Striscia continua Il leader di Hamas è stato ucciso mercoledì a Rafah in uno scontro con soldati israeliani. Il movimento islamista pensa a nuovo capo. Ieri altra strage in una scuola. 28 palestinesi sono stati uccisi da un bombardamento aereo a Jabaliya
Un dimostrante regge un cartello sull'uccisione di Sinwar durante una protesta a Tel Aviv – Arie
Schalit/Ap
La conferma dell’esercito israeliano dell’uccisione di Yahya Sinwar è giunta intorno alle 20 locali. Ma la morte del leader di Hamas, mercoledì in uno scontro a fuoco a Rafah, appariva certa già un paio d’ore prima, sebbene dal movimento islamico non fosse giunta alcuna conferma alle notizie diffuse nel pomeriggio dai media israeliani. Il test del Dna e l’esame dell’arcata dentale – Sinwar era stato per una ventina d’anni in carcere in Israele – hanno consentito a Israele di confermare la morte del capo di Hamas.
PER ORE si sono susseguiti i messaggi di soddisfazione, anzi di vittoria, degli israeliani sui social e i media tradizionali. Dal capo dello stato Herzog al cittadino comune. Non pochi, soprattutto all’estero, si sono domandati se l’uscita di scena di Sinwar, cercata da Israele in ogni modo, servirà al premier Netanyahu per mettere fine alle offensive militari in corso. Nulla di tutto ciò. La guerra continua. Netanyahu è stato chiaro ieri sera nel ribadire che la macchina bellica israeliana non si ferma.
La morte di Sinwar non è avvenuta per un «assassinio mirato», come è stato per il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, o per un attentato come nel caso di Ismail Haniyeh, il predecessore di Sinwar. Il leader di Hamas che per un anno si riteneva nascosto notte e giorno in una delle gallerie costruite nel sottosuolo di Gaza, invece era all’aperto, assieme a combattenti del suo movimento, nella zona di Tel el Sultan a Rafah. I soldati hanno avvistato un gruppo di uomini armati entrare in un edificio e hanno chiesto a un carro armato di aprire il fuoco.
TRE I PALESTINESI UCCISI. Mentre ispezionavano i danni, i soldati si sono resi conto che uno dei tre morti somigliava a Sinwar e indossava un giubbotto militare con dentro delle granate. Da lì è partito tutto. Come siano andate le cose non è del tutto chiaro. A molti a Gaza è apparso strano che Sinwar fosse all’aperto mentre veniva ricercato più di ogni altro dall’intelligence israeliana.
Incontenibile la soddisfazione di Netanyahu che vede rafforzarsi la sua posizione e recupera i consensi perduti per il fallimento del 7 ottobre. «Cittadini di Israele, vi dico che Yahya Sinwar è morto…Il conto è stato pagato», ha detto Netanyahu parlando alla nazione.
Sorvolando sui bombardamenti israeliani che hanno ucciso oltre 40mila palestinesi, fatto circa 100mila feriti, distrutto Gaza, gettato nella fame e sfollato oltre due milioni di civili, Netanyahu si è proposto come un improbabile «liberatore» dei palestinesi. «Cittadini di Gaza, Sinwar vi ha rovinato la vita. Vi ha raccontato di essere un leone ma si è nascosto dentro i tunnel…La sua eliminazione è un importante momento di passaggio nel tramonto del governo di Hamas. Hamas non governerà più nella Striscia, questo è l’inizio del giorno dopo Hamas. È l’opportunità per Gaza di liberarsi dalla dittatura». Quindi ha lanciato un’offerta. «Faccio appello a tutti coloro che tengono i nostri ostaggi: a chiunque li libererà e deporrà le armi, permetteremo di andarsene e continuare a vivere», ha affermato.
