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Palestina/Israele Cannoni ad acqua contro chi manifesta per la cacciata del capo dei servizi. Ronen Bar, uno che ha passato la vita a sorvegliare e punire i palestinesi, diviene il surreale simbolo di un autoritarismo conclamato. Nella Striscia al via operazione di terra a Rafah e Beit Lahiya. La protezione civile non ha più i mezzi per scavare e i medici devono amputare senza anestesia

Sfollati palestinesi si scaldano davanti a un falò in una tendopoli a Gaza City foto Epa/Haitham Imad Sfollati palestinesi si scaldano davanti a un falò in una tendopoli a Gaza City – Epa/Haitham Imad

Cannoni ad acqua, spray urticante, liquido chimico maleodorante, barricate: migliaia di israeliani in marcia verso la residenza gerusalemita di Benjamin Netanyahu sono stati dispersi con i metodi che finora nella città santa sono stati riservati ai manifestanti palestinesi. A differenza delle proteste a Gerusalemme est, sono mancati lacrimogeni, botte e arresti indiscriminati. Ma il senso è chiaro: il primo ministro non ammette sfide, per quanto minime, al suo potere e all’operazione di occupazione di ogni istituzione del paese.

ERANO QUALCHE MIGLIAIA a protestare in Azza Street (per un’orribile ironia del destino il premier vive in Via Gaza) contro il licenziamento del capo dei servizi interni, lo Shin Bet. Ronen Bar, uno che ha passato la vita a mettere in piedi sistemi di sorveglianza totale della popolazione palestinese come forma di oppressione e apartheid, diviene così il surreale simbolo di un autoritarismo ormai conclamato.

La polizia ha bloccato la marcia prima che arrivasse alla residenza di Netanyahu e l’ha dispersa quando ha tentato di superare le transenne. Era accaduto lo stesso ieri sera. Tra i manifestanti spintonati dalla polizia anche un ex parlamentare, Yair Golan: «Proteste e scioperi, sempre più frequenti, per mostrare il fallimento del governo». «Distruggeranno i nostri valori, la nostra giustizia e la nostra moralità», dice ad Haaretz uno dei manifestanti dispersi.

Altri nominano gli ostaggi, i 59 ancora a Gaza e che il governo ha ormai palesemente abbandonato a favore di obiettivi politici ben più succosi per l’ultradestra: la devastazione definitiva della Striscia. Per raggiungere lo scopo, Netanyahu ha ripreso l’offensiva assicurandosi il ritorno in maggioranza di Potere ebraico, il partito suprematista di Itamar Ben Gvir: con lui al suo fianco, Netanyahu è certo di incassare il via libera al fondamentale voto sul bilancio della prossima settimana.

TUTTO QUESTO lo paga Gaza, assente dalle proteste dentro Israele. I numeri della rinnovata ferocia sono impressionanti: 600 palestinesi uccisi in 72 ore da martedì, oltre cento solo ieri. Tra loro duecento bambini. Tra gli uccisi, dice l’esercito israeliano, «alcuni membri» di Hamas e uno del Jihad islami. Ci sono anche cinque dipendenti dell’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, l’Unrwa: dal 7 ottobre 2023 ne ha ammazzati 284.

Il bilancio dei massacri dalla rottura israeliana della tregua è

probabilmente al ribasso: la protezione civile ridotta a scavare a mani nude non riesce a raggiungere tutti i luoghi dei bombardamenti (anche a causa della minaccia dei droni israeliani) mentre si muore anche dentro gli ospedali, privi di tutto, di ferite curabili in altri contesti.

Nei giorni scorsi video girati nei pochi centri medici ancora operativi mostrano medici costretti ad amputare arti a bambini e adulti senza anestesia, perché non cr n’è e da quasi tre settimane Israele impedisce l’ingresso di qualsiasi aiuto umanitario, medico e alimentare. Di stragi se ne sono registrate ovunque, da nord a sud.

A Khan Younis una neonata di appena 25 giorni, Ella Osama Abu Dagga, è stata trovata viva dopo che un raid israeliano ha colpito la casa dove la sua famiglia aveva cercato rifugio: «È rimasta tra le macerie per ore, dall’alba. Strillava, piangeva», racconta un soccorritore. I genitori sono morti.

E MENTRE sulla Striscia tornano a piovere volantini che invocano lo sterminio dei palestinesi (tanti i dibattiti in Israele su chi li abbia lanciati, se sia iniziativa delle forze armate o di movimenti di ultradestra tra i soldati), l’esercito ha ripreso l’invasione di terra da sud, a Rafah, e da nord, a Beit Lahiya, città martire che ha subito mesi di assedio totale, esecuzioni sul posto, rifugi dati alle fiamme, taglio del cibo.

Poco più a sud, nel corridoio Netzarim ri-occupato Israele sta rimettendo in piedi le infrastrutture abbandonate, allargando la «zona cuscinetto» (da 500 metri ha già raggiunto gli otto chilometri, distruggendo le tendopoli spontanee sorte nei due mesi di tregua) e bloccando il passaggio dei civili. L’esercito ha ordinato, di nuovo ieri, altre evacuazioni forzate, al momento sarebbero 68mila i palestinesi costretti di nuovo a sfollare verso sud, in un circolo infinito di perdita e cacciata.

Nel pomeriggio Hamas ha lanciato razzi verso Tel Aviv, nessun danno, nella prima azione dopo la rottura della tregua. Intanto una sua delegazione ha raggiunto Il Cairo per provare a ricucire il negoziato. Dato in arrivo anche il team israeliano. Basem Naim, del politburo di Hamas, ha raccontato ieri che si stavano accorciando le distanze tra la proposta israeliana e la loro quando Netanyahu, a sorpresa, ha bombardato a tappeto Gaza, il 18 marzo.