SINISTRA. Intervista a Nicola Fratoianni, deputato e segretario di Sinistra Italiana
Dopo anni di rotture e tentativi di ricomposizione Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra italiana, disegna un cambio di atteggiamento: «Si tratta di assumere una discontinuità – dice – Occorre indicare proposte, nuove parole, inventare strumenti invece che operare, come molte volte abbiamo fatto, sul terreno della somma di ciò che c’era prima».
Superare le divisioni non è più una priorità?
Ricucire gli strappi e creare convergenze è sempre importante. Ma l’obiettivo non deve essere ricostruire ciò che c’era e che poi si è rotto, se ti dai quel compito fallisci. La ricostruzione di una proposta politica passa per la capacità di lavorare a uno spazio adatto al quadro che abbiamo di fronte.
Di questo parlerete al congresso di Si a Perugia, dal 24 al 26 novembre?
È uno dei temi. Proveremo a misurarci sulla guerra come rottura di un modello di governance globale, che impedisce di organizzare il proprio punto di vista e che impone l’arruolamento. Intanto il capitalismo schiaccia il pianeta. Con le opposizioni dobbiamo essere in grado di suggerire l’alternativa, per noi questa è l’urgenza, l’orizzonte che ci poniamo per i prossimi mesi.
A partire da quello che avete definito un principio di realtà: contribuire a una coalizione in grado di battere la destra.
Il rapporto col voto deve misurarsi con la realtà. Finché c’è questa destra al governo, sottrarsi alla responsabilità di contribuire all’alternativa è improponibile. Non siamo legati per decreto a uno schema rigido di alleanze anche su scala locale, ma la ricerca della convergenza rappresenta il minimo necessario. Non è un caso che la destra abbia mostrato di faticare quando le opposizioni hanno costruito attorno al salario minimo legale un’iniziativa comune. Ha funzionato per due motivi. Perché era giusta, efficace e semplice da comunicare. E per la sua natura unitaria, ha fatto intravedere un’alternativa praticabile.
La guerra è uno dei fattori di ridefinizione del quadro politico europeo, anche a sinistra?
La guerra ha una dimensione sempre generale. È un dramma per le popolazioni che la subiscono, sposta a destra il quadro e rilancia i nazionalismi, nega le politiche orientate alla transizione ecologica, riduce gli spazi di organizzazione e quindi influisce sui rapporti di forza e su come ci si organizza. Per questo la pace sta al centro della politica, anche quando non si parla direttamente di Ucraina o di Gaza.
Le elezioni europee saranno cruciali, in questo senso…
Pongono una questione rilevante: la possibilità di fare dell’Europa un punto di riferimento della riconversione ecologica, della giustizia sociale, del welfare, di un’idea del mondo orientata alla diplomazia piuttosto che alla guerra come strumento di prosecuzione della politica con altri mezzi. Abbiamo assistito all’implosione dell’ordine mondiale, alla crescita esponenziale dei conflitti e al ritorno di vocazioni imperiali. In questo quadro, l’Ue deve praticare la sua autonomia sulla scena globale. È una condizione necessaria per stare al livello delle contraddizioni che abbiamo avanti.
Meloni lancia la sua riforma per aggirare le difficoltà che incontra in Europa?
Le elezioni politiche spagnole hanno rappresentato una battuta di arresto per Meloni. L’onda di destra sembrava inarrestabile e lei stessa partecipando a quella campagna elettorale aveva annunciato il primo tassello della modifica del rapporti forza europei. Tuttavia io non considero quasi mai le scelte di questa destra come operazione di distrazione di massa. Fanno parte di un impianto ideologico con il quale dobbiamo fare i conti. Dalla parte delle forze alternative alla destra, negli anni scorsi l’ideologia era stata considerata superata, un fardello del passato. E invece a destra hanno lavorato proprio sull’ideologia: una parte della loro forza egemonica sta lì. Alla crisi della globalizzazione la destra ha risposto con cose semplici che sembrano offrire qualche appiglio, come Dio-patria-famiglia. Modelli che danno l’illusione di rendere riconoscibile la catena di comando. L’impianto autoritario del premierato va in questa direzione, aderisce a questo impianto culturale