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SETE D'ACQUA. In Pianura padana la situazione è drammatica spiega Bratti, segretario generale dell’Autorità distrettuale del Fiume Po

 Il ponte delle Barche sul fiume Ticino. Bereguardo (Pavia) - Ansa

«Non siamo di fronte a un terremoto, non dobbiamo affrontare oggi una situazione emergenziale sperando che la situazione si ripeta tra mille anni. Tutti gli scenari e i modelli che ho visto, anche in sede europea, ci dicono che questa situazione di temperature mediamente più alte e precipitazioni più scarse è una costante, se non altro destinata a peggiorare. Di fronte a tutto questo, esiste una strategia per la gestione della risorsa idrica? Al momento, a me non sembra», spiega al manifesto Alessandro Bratti, segretario generale dell’Autorità distrettuale del Fiume Po e vicepresidente dell’Agenzia europea per l’Ambiente. «Una strategia non c’è – ripete – e si fatica a capire che questa non è un’emergenza».

UNA SITUAZIONE che sta diventando normalità è quella fotografata nel bollettino diffuso ieri dall’Osservatorio sulle risorse idriche dell’Anbi, l’Associazione Nazionale Consorzi di gestione e tutela del territorio e acque irrigue: «Al rilevamento finale di Pontelagoscuro la portata del fiume Po è scesa a toccare 338,38 metri cubi al secondo, cioè oltre 100 mc/s in meno del minimo storico di aprile e ben al disotto dei 450 mc/s, considerati il limite sotto cui il fiume è inerme di fronte alla risalita del cuneo salino. Non solo: nel siccitosissimo 2022 questi dati vennero registrati il 4 giugno, vale a dire che il più importante corso d’acqua italiano vive una condizione di crisi idrica estrema, da monte a valle, con ben 40 giorni di anticipo sul drammatico anno scorso».

Il bollettino del Cnr di marzo certifica che il 35,3% delle aree agricole irrigue, negli scorsi 24 mesi, ha sofferto di siccità severa-estrema: inoltre, in Piemonte, Lombardia, Trentino ed Emilia, la combinazione «anomalia termica-deficit pluviometrico» ha raggiunto il livello massimo. Anche il Lago di Garda è ai minimi storici con un riempimento al 25,9% il 9 aprile.

L’altro ieri Bratti aveva lanciato un ulteriore allarme: «L’attuale prolungata condizione di siccità diffusa nel distretto del fiume Po rappresenta oggi la situazione di maggiore urgenza nel comprensorio padano, ma è fuori di dubbio che proprio gli stravolgimenti idro-meteo-climatici possono alternare a questi scenari anche possibili periodi in cui l’accumulo di risorsa idrica negli alvei del Grande Fiume e dei suoi 141 affluenti, a causa di precipitazioni copiose e improvvise, può mettere seriamente a repentaglio la sicurezza idraulica delle comunità rivierasche e dell’ambiente circostante».

Il 16% delle arginature del Grande Fiume sarebbe potenzialmente a rischio, in particolare nei comprensori di Pavia, Piacenza, Mantova, Ferrara e Rovigo. «Oggi pare che il tema non ci sia, ma basta che piova tanto in poco tempo, che ci troveremo ad affrontare, come un’emergenza, un altro problema, che è lì, nascosto dietro l’angolo anche se tutti fingono di dimenticarlo» sottolinea Bratti.

È COSÌ: IN AGENDA il tema dissesto idrogeologico è autunnale, mentre di siccità dovremmo parlare d’estate. Purtroppo, però, lo stiamo già facendo da alcuni anni a primavera e questo è di per sé indicativo degli effetti del cambiamento climatico.

BRATTI COMMENTA il decreto siccità da poco approvato dal governo che istituisce una cabina di regia, che fa capo al ministro delle infrastrutture Salvini. «Questa cabina di regia, da cui deriva anche la nomina di un commissario per contrastare gli effetti della siccità, è meglio di niente e può avere un senso per rendere più rapido lo sfangamento delle dighe o per completare qualche opera, ma questi interventi – posto che un anno e mezzo è davvero poco tempo – dovrebbero essere accompagnati dalla costruzione di una strategia che preveda una pianificazione sulla gestione della risorse idrica. È da studiare – spiega il segretario generale dell’Autorità distrettuale del Fiume Po, che è stato anche direttore generale dell’Ispra – ovviamente coinvolgendo il mondo agricolo, come attuare un vero risparmio idrico, favorendo l’utilizzo di tecnologie innovative ma anche capendo se ha senso proporre un modello sempre uguale o se serve iniziare a ragionare su colture diverse, meno idroesigenti».

