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Buco nell'acqua I rischi della delega al giudiziario: riflessioni dopo l’assoluzione di Salvini a Palermo. Quanto avvenuto per responsabilità dell’allora ministro dell’interno ha una valutazione definitiva negativa sul piano etico sociale e sul piano politico. Sarà interessante leggere nelle motivazioni come il Tribunale ha valutato gli aspetti da me segnalati come Garante nazionale all’allora presidente del Consiglio

La nave ong Open Arms foto Ansa La nave ong Open Arms foto Ansa

Anche troppo semplice esaminare l’esito della vicenda giudiziaria che ha coinvolto l’ex ministro degli interni Matteo Salvini e che si è conclusa con il «fatto non sussiste», pronunciato dal Tribunale di Palermo.

Semplice, perché è un chiaro esempio della difficile interconnessione di tre aspetti: la rilevanza penale di fatti, accadimenti e comportamenti; la loro dimensione etico-sociale con la relativa responsabilità, diversa da quella penale ma anche più sostanziale per chi ha una funzione pubblica; lo spazio proprio dell’agire politico, mai delegabile ad altri ambiti d’intervento.

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Tutti e tre questi aspetti sono interrogati da quel pronunciamento. Si può procedere per gradi: innanzitutto partendo dal significato della dichiarata insussistenza del fatto. Pur tenendo, ovviamente, saldo il principio della doverosa accettazione delle sentenze, va, infatti, chiarito che non esiste identità o sovrapposizione tra il fatto così come configurato nell’attribuzione di una fattispecie penale e il fatto in sé. Al tribunale spetta affermare la sussistenza o meno del fatto come penalmente configurato e non certo il giudizio sull’effettività storicamente determinata di ciò che è avvenuto. Il fatto in sé nel caso della vicenda della nave Open Arms è che la nave è stata trattenuta per diciotto giorni senza indicazione del place of safety (in acronimo Pos) cioè porto sicuro; che questo deve essere, anche in base alla sua previsione sul piano logico, un luogo dove potesse ritenersi conclusa l’operazione di salvataggio; che l’indicazione di rivolgersi ad autorità di altri Paesi è una rinuncia all’esercizio della propria responsabilità rispetto a navi che hanno a bordo persone raccolte in mare, che hanno sofferto la vicenda di una difficile navigazione. Molto spesso persone con già proprie fragilità e tutte con la fragilità intrinseca alla vicenda stessa del cercare un «altrove» diverso per l’impossibilità di continuare a vivere nel proprio alveo.

QUESTO È IL FATTO. Confermato da rapporti, prese di posizione, testimonianze di persone salite a bordo e perfino dalla consapevolezza stessa delle autorità italiane che peraltro hanno provveduto a far scendere, dopo un buon lasso di tempo, le persone più vulnerabili per malattia o per età, proprio a seguito dello stallo che si era venuto a determinare. Che la situazione fosse insostenibile è del resto testimoniato anche dall’esito di quei giorni, dopo la visita a bordo del procuratore di Agrigento che ha ordinato lo sbarco immediato.

Il fatto penalmente configurato è invece che tale situazione si inserisca nelle previsioni penali del sequestro di persona e del rifiuto d’atti di ufficio. Questo «fatto« per il Tribunale di Palermo non sussiste – e leggeremo le motivazioni che hanno portato a tale decisione – mentre certamente sussiste il fatto in sé così come si è determinato in quei giorni di agosto. Del resto, la non sussistenza del fatto penalmente configurato si è giocata attorno alla connotazione dell’agire dell’allora ministro dell’interno quale atto amministrativo, da cui far discendere la responsabilità della non concessione del porto a una nave carica di naufraghi, o quale atto politico che rinvia alla responsabilità collettiva dell’esecutivo sulla base di decisioni non direttamente sindacabili sul piano penale.