NETANYAHU CANTA VITTORIA, ma gli ostaggi restano una ferita aperta. Dopo l’uccisione di Sinwar, i famigliari gli chiedono di raggiungere l’accordo di tregua e di scambio di prigionieri con Hamas che ha evitato per un anno. «Alle famiglie dei rapiti dico, questo è un momento importante della guerra, continueremo con tutta la forza a lavorare per farli tornare a casa… la guerra è ancora in corso e ha un prezzo», ha detto Netanyahu deciso a portare avanti la sua linea del pugno di ferro. Per gli israeliani e non solo per Netanyahu la vendetta si è compiuta. Le parole di Joe Biden che ieri sera esortava a chiudere l’offensiva in corso contro Gaza sono destinate a cadere nel vuoto.
Sinwar, sfuggito agli attacchi israeliani, era diventato il simbolo della resistenza palestinese all’occupazione. A Gaza la notizia della sua morte è stata un fulmine a ciel sereno in una giornata in cui si è registrato l’ennesimo massacro in una scuola. Almeno 28 palestinesi sono stati uccisi e decine feriti in un attacco aereo israeliano su un centro di accoglienza della scuola Abu Hussein nel campo profughi di Jabaliya. La maggior parte delle vittime erano bambini. Ancora una volta Israele ha giustificato il raid su una scuola con la presunta presenza all’interno di un «centro di comando» di Hamas. Altri morti a Gaza city, Khan Yunis e Deir al Balah.
«La notizia della morte di Sinwar ha fatto subito il giro della Striscia», ci riferiva ieri un giornalista di Gaza chiedendoci di non rivelare il suo nome, «molti hanno commentato che era solo propaganda di Israele. Altri invece hanno capito che Sinwar era morto e che gli israeliani non mentivano. Era stimato, un simbolo per quelli di Hamas e per i palestinesi in generale, ma non era immune dalle critiche. A bassa voce non pochi gli rimproveravano di aver dato a Israele l’opportunità di distruggere Gaza e di mettere in atto i piani che preparava da anni».
HAMAS IERI SERA non aveva ancora confermato la morte del suo leader, nominato appena due mesi fa in sostituzione di Ismail Haniyeh. Ma sta già pensando al successore. «Potrebbe nominare un leader nella Striscia e uno all’estero» prevede il giornalista di Gaza «non subito però, la leadership rimarrà collegiale per un certo periodo di tempo. È possibile che a capo del movimento a Gaza sia nominato Mohammad Sinwar, fratello più giovane (del leader ucciso) con posizioni oltranziste e adatto alla guerra con Israele che Hamas pensa dovrà combattere a Gaza ancora a lungo». Leader all’estero, ha aggiunto, «potrebbe diventare Musa Abu Marzouk, politico pragmatico che ha vissuto negli Usa per diversi anni e in grado di svolgere un ruolo decisivo nelle relazioni internazionali del movimento»
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Sciopero e corteo. Dopo trent’anni tornano in piazza uniti i metalmeccanici dell’auto. Contro Stellantis, che non investe e chiude, e contro le bugie del governo. Per la giusta transizione elettrica che salvaguardi il lavoro
Tempi Moderni Corteo da piazza Barberini a piazza del Popolo. Di nuovo unite Fim, Fiom e Uilm dopo la rottura dell'era Marchionne
Lo sciopero unitario dei lavoratori Stellantis a Torino lo scorso aprile
L’ultima volta accadde nel 1994. Questa mattina a Roma si ritroveranno tutti i lavoratori del settore auto in Italia. Fim, Fiom e Uilm hanno indetto lo sciopero generale con manifestazione nazionale e corteo da piazza Barberini (ritrovo ore 9,30) a piazza del Popolo al grido di “Cambiamo marcia: acceleriamo verso un futuro più giusto». Uno sciopero contro Stellantis, che continua ad annunciare cassa integrazione in tutti gli stabilimenti e ritarda gli investimenti, e contro il governo Meloni e il ministro Urso che dall’agosto 2023 annuncia un accordo con Stellantis per produrre un milione di veicoli senza mai averlo neanche trattato.
