TELEVISIONE. Nel bene e nel male, la canzone popolare parla, seppure in musica e in versi, di quel che siamo, segnala l'evoluzione del costume, e una volta all'anno, dà vita a un canovaccio di italian teles, in cinque interminabili serate
Nemmeno l’ecatombe in Turchia e in Siria li frena nel titolare a tutta pagina contro Mattarella a Sanremo. Con impavido sprezzo del ridicolo, leader dimezzati bofonchiano contro “la Costituzione a Sanremo”, così come avevano obiettato sulla presenza, poi annullata, del presidente Zelensky tra i fiori dell’Ariston. Parlamentari in ordine sparso e in cerca di visibilità dichiarano che in riviera c’è troppa sinistra. Bisogna capirli.
Tanto più se, per la disperazione delle destre di lotta e di governo, l’esordio sanremese fa il botto di audience. Bisogna capirli perché, effettivamente, quando basta una prima serata perché la propaganda di palazzo Chigi esca ammaccata dal confronto con la corazzata festivaliera, saltano i nervi.
Mostrare la distanza siderale tra la piccola, balbettante Giorgia e i suoi fratelli sul fascismo, con la liberatoria, emozionante performance di Roberto Benigni sul ripudio della guerra (articolo 11) e la libertà di pensiero (articolo 21), è come una poderosa iniezione di anticorpi democratici, un vaccino inoculato a più di 10 milioni di persone di ogni età e ceto sociale.
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Quella libertà di pensiero che guai a darla per scontata, perché, dice e ripete Benigni, va difesa ogni giorno da chi potrebbe togliercela. Della serie quando Costituzione fa rima con Emozione, non puoi farci niente bellezza. Oltretutto un monologo costituzionale introdotto dall’inno di Mameli versione pop.
Specialmente se viene miracolosamente depurato da quel tono stridulo di marcetta grazie al timbro del Gianni nazionale, capace di trasfigurarlo in canzone popolare.
Mattarella, Benigni, Morandi e, a dirigere l’orchestra televisiva Amadeus, intelligente art-director del palcoscenico nazional popolare, discreto tessitore con il Quirinale dello “scoop” presidenziale quanto efficace nella secca replica ai borbottii di Salvini (“Sono quattro anni che critica il festival, non è obbligato a vederlo|”). Per sovrappiù, al quartetto, in giacca e cravatta, ha fatto da contrappunto la social-star del momento, Chiara Ferragni, prima donna della serata, autrice di un non originalissimo monologo sull’orgoglio femminile, ma speciale indossatrice di un abito apparentemente di banale nude-look, in realtà tessuto di spessa trama dorata sul quale era disegnato il nudo del suo corpo, un inganno simbolico e provocatorio, una visione disturbante.
Eppure c’è chi, ancora?, dice che sono solo canzonette, scambiando la musica per innocente passatempo. E da questa visione vetusta e politicamente scorrettissima, le retroguardie dell’ancien regime fanno discendere la distinzione tra cultura d’élite e cultura popolare, tra testo e contesto.
E dunque, di conseguenza succede che se il Presidente della Repubblica presenzia alla prima della Scala o a quella del Cinema di Venezia nessuno si meraviglia e l’applauso è generale, ma se va alla prima serata del Festival di Sanremo si alzano i sopraccigli, si accendono le polemiche, si sprecano i retroscena.
Come se nella storia dell’epifania sanremese non avessero trovato ospitalità questioni cruciali, drammatiche, importanti. Dall’ odissea dei migranti, alle stragi mafiose, allo sfruttamento in fabbrica.
Al contrario, nel bene e nel male, la canzone popolare parla, seppure in musica e in versi, di quel che siamo, segnala l’evoluzione del costume, e una volta all’anno, dà vita a un canovaccio di italian teles, in cinque interminabili serate.
Non sembra neppure il caso di scomodare la Fenomenologia di Mike Bongiorno per dire quanto la cosiddetta élite culturale sia indietro nella comprensione dei meccanismi della comunicazione di massa. Non capisce che più si introducono elementi di rottura, più la comunicazione è efficace.
I più vecchi telespettatori forse ricorderanno le polemiche infuocate, le stroncature inappellabili di un celebre programma, Fantastico8, di un marziano come Adriano Celentano, con quelle inaudite pause che rompevano il ritmo veloce con cui fino a quel momento si svolgevano gli spettacoli televisivi. Il teleutente si agitava sulla sedia, cambiava canale, poi tornava indietro pervaso da una salutare inquietudine, da un virtuoso fastidio provocato da quella anomalia nell’ingranaggio del fino ad allora rassicurante, narcotico procedere del discorso.
Purtroppo, nemmeno a casa nostra, nella sinistra vecchia e nuova senza differenze, la comprensione dei fenomeni culturali di massa ha trovato, se non raramente, interpreti adeguati. E specialmente di televisione non ha mai capito molto, al punto di aver avuto il Pci impegnato contro i mulini a vento della televisione a colori. Diversamente, del resto, non avremmo avuto vent’anni di egemonia berlusconiana