RESTANO DI SFONDO alcune considerazioni circa la distorsione interpretativa di obblighi internazionali allora operate dai responsabili del fermo rifiuto. Obblighi che vanno dalla valutazione di «non inoffensività» (da notare la doppia negazione) rispetto a una nave che aveva prestato soccorso in adempimento di norme del diritto del mare, alla sottovalutazione della possibile violazione dell’inderogabile divieto di trattamenti inumani o degradanti (e tali si andavano configurando) nonché alla pretesa di considerare «sicuro» il luogo di permanenza sulla nave ove peraltro era impossibile esercitare il diritto alla ricerca di protezione internazionale, non essendo state ancora identificate le persone soccorse.

Sarà interessante leggere come questi aspetti – segnalati allora anche direttamente al Presidente del Consiglio da me, quale Garante nazionale – siano stati considerati dal Tribunale nella delineazione della conclusiva verità processuale. Perché quest’ultima è l’esito naturale di un processo e non va mai confusa con una verità sostanziale e le due verità non vanno confuse. La verità di una sentenza, infatti, è un enunciato che però vuole esprimere un elemento fattuale: quindi, si fonda sul rapporto tra un atto sostanzialmente linguistico e un atto extra-linguistico, oggetto del giudizio. L’unica modalità per esprimerlo è di tipo inferenziale, deduttivo, ricavandolo cioè da prove e testimonianze connesse in una rete, appunto, di successive deduzioni. Questa linea di inferenza logica connette, tuttavia, qualcosa che è avvenuto nel passato – e come tale densa della situazione contingente, della sua emotività, del suo vissuto – ad affermazioni nel presente che, pur volendo astrarsi da suggestioni contingenti restano svincolate da ciò che il fatto esprimeva. Questo non limita certamente l’importanza fondamentale della verità giuridica che l’enunciato della sentenza afferma, ma lo rende distante dalla verità sostanziale di ciò che fu e apre lo spazio per altre valutazioni più collegate alla materialità dell’evento. Si apre lo spazio della valutazione etica di chi ha agito in quel contesto.

LA DIMENSIONE dell’etica sociale che dovrebbe guidare le azioni e i comportamenti di chi ha responsabilità pubblica interroga allora la funzione della politica, nella sua dimensione evolutiva del sentire comune e non, come avviene attualmente, nell’inseguimento preventivo del consenso, così consolidandolo. La politica non è riassumibile nella dualità, troppo spesso ricordata, che Rino Formica formulò a suo tempo, né nella gestione entro i margini di un presunto «possibile» inteso come limite dell’azione. Risiede invece nella capacità di praticare terreni non di immediato consenso né sottoponibili preventivamente al consenso stesso bensì basati su valori e diritti fondanti una data comunità – e riassunti nel nostro Paese nella Carta costituzionale – estendendoli alla massima applicazione possibile.

SOLO COSÌ la politica è maieutica e assolve alla sua funzione costruttiva di futuro. Molte delle riforme che hanno caratterizzato un passato non troppo lontano anche del nostro Paese hanno avuto questa connotazione: penso alla riforma sanitaria, alla riforma dell’attenzione psichiatrica, all’abolizione delle classi differenziali, alla stessa riforma penitenziaria. Nessuna sarebbe stata adottata soltanto sulla spinta di un presumibile consenso; sono state invece tappe per la costruzione di un consenso più avanzato. Così hanno avuto la dimensione di affermazione di etica sociale.

Per questo non soltanto quanto avvenuto per responsabilità dell’allora ministro dell’interno ha una valutazione definitiva negativa sul piano etico-sociale, ma anche sul piano politico – proprio quel terreno che la sua difesa in processo ha considerato come elemento risolvente sul piano giudiziario – perché fortemente regressiva e divisiva.

La giustizia assolve, ma la coscienza collettiva non subalterna esprime la sua condanna. Non penale: al contrario, indicativa di quanto questi atteggiamenti e queste azioni siano da contrastare e sconfiggere sul piano della capacità di contrasto politico, senza alcuna delega a quello giudiziario, che ha altre priorità, altre dinamiche e giunge ad altre conclusioni.