Il dramma della perdita del lavoro ha già colpito parecchie imprese della componentistica (Lear in testa) che lavoravano anche per i produttori tedeschi e i chiari di luna per Volkswagen delineano un quadro molto pesante: ci sono 2.400 aziende e 280 mila lavoratori in gran parte a rischio. Nel gruppo ex Fiat invece dal 2014 (era Marchionne) a oggi sono usciti ben 11.500 lavoratori e nel 2024 sono previste altre 3.800 uscite incentivate.
Nella recente audizione in parlamento, Tavares ha ribadito la richiesta di più incentivi per colmare il gap di costi fra le auto elettriche e quelle endotermiche pari al 40%. Ma è chiaro che l’Italia ha una sua specificità unica: solo qui c’è un calo di produzione del 66% negli ultimi 20 anni mentre imperversa l’italian automotive sounding: gli storici marchi vengono prodotti nell’Est europa o in Africa, vere delocalizzazioni.
La novità di oggi viene proprio dalla politica. Dopo decenni in cui il centro sinistra ha appoggiato Marchionne e il Jobs act, questa mattina in piazza ci saranno tutti i leader di partito, da Elly Schlein a Giuseppe Conte, da Nicola Fratoianni a Carlo Calenda (speriamo per lui non incontri operai ex Embraco).
La richiesta di Fim, Fiom e Uilm è di aprire una trattativa a palazzo Chigi per un piano straordinario che rilanci la produzione in Italia, ma Giorgia Meloni non ha mai risposto.
In piazza ci saranno anche i tre leader confederali Landini, Bombardieri e Sbarra in una pausa dalle divisioni che ripartiranno già da domani quando Cgil e Uil saranno sempre a piazza del Popolo per protestare per i tagli alla sanità e il mancato rinnovo dei contratti pubblici.
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Manifestazione degli alluvionati romagnoli a Bologna in concomitanza con il nuovo sopralluogo a Faenza di Irene Priolo, presidente facente funzione dell’Emilia-Romagna e commissario all’alluvione del settembre 2024. Nel primo pomeriggio Priolo ha incontrato i giornalisti in Comune a Faenza.
Diversi i temi affrontati, a cominciare da CAS e CIS non ancora erogati per l’alluvione di settembre. È stato richiesto di portare il CIS a 10 mila euro per i privati, a 20 mila euro per aziende e negozi.
A Traversara si sta portando l’argine in quota lasciando tempo al terreno di compattarsi.
Dalla Regione è arrivato il via libera definitivo per i lavori in destra Marzeno per la messa in sicurezza del borgo di Faenza
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«Apre la riunione la Sig.ra Elena Ugolini (...) Comunica che il Gen. Figliuolo e il T.Col. Martella le hanno mandato migliaia di documenti, così come è riuscita ad avere accesso a tanti documenti anche della Regione, per cui è disponibile a metterli a disposizione in caso di richiesta».
Poche righe di un freddo verbale riassuntivo, ma abbastanza per aprire interrogativi legittimi nel corso di una campagna elettorale dove il tema alluvione appare più che mai portante. Ma per capire i contorni della vicenda bisogna fare un piccolo passo indietro e contestualizzare quelle parole pronunciate lo scorso 12 ottobre a Faenza. Quel giorno, nella sala Attanasio di via papa Giovanni Paolo II, è in programma un incontro (a cui la stampa non è ammessa) con i vari comitati romagnoli degli alluvionati. Sono presenti quelli di Traversara e di Faenza, ma anche i tanti danneggiati dall’alluvione del 2023 nel Ravennate, nel Cesenate e le “Vittime del fango” di Forlì. Stando al verbale (redatto e firmato da due aderenti ai comitati) la prima a prendere la parola è proprio la candidata Elena Ugolini che ai presenti dice appunto di aver avuto dal commissario straordinario Francesco Paolo Figliuolo e da un suo collaboratore migliaia di documenti e di aver accesso a tanti documenti anche della Regione. Documenti che è pronta a mettere a disposizione dei comitati.