Traduciamo: in Pianura Padana, nella valle assetata del fiume Po, ha ancora senso seminare mais per l’alimentazione animale, da destinare agli allevamenti intensivi? Che poi il problema non è solo del Po.

NEL NORD-EST, la situazione non è migliore, come rileva il bollettino mensile dell’Agenzia regionale veneta per l’ambiente (Arpav). Gli apporti meteorici mensili sul territorio regionale sono inferiori alla media (-43%) e sono stimabili in circa 683 milioni di metri cubi di acqua. Tra ottobre e marzo sono caduti sul Veneto mediamente 344 millimetri di precipitazioni, contro una media 1994-2022 di 513. Marzo è stato anche scarsamente nevoso: il deficit è stato di circa 100 centimetri a 2.000 metri, 60 a 1.600 e 30-40 nei fondovalle delle Dolomiti a 1.200 metri di quota.

La sommatoria di neve fresca dal primo ottobre al 31 marzo evidenzia un deficit del 40% circa, pari a 180 cm di neve a 2.000 metri, 130 cm a 1.600 m e 60-100 cm nei fondovalle. La risorsa idrica nivale è scarsa, simile all’inverno scorso, in calo da metà gennaio e pari a 82-88 millimetri cubi nel bacino del Piave, 57-68 nel Cordevole e a 56-54 nel Brenta. Rispetto alla media 2005-2022, nel Piave il deficit è del 64%.

È TEMPO DI RENDERE operativo il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici. Pichetto Fratin lo ha pubblicato a dicembre 2022, dopo l’inazione di Roberto Cingolani, però il tempo per affrontare seriamente la questione è quasi scaduto, come hanno ricordato il mese scorso i ricercatori del Centro euromediterraneo dei cambiamenti climatici presentando l’ultimo rapporto Ipcc

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IL PRESIDENTE BRASILIANO IN VISITA. La sfida consiste nel rafforzare i legami con Pechino senza irritare troppo gli Usa: linea rossa, la guerra. Ma la sua proposta di pace è hià stata cestinata da Kiev. Domani vede Xi Jinping, oggi è a Shangai per l'insediamento di Dilma Rousseff alla guida della nuova banca di sviluppo dei paesi Brics

Commerci (senza dollari), tecnologie e questione ucraina per Lula in Cina Pechino, le bandiere di Cina e Brasile ieri sulla Città Proibita - Ap

È finalmente cominciata ieri l’avventura di Lula in Cina, dopo il rinvio a cui il presidente era stato obbligato a marzo per una broncopolmonite. Accompagnato da una quarantina di autorità tra ministri, governatori e parlamentari, a cui si aggiungono circa 300 imprenditori, Lula si aspetta moltissimo dalla visita – riprogrammata in tempi record – a quello che dal 2009 è il principale socio commerciale del Brasile.

ALMENO 20 GLI ACCORDI bilaterali, commerciali e tecnologici, che verranno firmati, tra cui la costruzione del Cbers-6, il sesto di una serie di satelliti realizzati in collaborazione tra i due paesi, che consentirà di monitorare la foresta amazzonica.

«La Cina è un partner oggi essenziale per il Brasile e per l’America Latina. Noi intendiamo consolidare questa relazione», ha dichiarato Lula prima della partenza, annunciando di voler invitare Xi Jinping in Brasile. «Quello che vogliamo è costruire una collaborazione con i cinesi, perché possano investire in cose che non esistono: autostrade, ferrovie, centrali idroelettriche, un qualunque progetto che significhi qualcosa di nuovo per il Brasile».

