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La strage in mare Il presidente della Fondazione Migrantes sui quasi 50 morti davanti Lampedusa: «Bisogna accompagnare le persone, non bloccarle. Dobbiamo difenderci dal riarmo, non dai migranti. Pensare che avere un arsenale pieno sia uno strumento di sicurezza è un’illusione che qualcuno vuole coltivare»

Monsignor Perego: «Il silenzio del governo sul naufragio nasconde le sue responsabilità» Monsignor Gian Carlo Perego, presidente della Fondazione Migrantes

Dieci superstiti, sei cadaveri e altre quaranta persone inghiottite dal mare è il bilancio dell’ennesima strage avvenuta martedì a poche miglia da Lampedusa, nel mutismo di autorità e governo. «Un silenzio che aggrava il disinteresse rispetto a una politica del Mediterraneo che si prenda cura delle persone in fuga», afferma monsignor Gian Carlo Perego, arcivescovo di Ferrara-Comacchio e presidente della Fondazione Migrantes, organismo pastorale della Confederazione episcopale italiana (Cei).

Il governo non ha rilasciato nessuna dichiarazione su questo grande naufragio. Aveva altre priorità o è una scelta?
Mi pare sia una scelta per cercare di lasciar cadere in secondo piano la sua forte responsabilità, quella di un governo che ha sostanzialmente abbandonato la cura del Mediterraneo e delle persone che lo attraversano. Il silenzio aggrava questo disinteresse a una politica del mare che non sia di abbandono, rimpatrio e affidamento ad altri del doversi occupare delle persone in fuga anziché farlo in prima persona. Con un’operazione che avrebbe dovuto coinvolgere ancora una volta l’Europa.

Anche i media, con poche eccezioni, hanno evitato di dare rilevanza alla nuova strage. Dopo Cutro l’Italia si è stancata di vedere questi morti?
Si è girata dall’altra parte. Purtroppo si mostra disinteresse per l’appello che papa Francesco fece a Lampedusa chiedendo «Dov’è tuo fratello?», le parole della Genesi con cui il Signore ricordava a Caino di Abele. C’è un’indifferenza che cresce anche dentro un’opinione pubblica fortemente condizionata dall’idea di arrendersi di fronte al dramma di queste persone.

Migrantes ha parlato di «una tragedia evitabile». Come si possono evitare queste tragedie?
Lo abbiamo detto tante volte. Il Mediterraneo è una delle strade attraverso le quali rigenerare l’Europa con persone che sono in fuga, ma dentro di sé hanno anche tanta speranza, grande capacità e forza di rinnovamento. L’abbandono del Mediterraneo è il primo aspetto colpevole, mentre ci dovrebbe essere attenzione a farlo diventare una strada per vie legali di ingresso, per la capacità di ciascuno di riconoscere in queste persone una risorsa importante per le nostre città che, come sappiamo, stanno morendo. Poi si possono evitare anche attraverso i canali legali, che mancano da vent’anni perché sono sostituiti da quote per quanto riguarda i lavoratori e da nessun interesse, se non quello dei corridoi umanitari, per quanto riguarda i richiedenti asilo e i rifugiati.

Secondo la premier Meloni il modo per fermare le morti in mare è bloccare le partenze. Magari con gli accordi con Tunisia e Libia. È d’accordo?
Assolutamente no. Noi non abbiamo bisogno di bloccare le persone, abbiamo bisogno di accompagnarle nei luoghi, nelle città, nei territori dove hanno già una comunità di riferimento, dove c’è esigenza non di manodopera da sfruttare ma di nuovi lavoratori e nuovi lavori, di persone che con la storia, la freschezza e la capacità che hanno dentro possano da una parte rigenerare le nostre città e dall’altra costituire una risorsa per una vera cooperazione allo sviluppo nel loro paese, come lo furono i nostri emigranti. Non dimentichiamo che le rimesse sono sempre state il volano più importante per la cooperazione allo sviluppo: le politiche migratorie e di sviluppo camminano insieme. Diversamente c’è il rischio che una annulli l’altra.

Secondo il governo un altro strumento per ridurre le traversate sono i centri in Albania, che dovrebbero produrre un effetto dissuasivo. Funzioneranno?
È sotto gli occhi di tutti che, al di là di rappresentare un grande spreco di risorse gettate a mare, al momento sono chiusi. Anche se potrebbero tornare a essere delle carceri, dei lager per persone che si vogliono non rimpatriare ma mandare in un luogo altro rispetto al loro paese. Da questo punto di vista sono una soluzione, oltre che costosa, disumana e già condannata dal diritto internazionale.

Oggi ci sono leader statunitensi ed europei che dicono: la principale minaccia per l’Europa non è la guerra, ma i migranti. Dobbiamo difenderci?
Dobbiamo difenderci dal riarmo, questo sì. Pensare che avere un arsenale pieno di armi e le città vuote di migranti sia uno strumento di sicurezza è un’illusione che qualcuno vuole coltivare. Ma non genera altro che morte perché diventa il sonno della ragione, come diceva Piero Calamandrei.

La scorsa settimana papa Francesco ha scritto «la guerra è assurda, disarmiamo la terra». È una prospettiva utopistica o persino in un momento come questo c’è spazio per praticarla?
Anche adesso, anzi ancora di più adesso c’è spazio per praticarla. Perché armarsi equivale ad avere in casa e fuori casa un pericolo in più. Il disarmo significa invece avere sicurezza e pace, che è la condizione necessaria perché le persone possano crescere e le città rinnovarsi.