Circostanza che, anche alla luce dei rapporti non più ottimali tra generale ed enti locali, non può che “incuriosire”. Anche perché - in attesa dell’esito del voto - Ugolini è al momento una privata cittadina. Esattamente come i residenti di Traversara e Faenza che il Commissario non lo hanno visto da tempo, nemmeno dopo il dramma di settembre. Né tantomeno dopo l’ultima visita in Romagna, quando il generale si fermò a Premilcuore e Portico specificando di essere il commissario straordinario “solo dell’alluvione 2023”, per il resto rivolgersi a Irene Priolo. Ecco perché le modalità di quei contatti, trapelate peraltro casualmente, prestano ora inevitabilmente il fianco a pensieri di calcolo elettorale tra la candidata di centrodestra e il commissario nominato da Meloni proprio al posto di Bonaccini. Resta poi il dubbio di sapere che tipo di documenti fossero. Dallo staff di Ugolini confermano la circostanza, ma specificano: «Chiaramente “migliaia di documenti” è un modo di dire, ma i contatti con Figliuolo ci sono stati dopo l’ultima alluvione. Nulla di segreto, era un modo per interessarsi alle comunità colpite direttamente»
Commenta (0 Commenti)Manovra Nel 2025 la spesa sanitaria salirà appena dello 0,04% del Pil: circa 8-900 milioni
Il ministro Giorgetti ha dovuto ammettere che nella legge di bilancio per la sanità non ci saranno i 3,7 miliardi di cui ancora martedì si favoleggiava al ministero della salute. Lo ha ribadito nella conferenza stampa di ieri mattina in cui ha illustrato la manovra: «Manteniamo invariata la percentuale rispetto al Pil» ha detto, riferendosi al fondo sanitario nazionale che impegna circa 130 miliardi di euro. Se il Pil aumenterà poco sopra l’1% come previsto, il conto è presto fatto: alla salute nel 2025 andranno meno di due miliardi in più con cui le Regioni dovranno coprire l’aumento fisiologico dei prezzi e dei salari del personale. Molto meno di quanto sperato, e di quanto richiede lo stato della sanità pubblica.
Non è la prima volta che Giorgetti esprime l’intenzione di tenere costante il rapporto tra spesa sanitaria e Pil, già molto inferiore a quello di Francia e Germania. Ad alimentare l’ambiguità era stato però lo stesso ministro della salute Orazio Schillaci, che il giorno prima si era detto fiducioso su un investimento di «oltre tre miliardi», lasciando intendere che il governo avesse davvero intenzione di rilanciare il settore con nuove assunzioni. Invece no: rispetto a quanto già deciso, la spesa sanitaria nel 2025 aumenterà appena dello 0,04% del Pil, oggi poco sopra i duemila miliardi. Cioè di circa 8-900 milioni, altro che 3,7 miliardi. A questa cifra va sommato il miliardo già messo in manovra l’anno scorso per il 2025, e così non si arriva nemmeno a due. A chiarirlo è anche il Documento programmatico di bilancio (Dpb) inviato ieri a Bruxelles, in cui le spese previste dal governo nel triennio 2024-2026 sono messe nero su bianco. Secondo il Dpb i tre miliardi promessi arriveranno solo nel 2026, quando la spesa sanitaria salirà dello 0,15% del Pil.
Nel 2025, l’aumento della spesa sanitaria sarà in linea con l’inflazione e con la variazione del Pil come auspica Giorgetti. In sostanza, per la sanità non cambierà quasi niente. Secondo il ministro dell’economia è già qualcosa: «Credo che il meno deluso debba essere Schillaci», ha detto alludendo allo scontento degli altri membri del governo a cui toccheranno tagli lineari. Ma ora in tanti lamentano l’inconsistenza di un ministro della salute che si spreca negli annunci e poi raccoglie regolarmente le briciole senza fiatare. «Si fanno piani e promesse molto ambiziosi – osserva Marina Sereni, responsabile salute nella segreteria del Pd – e poi non si trovano le risorse necessarie per realizzare tutto questo». «Se non ti danno i finanziamenti sei un tecnico, devi battere i pugni, devi farti valere e nel caso metti sul tavolo le dimissioni» consiglia Giuseppe Conte a Schillaci. Ironico e amaro Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe: «Il ministero della Salute può ormai essere considerato senza portafoglio».
