SINISTRA. I poveri, gli sfruttati, l’operaio spaventato dai cambiamenti, il popolo dei consumatori: diventano tutte “guardie del corpo” dei (pochi) ricchi che li hanno condannati
Graffito di Gec da Pelliizza da Volpedo
Cosa potrebbe unire oggi il gruppo dirigente di un sindacato così “immerso nel gorgo” delle trasformazioni (fisiche, tecnologiche, sociali, etniche) come la Fillea Cgil, ovviamente gelosa della propria autonomia, un prodotto “classico” dell’evoluzione (e anche involuzione, per sua stessa ammissione) del fu glorioso Pci come Andrea Orlando, un giovane neo socialista come Roberto Speranza, un leader storico del movimento operaio come Sergio Cofferati e una raffinata intellettuale (radicale sarebbe riduttivo) come Luciana Castellina? La risposta potrebbe essere ricercata nelle stesse parole di Luciana che, chiudendo la tavola rotonda sulla “sinistra nel lavoro che cambia” all’interno dei festeggiamenti per i 136 anni della Fillea Cgil, ha semplicemente dichiarato che mai come oggi “la rivoluzione è un obbligo”.
Se vogliamo sopravvivere come genere umano dobbiamo assumere la giustizia ambientale e la giustizia sociale – ci invita Luciana – come obiettivo “minimo” per cambiare presto modello produttivo (dalla produzione al riuso, dalla linearità dello sviluppo alla circolarità) e modello di consumo (dal consumo privato ai consumi collettivi), quindi poteri ed equilibri geopolitici; ricostruendo senso, parole, narrazioni (ancor prima che pratiche organizzative, come ha sottolineato lo stesso Orlando) alternative ad una visione in cui tecnologie, saperi, finanza sono diventati tutti strumenti di “privatizzazione” del potere politico. Per cui “la finanza e le multinazionali decidono, i tecnici eseguono le scelte, i politici le raccontano in tv o sui social”.
Lotta alla precarietà, democrazia economica, centralità dei beni pubblici (categoria a cui ricorre Roberto Speranza), ruolo dello Stato (a livello come minimo europeo) per politiche industriali e reti di accompagnamento (il sottoscritto ha suggerito il trittico “protezione, promozione, emancipazione” per tenere insieme chi sarà “colpito” dalla transizione ecologica e digitale, ma anche i creatori/animatori dell’economia dei saperi), dentro un’Europa che assuma come strutturale la strategia del Next Generation Ue e del Programma Sure fino al 2050: queste le possibili prime coordinate per una contro pratica.
Dove sinistra politica, sinistra culturale, sinistra sociale (e qui il ruolo del sindacato confederale) provino a ridare senso alla parola politica.
Partendo dal territorio, dal tanto di molecolare e frammentato (nel lavoro come nella socialità) per “federare” quanto si muove (mi accontenterei oggi di avere sedi di confronto preventive e permanenti con quanto si muove, dal lavoro all’ambientalismo) e dare protagonismo alla democrazia.
Una democrazia che vada oltre i partiti e il sindacato per come li abbiamo conosciuti, sostiene Luciana; una democrazia – quella economica, della partecipazione dei lavoratori alle scelte aziendali secondo il mai attuato art. 46 della Costituzione e della reale rappresentanza, si veda anche l’attuazione dell’art. 39 sulla validità erga omnes dei contratti collettivi come ricordato dallo stesso Maurizio Landini– che mi permetto di dire sarebbe anche solo queste, “più semplicemente”, già importanti novità.
A fronte di una costatazione banale nell’evidenziare il problema (non certo le soluzioni): se milioni di lavoratori, di pensionati, di precari vedono le loro condizioni materiali oltre che esistenziali peggiorare ogni giorno che passa, se si sentono impotenti di fronte alle nuove stagioni della “de globalizzazione” post Covid, vittime della sbornia liberista e “adattativista” che in molti abbiamo subìto, è forse perché non riusciamo, tutti, a renderli protagonisti di lotte, percorsi, “vertenze”, mediazioni e passi avanti (grandi o piccoli che siano).
E allora soffre il sindacato confederale – soffre nel suo essere soggetto di interesse generale e nell’avere alleati in Parlamento come in Consiglio comunale – e soffre ogni idea di sinistra politica, di fronte democratico e progressista. Soffre l’idea stessa di azione politica collettiva per più giustizia e più libertà.
La sinistra, politica e sociale, soffre nel difendere il mondo che c’è e il mondo che sta già affacciandosi, nelle tante periferie dei saperi e del lavoro, nei tanti territori urbani attraversati da flussi informativi e simbolici globali. E soffrono (forze sociali e forze democratiche) per il semplice fatto che lo stesso sviluppo lineare e l’aumento delle disuguaglianze connesse alla detenzione, sempre in meno mani, degli strumenti di potere, non generano più quelle risorse, opportunità, dinamiche per mediazioni e compromessi; comprimono la mobilità sociale; polarizzano le società (con buona pace di quel ceto medio che le stesse lotte e conquiste sindacali hanno creato e fatto crescere).
E quando per mantenere il vecchio status ci si impoverisce ulteriormente, quando l’ascensore sociale si blocca ed ognuno vive nella bolla delle proprie origini familiari (i figli dei ricchi con i ricchi, i figli dei servi con i servi) l’impotenza diviene rabbia, la rabbia diviene anoressia democratica e allora – questa discussione non riguarda solo l’Italia, ma l’Europa e l’occidente più in generale sia chiaro – si svolta a destra.
I poveri, gli sfruttati, l’operaio spaventato dai cambiamenti e lasciato solo, il popolo dei consumatori, diventano tutte “guardie del corpo” di quei pochi ricchi che li hanno condannati. Chiamasi rivoluzione passiva, per tornare ai classici del pensiero gramsciano. A cui contrapporre – oggi più che mai – l’ottimismo della volontà. Da ricercare e soprattutto praticare tutti insieme, tutti i giorni.
*Segretario Generale Fillea Cgil