uno a tre anni. Al termine, inoltre, sono arruolabili come riservisti per i successivi vent’anni. Solo un’esigua minoranza rifiuta la chiamata, anzi molti si rendono disponibili anche dopo, come volontari. Contribuire alla difesa è un valore socialmente condiviso. Dopo il massacro di Hamas, le defezioni si sono praticamente azzerate.

Dan Eliav, all’epoca 63enne e, dunque, esentato, anzi ha fatto di tutto per tornare sul campo. Ci è riuscito entrando nella guardia di sicurezza della comunità in cui risiede, Zichron Yaakov, vicino ad Haifa. Per questo, si presenta all’appuntamento alle porte di Gerusalemme con il fucile d’ordinanza in spalla. «L’ho tenuto nonostante abbia lasciato. Ero nella mia fattoria al sud e là mi sento più sicuro con questa», dice, a mo’ di giustificazione, indicando la voluminosa arma. “All’indomani del 7 ottobre ho avvertito l’urgenza di combattere per la sopravvivenza di Israele. E l’ho fatto – racconta –. Ora, però, la minaccia è stata rimossa. Non si tratta più, dunque, della salvaguardia del Paese bensì della volontà del premier di prolungare a oltranza il conflitto per raggiungere i propri obiettivi. Cioè restare al potere il più a lungo e evitare i processi. Un’agenda che si combina perfettamente con quella della sua base sociale: i coloni e gli ultraortodossi ai quali la deflagrazione offre l’opportunità di realizzare il proprio sogno della “grande Israele” mediante la rioccupazione della Striscia e del sud del Libano. Tzahal, come dice la parola stessa, è un esercito di difesa: deve garantire la sicurezza del Paese. E quest’ultima non si ottiene solo con la forza, bensì con la politica e il negoziato. Proprio quanto Netanyahu ostinatamente rifiuta».

 

«Lo abbiamo compreso di colpo a novembre quando, dopo il primo accordo con cui sono stati rilasciati 105 sequestrati, l’esecutivo ha deciso di riprendere i combattimenti», afferma uno dei 64 che hanno firmato la lettera con il proprio nome ma che ora chiede di restare anonimo per tenere un basso profilo. Allora, il ricercatore 26enne era arruolato nel Battaglione 923, in servizio a Beer Sheva. «All’inizio pensavo di essere là per una causa concreta: salvare le vite dei civili nel sud. Poi, man mano che diventava palese la distruzione massiccia della Striscia, mi sono reso conto che le ragioni erano ben altre – racconta di fronte a un lunghissimo caffè americano –. Per questo, quando mi hanno offerto di entrare a Gaza, ho detto no».

Da tali riflessioni è scaturito, ad aprile, un primo documento che minacciava l’obiezione in seguito all’incursione dell’esercito a Rafah dove erano ammassati quasi due milioni di profughi. Micheal, Dan e il 26enne l’hanno sottoscritto, insieme a 39 colleghi. Cinque mesi dopo, quando è stato lanciato un nuovo documento, le adesioni sono triplicate. «Le ragioni sono due: il protrarsi del conflitto e l’avere scelto di concentrarci sull’urgenza di riportare a casa gli ostaggi, su cui c’è ampio consenso nella società israeliana», sottolinea il ricercatore 26enne. «Il ritorno degli ostaggi tocca i fondamenti etici su cui si basa l’identità stessa Israele: la cura reciproca e la certezza di non lasciare indietro nessuno – ribadisce Dan –. Consentire che vengano meno, con l’abbandono dei rapiti, vuol dire mutare il Dna del Paese. Israele non sarebbe più ciò che è. Salvare l’essenza della nazione è la vera battaglia che dobbiamo combattere». Il costo può essere salato. Chi rifiuta di tornare in servizio come riservista rischia fino a un anno di carcere.

 

Sia Michael sia il 26enne l’anno fatto: il primo a giugno, il secondo una settimana fa. Possono, dunque, essere processati in ogni momento. «Ne varrebbe la pena», dice Michael. «La reazione furibonda della ministra dei Trasporti, Miri Regev, la quale, sbattendo un pugno sul tavolo, ha minacciato di farci arrestare tutti e 130, indica che abbiamo toccato un punto cruciale», aggiunge Dan. L’esercito, da parte sua, minimizza. Alla richiesta di un commento si è limitato a rispondere: «Ci risulta che solo cinque dei firmatari siano in servizio come riservisti. L’effetto reale non è, dunque, rilevante». «Rispetto alla lettera di aprile – conclude il 26enne –, stavolta stiamo ricevendo molti più messaggi da colleghi che, pur non avendo aderito, condividono la nostra posizione. La pressione internazionale è condizione necessaria ma non sufficiente per fermare la guerra. Occorre anche l’opposizione interna. Esiste. Si tratta solo di farla emergere. Ciascuno di noi deve fare la sua parte»

 

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