Anche lo stop al numero chiuso nelle facoltà di medicina annunciato dalla ministra Bernini non è quel che sembra. Bernini ha provato a accontentare necessità opposte: da un lato, quella di aumentare il numero di medici soprattutto in alcuni settori come la medicina d’urgenza e la rianimazione; dall’altro, l’opposizione storica dell’ordine dei medici e della associazioni di categoria alla liberalizzazione delle facoltà. Sullo sfondo, i tagli che non hanno certo risparmiato le università. E allora la ministra ha preferito varare un compromesso al ribasso.
Il disegno di legge delega approvato ieri dalla Commissione istruzione del Senato prevede che a medicina ci si potrà iscrivere liberamente ma con una selezione rimandata al primo semestre dopo esami «caratterizzanti» e in base a criteri ancora da stabilire. Tutto senza un euro in più. E infatti il presidente dell’ordine dei medici Filippo Anelli festeggia: «L’abolizione del test di accesso a Medicina non toglierà il numero programmato: è sicuramente una buona notizia». Mentre le opposizioni protestano perché il numero chiuso è solo spostato di qualche mese, senza risorse per accogliere gli studenti in più e con un prevedibile scadimento della didattica. Dura la segreteria Pd, per voce di Sereni e del responsabile università Alfredo D’Attorre: «Un puro imbroglio a fini propagandistici»
Commenta (0 Commenti)Medio Oriente Onu e ong denunciano la chiusura, i soldati israeliani confermano: il Piano dei Generali è già in atto. Costi folli al mercato nero, un mix di scarsità e oligopolio: al nord un chilo di cetrioli costa 150 dollari, 25 chili di farina mille. E l’83% del cibo non arriva a destinazione. E in Libano nuovi spari su Unifil
Camion di aiuti umanitari per Gaza, ieri, fermi nella città egiziana di Arish – Ali Moustafa/Getty Images
«La gente è in modalità sopravvivenza». Rachael Cummings, specialista per la salute di Save the Children, riassume in poche durissime parole la quotidianità di Gaza: «La gente cerca cibo, cerca acqua». L’indispensabile a sopravvivere, appunto. Una battaglia giornaliera che nel nord è pratica estrema.
L’assedio totale imposto dall’esercito israeliano da dodici giorni è un puzzle di cecchini che sparano a vista, artiglieria e raid aerei, ospedali circondati e aiuti fantasmi. Lo ha detto ieri l’Onu: mai dal 7 ottobre 2023 si era raggiunto un simile record negativo nella consegna (mancata) degli aiuti umanitari, «le peggiori restrizioni» imposte da Israele, dice James Elder, portavoce di Unicef.
IL NORD È ISOLATO, non entrano cibo, acqua e medicine. La questione è centrale, sul piano pratico – della sopravvivenza di cui sopra – e sul piano politico. C’è quello delle autorità israeliane che, confermano alcuni soldati ad Haaretz, stanno già implementando il cosiddetto Piano dei Generali («I comandanti dicono apertamente che il Piano Eiland è promosso dall’Idf»; «Lo scopo è dare ai residenti che vivono a nord dell’area di Netzarim una scadenza per trasferirsi a sud. Dopo, chiunque rimarrà nel nord sarà considerato un nemico e verrà ucciso»).
Obiettivo, lo svuotamento di Gaza nord per creare una zona cuscinetto, che il governo a mezza bocca descrive come necessaria alla sicurezza di Israele ma che l’ultradestra – più sfacciata e priva di remore – ritiene il primo passo per una nuova fase di colonizzazione del territorio palestinese.
