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Campo largo. Non solo Renzi. A dividere il "nucleo ristretto" della coalizione futuribile futuribile ci sono già temi come l’Ucraina e le tasse. Ci sono punti di condivisione importanti, ma non possono essere solo evocati.

Elly Schlein, Giuseppe Conte, Nicola Fratoianni, Angelo Bonelli e Riccardo Magi brindano alla festa di Avs foto Ansa Elly Schlein, Giuseppe Conte, Nicola Fratoianni, Angelo Bonelli e Riccardo Magi brindano alla festa di Avs - foto Ansa

La serata dei leader del centrosinistra al parco Nomentano, con tanto di brindisi a pinte di birra, lascia aperti diversi interrogativi. Il dato positivo è che sembrano tutti consapevoli che non si può neppure ipotizzare un replay del 2022, quando le divisioni tra i progressisti aprirono le porte di palazzo Chigi a Giorgia Meloni; e che, in caso di crisi del governo di destra-centro, nessuno vorrà prestarsi a nuovi governi tecnici o grosse coalizioni con pezzi di destra (cosa che vale in particolare per il Pd che è il «solito sospetto» quando si tratta di prolungare l’agonia di legislature ormai finite). Ciò premesso, va detto che anche il nucleo più stretto della futuribile coalizione, quello composto da Pd, 5S, Avs e +Europa, e dunque tenendo fuori i polemici Renzi e Calenda, presenta ad oggi un tasso di coesione del tutto insufficiente per potersi immaginare come maggioranza di governo. Tradotto: rischierebbe di non riuscire a governare.

LA DISCUSSIONE tra Conte e Riccardo Magi sull’Ucraina, da cui la segretaria dem non casualmente si è tenuta a distanza, segnala uno dei principali nodi irrisolti: cosa farebbe un governo Schlein sull’Ucraina? Continuerebbe a fornire armi a Kiev, anche nel quadro di una escalation su territorio russo che appare sempre più vicina per volontà di Usa e Regno Unito? E con quali voti in Parlamento, visto il no di M5S e Avs? Oppure, deciderebbe di porre l’Italia in una posizione più critica all’interno della Nato? E con quali conseguenze dentro il Pd? Non è un tema marginale, ma richiede invece un tentativo di soluzione ben prima di una ipotetica campagna elettorale. Sarebbe assai rischioso cullarsi nel sogno che di qui al 2027 la guerra si concluda.

Certo, ci sono i punti in comune, dal salario minimo (che sarebbe verosimilmente uno dei primi provvedimenti del nuovo esecutivo) all’aumento della spesa sanitaria, dal ripristino del reddito di cittadinanza a nuove norme sul lavoro simili a quelle approvate in Spagna per limitare i contratti a termine e il precariato. E poi lo stop a premierato e autonomia differenziata, l’aumento del reddito per gli insegnanti della scuola pubblica, un più deciso investimento sulle energie rinnovabili, una riforma della Rai, nuove norme sulla cittadinanza (ius soli o ius scholae) e più diritti per le famiglie lgbtqia+.

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SONO PUNTI di condivisione importanti, che non vanno sottovalutati. Ma non possono essere semplicemente evocati. Se si vuole provare a raddrizzare la sanità pubblica servono ben più di 4 miliardi l’anno. E così per portare gli stipendi della scuola nella fascia alta della graduatoria europea. Dove si prendono questi soldi? Con quale riforma del fisco? Fratoianni propone da tempo una patrimoniale sulle grandi ricchezze, Bonelli insiste sugli extraprofitti di banche e società energetiche, ma non c’è mai stata una discussione seria dentro la coalizione su come implementare queste proposte. O magari su come trovarne altre, al netto della lotta all’evasione sempre evocata ma mai dirimente quando ci sono da scrivere le leggi di bilancio.

NEI GIORNI SCORSI le opposizioni hanno evocato una sorta di «contro manovra» da presentare in autunno, più realisticamente si parla di emendamenti comuni sulla sanità. Ma un’opposizione che si prepara a governare dovrebbe spiegare anche dove investirebbe gli scarsi denari che ci sono (e con la scure del nuovo patto di stabilità) e come ne troverebbe altri. Andrebbe a bussare alle porte di chi ne ha di più?

IL RISCHIO, ALTRIMENTI, è che un ipotetico governo Schlein (o Conte, qui il nome del leader poco importa) faticherebbe anche solo a gestire l’ordinaria amministrazione.
Il problema, in questa embrionale coalizione, non è dunque accapigliarsi sul possibile ingresso di Matteo Renzi (che un programma radicale su economia e lavoro potrebbe indurre a stare alla larga) ma come costruire fin da ora una serie di proposte realizzabili e credibili per dare il segnale che un’Italia diversa da quella di Giorgia Meloni è possibile.

Per ora, nonostante la birra sotto la pioggia di Roma, questo lavoro appare molto in ritardo. E il ritorno in campo di Draghi, con le sue agende mai dimenticate dal Pd, rischia di complicarlo ulteriormente. Difficile infatti immaginare di poter sostenere ancora l’Ucraina con nuovi invii di armi e contemporaneamente spingere l’Ue a massicci investimenti su welfare e transizione ecologica. Se c’è la guerra, dice Draghi, e dura da due anni e mezzo senza che si intraveda la fine, devono aumentare anche le spese militari. Un’altra contraddizione che non si può sciogliere con gli slogan