I fatti e le parole Oggi Israele non è «sionista», è molto peggio: è uno Stato le cui élite politiche condividono con rare eccezioni l’idea di un nazionalismo aggressivo ed esclusivista che, come dimostra plasticamente la figura di Netanyahu, ha bisogno di guerra per sopravvivere
Ragazze palestinesi cercano di ottenere un po' di cibo a un centro di distribuzione di Khan Younis – Ap/Abdel Kareem Hana
Ho cambiato idea, credo di essermi “radicalizzato”. Circa un anno fa ho scritto su queste pagine dei miei dubbi sull’opportunità di definire come «genocidio» la guerra condotta da Israele a Gaza. Dubbi, soprattutto, sul rischio che usare estensivamente un concetto così drammaticamente estremo, applicandolo a comportamenti che certo configurano crimini di guerra ma che sul piano giuridico sfuggono almeno in parte alla categoria canonica del genocidio, finisca per annacquare il senso, la percezione, la «sacralità» di una parola coniata per dare un nome al male più «indicibile»: alla Shoah.
Capisco le ragioni di chi rimane affezionato a questa disputa terminologica – crimini di guerra sì, genocidio no – ma oggi la trovo «distraente». I nomi, le parole sono importanti, però i fatti, le cose contano di più. I fatti sono che da più di un anno Israele – chi la governa, il suo esercito, le sue forze di sicurezza, senza una significativa opposizione politica e sociale nel mondo ebraico-israeliano – procede nella distruzione sistematica e indiscriminata dei palestinesi che vivono nella Striscia di Gaza, tollera e spesso spalleggia le persecuzioni continue contro civili palestinesi in Cisgiordania a opera di bande di coloni ebrei israeliani, rifiuta sistematicamente ogni richiamo di organismi sovranazionali alla palese illegittimità dei suoi metodi guerra.
ECCO, io penso che oggi dividersi tra quanti giudicano inaccettabili questi fatti, su come vadano nominati – genocidio? crimini di guerra? crimini contro l’umanità? – ne metta in ombra la gravità con pochi eguali nella storia recente e oscuri un fatto ulteriore che da essi consegue: Israele è ormai a tutti gli effetti un Paese «illegale», «criminale», altrettanto sprezzante del diritto internazionale e di quello umanitario dei Paesi e gruppi suoi nemici.
La redazione consiglia:
A Gaza le prove evidenti di un genocidioLo è non più soltanto come governo, ma come entità giuridica che rivendica, con le sue istituzioni, il diritto di massacrare decine di migliaia di civili palestinesi per neutralizzare Hamas, di occupare per un tempo indefinito territori non suoi dominandone gli abitanti come sudditi di un potere assoluto, di trattare da cittadini di serie b milioni di arabi israeliani (è apartheid? Anche in questo caso preferisco concentrarmi sulla cosa più che sul nome).
Distraente da questa evidenza, particolarmente dolorosa per chi come me sente un legame profondo con le radici ebraiche dello Stato d’Israele, considero anche il dibattito su sionismo e antisionismo. Il movimento sionista nacque alla fine dell’Ottocento per dare speranza a milioni di ebrei d’Europa perseguitati e discriminati.
Indicando l’obiettivo concreto di costruire uno Stato ebraico in Palestina, fondava la sua visione su un valore – il diritto dei popoli ad autodeterminarsi – che ha conosciuto nella storia due declinazioni tra loro opposte: patriottismo democratico e nazionalismo esclusivista. Declinazioni, per guardare all’Italia, che si combatteranno ferocemente nella guerra civile tra Resistenza e fascismo.
IL SIONISMO è sempre stato abitato da entrambe queste «anime», e in più ha recato fino dai suoi inizi i segni di un «peccato» originale: disinteresse per i diritti nazionali di quanti, non europei, vivevano da secoli nella «terra promessa». Il movimento sionista vedeva il mondo con occhi «colonialisti»: ma almeno fino a tutta la prima metà del Novecento così lo vedevano anche pensieri e movimenti squisitamente progressisti.
La redazione consiglia:
Per la Corte l’accusa di genocidio è plausibileBasti pensare a tanti socialisti rivoluzionari italiani che nel 1911 si entusiasmarono per la guerra coloniale in Libia, o alla sinistra socialista e comunista francese che alla fine degli anni ’50 sostenne con forza la repressione contro l’indipendentismo algerino.
Sarebbe bene, allora, lasciare il sionismo alle analisi e ai giudizi degli storici. Oggi Israele non è «sionista», è molto peggio: è uno Stato le cui élite politiche – fortunatamente non quelle intellettuali – condividono con rare eccezioni l’idea di un nazionalismo aggressivo ed esclusivista che, come dimostra plasticamente la figura di Netanyahu, ha bisogno di guerra per sopravvivere. È qui la prima e più micidiale minaccia esistenziale per Israele: è in quello che Anna Foa in un libro recente molto bello e molto sofferto ha chiamato il suo «suicidio».