E SE IN TALE AUSPICIO c’è chi vede un’ulteriore minaccia ai già devastati ecosistemi del paese, quello che Lula persegue attraverso la cooperazione con la Cina è in realtà la reindustrializzazione dell’economia brasiliana, andando oltre l’attuale esportazione, in particolare, di minerale di ferro, petrolio e soprattutto soia (la cui produzione è legata al latifondo, ai transgenici e all’uso estensivo di pesticidi). Con un obiettivo prioritario: lo sviluppo nel paese di un’ormai imprescindibile industria di semiconduttori, un settore su cui le principali potenze mondiali investono centinaia di miliardi di dollari.

Nel quadro della cooperazione con la Cina si inscrive tuttavia anche la possibile adesione del gigante latinoamericano – fortemente caldeggiata dai cinesi – alla Belt and Road Initiative (Bri), la nuova Via della seta: l’immenso programma di costruzione di infrastrutture di cui fanno già parte una ventina di paesi latinoamericani.

E intanto, mentre il commercio tra Brasile e Cina ha superato i 171 miliardi di dollari nel 2022, con un aumento annuale del 4,9%, ci si attende molto dall’accordo in base a cui gli scambi commerciali tra i due paesi saranno condotti nelle rispettive valute, in reais e yuan, senza utilizzare il dollaro statunitense, la valuta impiegata normalmente nelle transazioni internazionali.

CHE QUESTE SIANO TUTTE brutte notizie per gli Stati uniti, non è sfuggito al quotidiano O Globo, che, in un editoriale pubblicato lunedì scorso, ha messo in guardia Lula dal rischio di irritare Washington: «Quando atterrerà nel paese, Lula avrà di fronte a sé una grande sfida: tenersi in equilibrio tra i giganti globali, Stati uniti e Cina, dichiaratamente in rotta di collisione. Al Brasile non interessa scontentare nessuno dei due. Dimenticarsene è il principale pericolo per Lula».

Ma a preoccupare O Globo è soprattutto il ruolo del Brasile in relazione alla guerra in Ucraina, «il tema in cui il Brasile ha più da perdere»: «Gli americani accetterebbero qualunque tipo di accordo commerciale o di scambio tecnologico e turistico tra Brasile e Cina. Ma una posizione favorevole all’asse sino-russo nella questione ucraina verrebbe interpretata come una sfida».

Di sicuro, però, la proposta di dar vita a un gruppo di paesi neutrali impegnato a mediare per porre fine alla guerra sarà uno dei punti che il presidente brasiliano discuterà venerdì con Xi Jinping, per quanto pochi al momento appaiano gli spiragli di pace: non a caso le recenti dichiarazioni di Lula riguardo all’opportunità che l’Ucraina ceda la sovranità della Crimea per facilitare un’intesa sono state respinte con decisione dal portavoce del ministero degli Esteri ucraino Oleg Nikolenko, convinto che non vi sia «alcuna ragione legale, politica o morale» per cui l’Ucraina debba cedere «anche un solo centimetro di territorio».

Con il presidente cinese Lula parlerà naturalmente anche di molti altri temi: dal commercio agli investimenti, dalla transizione energetica ai cambiamenti climatici.

OGGI, PERÒ, IL PRESIDENTE brasiliano parteciperà a Shanghai alla cerimonia di insediamento dell’ex presidente Dilma Rousseff alla guida della Nuova Banca di Sviluppo dei Brics (il gruppo composto da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), considerata un importante strumento per la costruzione di un mondo multipolare. E a Shanghai Lula visiterà anche lo stabilimento della Huawei, il gigante delle telecomunicazioni oggetto delle sanzioni Usa, alla cui tecnologia il Brasile ha già attinto per le reti 4G e 5G. L’agenda prevede infine un incontro con gli imprenditori e riunioni con il presidente dell’Assemblea nazionale del popolo Zhao Leji e con il primo ministro Li Qiang

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INTERVISTA . Dany Cohen, SciencesPo, sui limiti istituzionali della V Repubblica «Macron è in difficoltà, la riforma delle pensioni non è legittimata»

Semipresidenzialismo. Ecco com’è diventato un peso per la Francia Emmanuel Macron - Ap

In Italia la maggioranza discute del semi presidenzialismo. In questi mesi, il “modello” francese mostra segni di crisi. Il presidente Emmanuel Macron è in difficoltà a far passare la riforma delle pensioni, contestata dalla piazza – già 11 giornate di mobilitazione da gennaio, con cortei e scioperi, una dodicesima ci sarà oggi – perché non ha ottenuto la maggioranza assoluta dell’Assemblée nationale alle legislative che hanno seguito l’elezione presidenziale del 2022. Dany Cohen, professore di Diritto a SciencesPo, ci aiuta a capire come funziona il sistema istituzionale francese.