E poi c’è il piano esterno, diplomatico. Domenica in una lettera inviata all’esecutivo di Tel Aviv, il segretario di stato Usa Antony Blinken e quello alla difesa Lloyd Austin avevano avvertito della possibilità di limitare l’invio di armi se i camion umanitari non avessero varcato il confine invisibile tra nord e centro di Gaza. Ieri a parlare è stata l’ambasciatrice statunitense alle Nazioni unite, Linda Thomas-Greenfield: «Una politica di fame nel nord di Gaza sarebbe orribile e inaccettabile e avrebbe conseguenze secondo il diritto internazionale e la legge statunitense».
La risposta, indiretta, è giunta ieri dall’esercito israeliano che fa sapere di aver autorizzato il transito di 50 camion provenienti dalla Giordania verso le zone assediate. Non si sa se e quando arriveranno, sono comunque quella goccia nel mare descritta ieri nell’ultimo rapporto di Oxfam: l’83% degli aiuti diretti a Gaza non arrivano a destinazione. L’Unrwa ha paura: siamo vicini al «punto di rottura, quando non saremo più in grado di operare».
GLI AIUTI non arrivano e il poco che c’è ha i costi folli del mercato nero, un mix di scarsità e oligopolio, quello di chi i beni li ha perché se li è presi con la forza. I prezzi li ha ricostruiti l’AjLabs di al Jazeera: un chilo di cetrioli costa 150 dollari a nord, otto a sud (un dollaro prima dell’offensiva); un chilo di pomodori 180 dollari a nord, 12 a sud (prima, un dollaro); 25 chili di farina mille dollari a nord, 150 a sud (dai nove di un anno fa); il latte in polvere 85 dollari a nord e 12 a sud (costava tre dollari). Il 96% della popolazione soffre per la carenza di cibo, il 20% è alla fame.
Ieri Algeria, Francia e Gran Bretagna hanno chiesto una riunione urgente del Consiglio di Sicurezza per discutere della crisi umanitaria (per mano umana) a Gaza e chiedere a Israele di garantire l’arrivo di beni salvavita. Se l’attivismo di Parigi e Londra potrebbe segnalare un mini-riposizionamento, per lo meno sul piano umanitario, manca ancora il riconoscimento di un circolo vizioso politico.
Lo vediamo ripetersi con cadenza regolare e ravvicinata da un anno, denunciato da mesi dalle organizzazioni umanitarie e dalle ong che accusano Israele di usare la fame come arma di guerra di lungo periodo: rendere Gaza un luogo inadatto alla vita, presente e futura. Nessuna via di uscita, nemmeno per Israele, denunciano sulle colonne dei quotidiani israeliani diversi analisti militari che, come Yagil Levy, definiscono strategia «senza senso» «l’idea che Gaza possa essere un campo di concentramento, dove ogni persona si muove secondo il volere d’Israele…Il 7 ottobre dovrebbe averci reso chiaro che è impossibile tenere milioni di persone sotto assedio».
INTANTO, PERÒ, il numero di uccisi a Gaza sfiorava ieri i 42.500 (più 10mila dispersi), di cui 350 uccisi nel campo profughi di Jabaliya solo negli ultimi 12 giorni di assedio. «Intere famiglie al nord sono scomparse», ha raccontato ieri Mounir al-Bursh, direttore del ministero della salute di Gaza.
E l’offensiva prosegue anche in Libano, «nuovo» fronte di guerra. Il bombardamento peggiore ha colpito Nabatieh, nel sud, otto raid aerei che hanno centrato anche il municipio: tra i 16 uccisi, c’è il sindaco Ahmad Kahi. «I soccorritori stanno cercando tra le macerie», racconta il giornalista Imran Khan dal luogo in cui pochi giorni fa a essere bombardato era stato il mercato storico cittadino, «completamente distrutto dalle fiamme».
Altri 15 gli uccisi nella cittadina di Qana e bombe anche su Beirut, poche ore dopo la richiesta degli Stati uniti a Israele: basta raid sulla capitale. In serata Unifil ha riportato di nuovi colpi sparati da un carro armato israeliano, «diretti e apparentemente deliberati» contro una postazione della missione Onu nel sud libanese: due telecamere distrutte e la torretta di osservazione danneggiata.
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