Accedi Registrati

Login to your account

Username *
Password *
Remember Me

Create an account

Fields marked with an asterisk (*) are required.
Name *
Username *
Password *
Verify password *
Email *
Verify email *


Più di 700 i caduti faentini

Siamo ormai in pieno clima di celebrazioni del centenario della Grande guerra. È naturale che ciò avvenga perché quel conflitto resta un evento straordinariamente importante nella storia del nostro Paese e del mondo intero. Una cosa però ci auguriamo: che non prevalgano le banalità o, ancor peggio, i discorsi roboanti quanto privi di verità.
Il Papa Benedetto XVI la definì “l’orribile strage” ma, allora e nei decenni seguenti, fu una retorica senza freni a fare da sfondo alla grande tragedia e a mistificarne l’immane carico di sofferenze e di distruzioni. Filippo Tommaso Marinetti - uno dei padri del futurismo - inneggiò alla guerra quale “igiene del mondo”, molti giovani esaltati corsero volontari nelle trincee cercando la “bella morte”. Cessate le operazioni, lapidi e monumenti furono inaugurati con trionfo di fanfare fin nel più remoto paesino, dando origine a quella che gli storici hanno definito la “mistica del sacrificio per la patria”, una sorta di religione civile.
“Bella morte”! Di morti alla fine se ne contarono più di dieci milioni. Doppio fu il numero dei feriti, dei mutilati e degli invalidi. Seicentomila i caduti italiani. E ovunque un lungo strascico di epidemie - in alcuni Paesi, fra i quali il nostro, la spagnola mieté altrettante vittime - di miseria e di acuti conflitti sociali e politici. Le stesse dittature vanno annoverate fra le tragiche eredità della guerra.
Un’intera generazione fu strappata alle sue occupazioni quotidiane e ai suoi affetti e gettata nella fornace. I caduti faentini furono 731, erano di età comprese fra i 18 e i 35 anni. Il loro mondo era racchiuso nei confini della città

o della località in cui erano nati e cresciuti, molti gli analfabeti o appena capaci di fare la firma, la lingua in cui si esprimevano era il dialetto e stentavano, una volta al fronte, a capirsi fra loro e a intendere gli ordini degli ufficiali. Ordini insensati li spingevano al massacro.
Quando ricordiamo gli avvenimenti e i morti di cent’anni fa dobbiamo prima di tutto comprendere cos’aveva significato per quei giovani l’essere mandanti “a fare la guerra” senza comprenderne le ragioni e contro altri giovani pressappoco nelle loro stesse condizioni.
È certamente opportuno evitare di cadere nella retorica di segno opposto, ma siccome le tante altre guerre non sono state “l’igiene del mondo” e si sono invece rivelate altrettante “inutili stragi”, è forse più saggio celebrare il centenario e ricordare con rispetto i morti non con discorsi che suonano falsi e sgradevoli, ma con un impegno sincero di pace e di tolleranza. 

Angelo Emiliani