La V Repubblica nel 1958 è nata per consentire un decisionismo di governo. Che cosa succede adesso con il blocco sulle pensioni?
In un regime come il nostro, più presidenziale che parlamentare, ci sono grandi difficoltà se manca la maggioranza a sostegno del presidente. Ma per rovesciare il governo ci vuole una maggioranza contraria. Ci vuole una maggioranza che appoggi il voto di censura. La prima mozione di censura votata in Francia è stata nel 1962, contro il governo Pompidou. Un fatto paradossale, tenendo conto che, dopo una IV Repubblica dove i governi cadevano spesso, con la V il presidente era stato dotato di un’arma di ritorsione, il potere di sciogliere l’Assemblée nationale. Una concentrazione di poteri che non esiste negli Usa, per esempio, dove il presidente non può sciogliere il Congresso.

Oggi in Francia tutte le critiche sono rivolte a Macron, non tanto al governo. Come mai?
Questo non dipende dal regime politico formale, ma dalla sua applicazione in chiave di monarchia repubblicana. In parte è la tendenza naturale delle istituzioni della V Repubblica, ma la monarchia repubblicana dipende molto dalla forte mediatizzazione della vita politica. Ci siamo allontanati dallo spirito della Costituzione della V Repubblica e il presidente oggi è in prima linea, più esposto. Alle origini, con De Gaulle, il primo ministro aveva libertà e potere più ampi di oggi. Le cose hanno cominciato a cambiare con Pompidou, che era stato primo ministro prima di essere presidente. E il fenomeno si è accentuato con Giscard nel 1974, anche se Chirac primo ministro conservava maggiori libertà perché il suo partito aveva molti più deputati che il partito del presidente dopo le elezioni del 1973, situazione unica nella V Repubblica.

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La Francia tra vecchi reattori e volontà di potenza

I socialisti rappresentano una situazione particolare, erano stati fuori dal potere per un quarto di secolo, non avevano mai gestito le istituzioni. Poi Chirac ha convinto Jospin a rovesciare il calendario, mettendo prima le elezioni presidenziali e dopo le legislative. La conseguenza è stata la preminenza dell’elezione del presidente. Con Sarkozy il potere del presidente è ancora cresciuto. Per esempio, mentre prima ogni ministro aveva la libertà di nominare il proprio capo di gabinetto, con Sarkozy è lui a scegliere, imponendo così una sorta di controllore ai ministri. Macron ha fatto lo stesso, con la sola eccezione di Edouard Philippe.

Chi difende il presidenzialismo ne esalta la velocità nelle decisioni.
Non è automatico. Succede che sia sempre più utilizzata la procedura d’urgenza: le leggi passano in prima lettura all’Assemblée nationale e al Senato, poi il testo torna in seconda lettura nelle due camere, ma se si impone l’urgenza c’è una sola lettura all’Assemblée nationale. L’inconveniente è anche la riduzione della qualità nella redazione dei testi legislativi. Le leggi sono fatte per fare sensazione: sotto Sarkozy, per quasi il 90% delle leggi non erano stati pubblicati i decreti attuativi a due anni di distanza dal voto d’urgenza. Sono leggi fatte per esigenze di comunicazione. Ma questo non dipende dal regime istituzionale.

Si parla di uno scontro di legittimità: quella del presidente eletto, quella del Parlamento, che non ha votato la legge ma ha bocciato la censura, e infine quella della piazza.
In effetti la riforma delle pensioni non ha legittimità, è respinta da una grossa maggioranza della popolazione. Ma è una questione distinta dalla V Repubblica ed è indipendente dal tipo di regime. La crisi attuale assomiglia a quella dei tempi di Alain Juppé primo ministro, che nel 1997 ha portato allo scioglimento dell’Assemblée nationale e a nuove elezioni, senza passare però per un voto di censura. C’è chi ne deduce che in Francia non si possono fare riforme, che la popolazione è legata ai vantaggi sociali e che reagisce se si cerca di toccare qualcosa. Ma nei due casi, nel ’97 e oggi, si è verificato uno strappo tra quello che il candidato ha detto e quello che poi ha fatto.

