Il caso. La protesta di Cgil, Cisl e Uil in piazza Montecitorio a Roma, scontro con Confindustria. Appalti: «Stop massimo ribasso, ora la norma sulla responsabilità in solido»
La protesta dei sindacati ieri a piazza Montecitorio a Roma © LaPresse
Licenziare dal primo luglio senza chiedere la cassa integrazione oppure chiederla e licenziare alla scadenza del 31 dicembre di quest’anno. Quello che è stato presentato dal governo come un «compromesso» sul blocco dei licenziamenti per motivi economici è stato contestato ieri dai sindacati Cgil, Cisl e Uil in un presidio a piazza Montecitorio.
L’oggetto dello scontro con i confederali sarebbe il prolungamento del blocco solo per un paio di mesi, fino alla fine di agosto 2021, come del resto aveva annunciato il Ministro del Lavoro Andrea Orlando aveva infatti annunciato la proroga del divieto. «Non sono venute meno le ragioni che un anno fa avevano dato luogo al blocco dei licenziamenti – ha detto dal palco il segretario generale della Cisl Luigi Sbarra – Gli ammortizzatori sociali non sono stati rinnovati, le politiche attive non sono state avviate. In particolare, non sono stati finanziati adeguatamente i contratti di solidarietà e non è stata prolungata la durata della Naspi – L’atteggiamento del governo di queste ore non convince. Hanno confermato al 1 luglio nel Dl Sostegni bis lo sblocco dei licenziamenti per tutto il sistema industriale e dell’edilizia. Quella norma va cambiata. Abbiamo già chiesto incontri ai gruppi parlamentari per chiedere loro nel prossimo passaggio parlamentare di prorogare almeno fino al mese di ottobre il blocco».
L’offensiva di Confindustria e dei suoi portavoce sui media, avvenuta nell’ultima settimana, è stata rintuzzata dal segretario della Uil Pierpaolo Bombardieri: «Se qualcuno vuol far saltare coesione sociale, siamo pronti a reagire. Questa attuale non è una mediazione. È la posizione di Confindustria, inaccettabile anche perché si vuole dare libertà di licenziare quando il 70 per cento delle risorse per affrontare la pandemia sono state date alle aziende in modo non selettivo».
«Anche a Confindustria diciamo che per noi il primo luglio non può essere il giorno in cui partono i licenziamenti. Se dovessero non cambiare la norma, diciamo che non siamo disposti ad accettare passivamente, a subire i licenziamenti – ha detto il segretario generale della Cgil Maurizio Landini che, insieme a Sbarra e Bombardieri, ha incontrato ieri il presidente della Camera Roberto Fico – Non è accettabile che dal primo luglio le imprese possano scegliere tra cassa integrazione e licenziamenti». La stessa scelta potrebbe tuttavia darsi anche dopo il 28 agosto, oppure dal primo gennaio dell’anno prossimo. Su questa partita pesa l’ imminente dichiarazione di fine emergenza pandemica dopo la quale sarà dichiarato il ritorno all’ordine del mercato. E, dunque, alla convinzione fanatica per cui i licenziamenti sarebbero la premessa per nuove assunzioni dettate dalla ritrovata «crescita», e non il primo passo verso la razionalizzazione del sistema produttivo e nuove povertà. È quello che sta avvenendo nel mondo del lavoro precario dove è stata persa la maggioranza del milione di posti di lavoro durante la pandemia. Nel paese del Jobs Act nessuno ha pensato a riformare questa legislazione, né a garantire l’estensione del «reddito di cittadinanza» almeno al milione di lavoratori diventati poveri nell’ultimo anno.
Nel corso della settimana i sindacati sono riusciti ad ottenere la cancellazione del massimo ribasso. Ma non la ritengono sufficiente. «Abbiamo anche chiesto introduzione di una precisa norma per cui l’appaltatore deve essere responsabile in solido non solo per quello che accade ai suoi dipendenti ma per tutti i lavoratori che lavorano sul medesimo progetto» ha detto Landini – Il costo del lavoro non può essere elemento di valutazione nell’assegnazione degli appalti, bisogna applicare ccln e combattere i contratti pirata»,
Le tutele sociali restano una promessa. Ieri in piazza Landini ha citato il problema. Nella riforma «universalistica» degli ammortizzatori sociali, annunciata entro la fine di luglio dal ministro del lavoro Orlando, il criterio base dovrebbe essere: «I diritti non sono legati alla forma del lavoro. Stesse tutele, stessi diritti». Dalle linee generalissime di un provvedimento rinviato già dal governo «Conte 2», tale riforma sarebbe incardinata in una torsione workfarista dello Stato sociale sbrindellato che esiste in Italia. Si punta tutto sulle «politiche attive del lavoro» che dovrebbero, in un universo parallelo, reinserire i licenziati o i cassaintegrati in un nuovo ciclo produttivo o della formazione. Tuttavia questo sistema non esiste. Il fallimento del progetto grillo-leghista del governo «Conte 1», basato sul cosiddetto «reddito di cittadinanza», ha rinviato di anni la sua realizzazione. L’Anpal è stata commissariata, i centri per l’impiego sono al palo. E si continua a sperare nella miracolosa congiunzione astrale per cui la fine del blocco dei licenziamenti dovrebbe coincidere con l’avvio delle politiche attive del lavoro che avrebbero bisogno di un rodaggio di almeno cinque anni. Quelli che si è dato il piano di «ripresa e resilienza» che, entro il 2026, si propone di fare partire ciò che non è iniziato nel 2019. Progetti vasti e confusi. Le loro vittime sono già designate.