Il re solo Nel suo seguitissimo discorso televisivo il presidente francese Emmanuel Macron ha parlato come un orleanista, cioè come il punto di equilibrio che esclude l’estrema destra e la sinistra. Questo vecchio […]
Nel suo seguitissimo discorso televisivo il presidente francese Emmanuel Macron ha parlato come un orleanista, cioè come il punto di equilibrio che esclude l’estrema destra e la sinistra. Questo vecchio sogno francese può essere compreso da un lettore italiano con Antonio Gramsci il quale, nei Quaderni del carcere, ha parlato di un «cesarismo senza Cesare», cioè di quel regime che non dispone di una grande personalità «eroica» (è difficile, in Francia, che Macron sia giudicato tale), ma capace di trovare una soluzione a una crisi caratterizzata da un equilibrio tra forze politiche in cui non è esclusa una conclusione catastrofica.
Nel suo discorso Macron ha detto che lui pensa all’«interesse generale». Questa categoria ha una storia.
La redazione consiglia:
Socialisti francesi pronti al compromesso. Nfp in crisiFrançois Guizot, pensatore di riferimento della Monarchia di Luglio (1830-48), oltre che presidente del consiglio per pochi mesi, l’ha usata spesso. Guizot mise in discussione sia il concetto di sovranità affidata a Dio sia quello di sovranità affidata al popolo, opponendosi sia ai sostenitori dell’Ancien Régime che ai repubblicani e ai democratici che vedevano nel 1789 un punto di partenza e non le colonne d’Ercole della politica.
Filosofo piuttosto modesto, lontano dal genio di Hegel, Guizot pensava che il governo fosse l’organo che consegnava la verità alla società. La sua idea di governo, espressione di un sistema elettorale ultra-censuale in cui solo i più ricchi avevano diritto di voto, presupponeva che il potere fosse detenuto da una piccola élite di notabili, gli unici in grado di comprendere l’interesse generale riducendolo così alla difesa dei loro privilegi. Sordo alla volontà del paese di vedere ampliata la base del suffragio elettorale Guizot fu rovesciato dalla rivoluzione del febbraio 1848.
Certo, non siamo più ai tempi di Guizot. Ma la sua idea-guida – quella per cui il popolo è sempre in minoranza – è il cuore del messaggio presidenziale oggi. Macron è l’erede di un liberalismo che pone la ragione dalla parte del potere e mai dalla parte del popolo. Questa spiegazione mi sembra più pertinente di quella psicologizzante che lo presenta come un individuo orgoglioso che si paragona a un Dio dell’Olimpo. Macron è responsabile della crisi attuale e il suo discorso all’indomani del voto di sfiducia del governo Barnier ha dimostrato che si assume questa responsabilità rifiutando qualsiasi mea culpa.
Questa crisi presenta tre aspetti. È strettamente politica. Non è la prima volta nella storia francese che l’Assemblea nazionale si divide in tre gruppi. È già accaduto tra il 1848 e il 1910. Lo hanno ricordato Julia Cagé e Thomas Piketty in Una storia dei conflitti politici (La Nave di Teseo). Oggi la possibilità di trovare una maggioranza di compromesso su alcune questioni importanti è bloccata. Da un lato, l’estrema destra (Rassemblement National) è per la prima volta una «creatrice di Re»; dall’altro lato, la destra e la sinistra sono più divise che mai. Una parte della destra guarda a Le Pen, mentre un’altra guarda al macronismo che ha raccolto l’eredità della destra liberale giscardiana. A sinistra la spaccatura tra la famiglia socialista e la France Insoumise è molto più profonda di quella che esisteva un tempo tra socialisti e comunisti.
La crisi è anche istituzionale: la Quinta Repubblica sembra si stia esaurendo. Macron si sta dimostrando incapace di ergersi al ruolo di arbitro e rimane leader di uno schieramento ormai in minoranza. Le forze politiche pensano, volenti o nolenti, solo alle elezioni presidenziali, chiave di volta dell’architettura istituzionale della Quinta Repubblica, mentre l’urgenza è quella di dare potere al parlamento, almeno per i trenta mesi che ci separano dalla prossima elezione del Capo dello Stato.
Infine, la crisi è sociale. La cosa più grave dell’attuale situazione francese è che questa dimensione fondamentale della crisi passa in secondo piano, assorbita dalla cronaca che a volte si trasforma in una tragicommedia: 51 giorni per trovare un primo ministro a capo di un governo composto da persone totalmente sconosciute al grande pubblico, ad eccezione di pochi. La posta in gioco in questo momento è la direzione che si vuole dare al paese.
Si stanno delineando tre opzioni principali. La prima, guidata da Macron, è quella di un liberalismo duro ed europeista, pronto a fare concessioni sulle questioni sociali all’ideologia lepenista. La scelta di Bruno Retailleau come ministro degli interni e come unico «peso massimo» politico nell’ultimo governo Barnier ne è stata una chiara dimostrazione. La seconda opzione, quella della sinistra, propone misure di giustizia sociale senza abbandonare l’Unione europea e senza cedere ai richiami di Le Pen. La terza opzione è quella di Le Pen di cui si capisce ancora poco perché il suo partito, pur cercando di darsi un’aria di rispettabilità, mantiene una concezione tribunizia della politica, facendosi portavoce di una parte dell’opinione pubblica che teme il declassamento sociale e la perdita di identità della Francia e che vede nell’immigrazione il capro espiatorio da sacrificare per riscattare il paese.
Dietro le palinodie del Capo dello Stato, che ha deplorato con discutibile indignazione il fatto che i deputati socialisti abbiano votato per la censura, dimenticando il ritiro degli elettori di sinistra a favore del suo schieramento nel giugno scorso, sorge una domanda seria: la crisi sarà risolta in parlamento, come dovrebbe essere la norma in una vecchia democrazia come la Francia, o nelle strade, con il rischio di una risposta con la forza da parte di un governo ormai privo di egemonia? In questi casi la miopia e la sordità sono nemici pericolosi in politica.
* Maitre de conférences chez universite de Rouen - Traduzione di Roberto Ciccarelli