Com’è andata?
Prendiamo Macron, che oggi dice: la riforma era nel mio programma del 2022. Ma nel 2017 lo stesso Macron aveva un programma con una riforma più giusta, preparata da economisti progressisti, che non prevedeva di modificare l’età pensionabile. La gente se lo ricorda. È vero che anche allora c’erano stati scioperi, ma perché oltre a passare a un regime pensionistico uguale per tutti abolendo i regimi speciali, il primo ministro, Edouard Philippe, più a destra, ne aveva approfittato per infilare un parametro sull’età, perdendo così l’appoggio del sindacato Cfdt. L’aumento dell’età pensionabile confermava infatti l’ingiustizia: chi ha cominciato a lavorare prima lavora più a lungo. Così, con la ricerca di un piccolo vantaggio, Philippe aveva reso fragile tutto l’edificio.

E nel 1997?
Allora Jacques Chirac, sfidato a destra da Edouard Balladur che era dato vincente, aveva vinto con una campagna elettorale più a sinistra, contro la frattura sociale. Ma poi con la riforma Juppé aveva fatto esattamente il contrario. I francesi hanno avuto l’impressione di essere stati imbrogliati, come oggi. I francesi dell’era Mitterrand ricordano soprattutto l’abbassamento dell’età della pensione da 65 a 60 anni. Così il progetto dei 64 anni è vissuto come un passo indietro sociale, un ritorno alla situazione di prima di Mitterrand.

Sulle pensioni adesso tutto è in mano al Consiglio costituzionale che deve dare un parere sul testo di legge, atteso per il 14 aprile?
Il Consiglio costituzionale è stato concepito per non funzionare, anche se poi le cose sono un po’ cambiate. Sotto De Gaulle era agli ordini del potere politico, poi ha preso maggiore importanza dopo la morte del generale. Ma è diverso dalla Corte di Karlsruhe in Germania, non ha la sua indipendenza, qui in Francia membri sono designati politicamente. Solo con Robert Badinter c’è stato un professore di diritto alla sua presidenza

 

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OPPOSIZIONE. Dibattito tra Pd, M5S e Sinistra italiana a Roma: Marta Bonafoni, neo-coordinatrice dei dem di Schlein, incontra a Esc il capogruppo pentastellato Francesco Silvestri e la deputata di Avs Elisabetta Piccolotti

 Marta Bonafoni - Ansa

 

Metti una sera a Roma in un centro sociale del quartiere San Lorenzo a parlare di politiche (anti)sociali del governo Meloni e reddito di cittadinanza la neo-coordinatrice della segreteria del Partito democratico Marta Bonafoni, la deputata di Sinistra italiana Elisabetta Piccolotti e il capogruppo del Movimento 5 Stelle alla camera Francesco Silvestri. Discutono tra di loro, e questa già sarebbe una notizia. Lo fanno di fronte a ricercatori sociali e attivisti.

Alberto De Nicola, a nome degli ospiti di Esc, ricorda ai convenuti che la progressiva cancellazione del Reddito di cittadinanza a opera della destra restituirà all’Italia l’anomalia già individuata dalla commissione Onofri nei lontani anni Novanta: uno dei pochi paesi Ue a non avere una misura universale di lotta alla povertà. La categoria della «occupabilità» reintroduce di fatto il concetto di poveri meritevoli e poveri da condannare. Il sociologo Andrea Ciarini, che ha fatto parte della commissione ministeriale che si è occupata nella scorsa legislatura di valutare il funzionamento della legge sul Reddito, ricorda che già il governo Draghi contraddicendo le indicazioni del rapporto, avesse introdotto misure di decalage sul sostegno economico.

«Il lavoro è dimenticato eccetto che per i tagli al cuneo fiscale che numerosi studi dimostrano vengano riassorbiti nel giro di poco tempo – dice Piccolotti – Noi invece dovremmo ingaggiare una grande battaglia sulla distribuzione della ricchezza». Propone un reddito di base universale per tutti perché non è vero che la ricchezza si produce «solo lavorando», ricordando come il dibattito tra lavoristi e non sul welfare avvenuto a sinistra negli anni scorsi si ripropone in forma parossistica nei tagli al Reddito e nei ricatti della destra, perché «il messaggio del governo è che si deve lavorare a qualsiasi condizione, in questa chiave bisogna togliere il reddito di cittadinanza che qualche contrappeso lo aveva introdotto».

Per Silvestri bisogna sfidare Meloni sul terreno dell’innovazione e del rapporto con la realtà di questi tempi. «Le politiche fiscali oltre che per la redistribuzione servono a spingere i settori produttivi a riconvertirsi – sostiene il pentastellato – Se ci poniamo in questa prospettiva riusciamo a far vedere alla gente i limiti dei conservatori. La destra provoca dal punto di vista mediatico su temi ideologici, bisogna riportarla sul terreno dei temi concreti. È facile attaccare i precettori del reddito o i ragazzi che imbrattano con vernice lavabile un muro, rispetto agli utili degli extraprofitti bancari che si stanno facendo sui mutui. Dobbiamo tenere la destra ancorata alla realtà che non riesce ad affrontare». Silvestri parla della coalizione da costruire: «Serve una visione alternativa che metta in rete tutte realtà sociali del paese. Non dobbiamo essere per forza identici ma avere la lealtà che ci consenta di andare avanti nonostante le differenze».

Bonafoni premette: ha accettato l’invito a questo dibattito quando era «solo una consigliera regionale». Ora conta «di portare la sua biografia politica nei movimenti e nell’associazionismo nella segreteria di Schlein». Punta il dito contro «la cultura dell’ideologia produttivista e quella familista». Cui si aggiunge »la discriminazione» testimoniata dallo stato di emergenza appena proclamato sui migranti. Di fronte a tutto ciò dice che bisogna ricostruire un rapporto tra le due sfere che definisce il »dentro» (ai partiti, alle istituzioni) e »fuori» (nella società e nei movimenti, come quelli che si apprestano a dare battaglia sul reddito e il salario minimo). Dunque, conclude, «l’alleanza va costruita sulle cose, a partire da astensionismo. Non votano i poveri: bisogna risintonizzarsi col paese. Ma nessuna alleanza è scontata, per questo bisogna reimparare a stare insieme»

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Gli elementi presenti nelle riprese ci fanno pensare a delle vittime ucraine, ma rimangono molti punti di domanda

La diffusione sui social di due video che mostrerebbero la decapitazione di alcuni soldati ucraini è stata ampiamente commentata sia dalle autorità di Kiev, sia da quelle di Mosca. Da una parte Volodymyr Zelensky e i sostenitori dell’Ucraina, i quali associano quanto mostrato nei video all’ISIS, dall’altra il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov mette le mani avanti valutando un’eventuale indagine se i filmati risultassero veri. Mosca, di fatto, non li etichetta subito come falsi e al momento non sta diffondendo materiale in propria difesa. Abbiamo visionato entrambi i filmati. In entrambi i video le vittime indossano la fascia gialla usata dai militari ucraini. Nella clip dell’esecuzione, un uomo mostra davanti alla telecamera i giubbotto della vittima e in particolare la toppa raffigurante il tridente ucraino e quella del teschio allungato, noto prima per il personaggio The Punisher della Marvel e successivamente per alcuni scandali negli Stati Uniti. A terra, accanto al giubbotto, è presente un passaporto ucraino che rimane chiuso per l’intera durata della clip. Nel video della decapitazione, il “boia” indossa la fascia bianca utilizzata dall’esercito russo. Nell’altra ripresa gli uomini in piedi non mostrano alcun segno identificativo, nessuna fascia o toppa che indichi a quale fazione appartengano. Non è possibile, al momento, sostenere con certezza che gli esecutori appartengano al gruppo Wagner.

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IL LIMITE IGNOTO. Egitto, Emirati, Corea del Sud e oltre. Il terremoto diplomatico degli alleati sorvegliati speciali s’allarga. E la Casa bianca tace. Il caso dei missili "occulti" prodotti di nascosto da Al-Sisi per Mosca nei nuovi file. E Parigi rettifica Macron: «La Cina resta rivale sistemica»

Escalation di segreti “ucraini” in fuga, al Pentagono cresce l’imbarazzo Una riunione in collegamento dal Pentagono con l'Ukraine Defense Contact Group - Ap

Doveva essere solo un piccolo incidente e si sta trasformando in un terremoto diplomatico. La fuga di notizie segrete dell’intelligence americana che è stata resa nota al grande pubblico dal New York Times la settimana scorsa ora mette in serio imbarazzo il Pentagono. Il quale promette punizioni esemplari e tenta di sminuire.

I VERTICI DELLA CASA BIANCA al momento si guardano bene dal commentare, anche perché si esporrebbero alla domanda fatidica che aleggia sulle prime pagine di tutti i media internazionali: perché gli Usa spiano gli alleati? O meglio, si sa che i servizi segreti sono inviati dai governi anche nel territorio dei Paesi amici ma trovarsi di fronte all’evidenza è diverso; in questo campo vale il detto «alcune cose si fanno ma non si dicono». Soprattutto se poi si è costretti anche a commentare giudizi molto duri sugli alleati in questione. Insomma, meglio tacere e aspettare che scemi l’attenzione. Il che dipenderà molto dai nuovi file che verranno pubblicati.

I CASI PIÙ ECLATANTI al momento sono 5, prescindendo dall’Ucraina. Partiamo dall’Egitto, che secondo un lungo articolo pubblicato dal Washington Post, avrebbe tramato per fornire armamenti alla Russia nel contesto della guerra contro l’Ucraina. Il presidente Al-Sisi stesso avrebbe ordinato, secondo quanto hanno potuto verificare in un documento datato 17 febbraio che riassume presunte conversazioni tra Sisi e alti funzionari militari egiziani, di mantenere segreta la produzione «per evitare problemi con l’Occidente». Nell’immagine si legge anche una cifra, 40 mila razzi, e si parla inoltre di munizioni e polvere da sparo.

«L’EGITTO È uno dei nostri più antichi alleati in Medio Oriente» ha dichiarato il senatore Chris Murphy, membro delle commissioni Esteri e Stanziamenti del Senato Usa, al Wp. «Se è vero che Al-Sisi sta costruendo segretamente missili per la Russia che potrebbero essere usati in Ucraina, dobbiamo fare un serio esame di coscienza sullo stato delle nostre relazioni». Anche queste indiscrezioni sul Cairo, come le prime riguardanti l’Ucraina, sono apparse sotto forma di immagini su Discord, una piattaforma di gioco on-line.

MA L’EGITTO NON È l’unico sorvegliato speciale nella regione. Su Israele sono uscite alcune informative riguardanti presunte manovre del Mossad per fomentare le rivolte contro la discussa riforma della giustizia voluta dal premier Netanyahu. In realtà, nel momento di massima intensità delle manifestazioni, era già risaputo che una parte dell’esercito fosse in disaccordo con la nuova norma e resta da capire se il leak sia una semplice raccolta di notizie o contenga informazioni più scottanti.

GLI EMIRATI ARABI invece sarebbero coinvolti in modo attivo con l’intelligence di Mosca. Secondo quanto apparso su internet con i timbri degli 007 statunitensi, Dubai avrebbe preso contatti «ad alti livelli» con la Russia, forse anche in virtù delle decine di oligarchi russi trasferitisi nel Golfo dopo l’invasione dell’Ucraina.

E POI C’È LA COREA DEL SUD. Lo scorso autunno si era parlato per qualche tempo di una presunta «triangolazione» tra Seul e Praga per far arrivare armamenti all’Ucraina. Poi, a inizio 2023, siamo venuti a sapere che gli Usa hanno requisito interi lotti di munizioni da 155 mm per fornirli a Kiev e ora i documenti trapelati rivelano alcune intercettazioni della Cia ai funzionari sudcoreani e palesano pressioni al piccolo Paese asiatico.

INTANTO, DA PARIGI, fonti interne all’Eliseo hanno cercato di placare le polemiche sull’intervento del presidente Macron sull’Europa che dovrebbe premunirsi dal diventare un «vassallo degli Usa» e tenere una posizione di «equidistanza» tra Pechino e Washington. Ieri, come riporta l’Ansa, si è ribadito che «gli Stati uniti sono i nostri alleati, condividiamo valori comuni» e la Cina resta «al tempo stesso partner, concorrente e rivale sistemico»

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