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La guerra in Ucraina Le storie di Svetlana e degli anziani che ancora abitano queste regioni martoriate. La vita dei civili dopo 31 mesi di bombe. Vige il proibizionismo e dilaga l’alcolismo. «Ci hanno venduto, prima avevamo carbone, terra, risorse… Ora non ci resta più niente»

foto di Vincenzo Circosta foto di Vincenzo Circosta – foto di Vincenzo Circosta

«Senza vodka non resisteremmo un giorno intero» dice Svetlana dopo essersi scusata per il suo alito pesante. Una donna accanto a lei ride e si allontana, altri due anziani restano in disparte e la lasciano raccontare.

È MATTINA A POKROVSK, in una via sterrata della periferia a nord della città diventata l’obiettivo principale dei russi in questa fase della guerra ci sono solo case a un piano con l’intonaco cadente e i tetti rattoppati con i teli cerati. Sono le tipiche case delle aree semi-urbane e rurali del Donbass, tutte uguali, con un pezzetto di giardino, un capanno per gli attrezzi e le conserve e le pareti di legno ammuffite. La maggior parte non ha le fondamenta e neanche le fogne.

È in abitazioni del genere che hanno vissuto generazioni di famiglie di queste regioni martoriate. Nel 2022 potevi ancora vedere i fiori di fronte ai cancelletti di legno e i cigni realizzati con i copertoni delle auto pitturati di blu e bianco. Le babushke qui ancora portano il fazzoletto a triangolo sulla testa e gli scarponi, preparano kompot e conserve, ogni cantina era una miniera di primizie. Un contesto non agiato ma pulito, dignitoso. Sono regioni di operai e contadini che con la terra hanno sempre mangiato e convissuto. Ora solo erbacce, buche sugli stradoni con i resti dei proiettili e abitazioni sventrate dalle bombe o assalite dall’abbandono.

NELLE CASE ANCORA ABITATE ci sono loro: gli anziani del Donbass. Abbiamo raccontato spesso dei soldati dell’Ucraina occidentale che li chiamavano Moskalì, un dispregiativo per definirli filo-russi, e di come molti di loro fossero diffidenti nei confronti del potere centrale di Kiev. Dopo 31 mesi di guerra questo ideal-tipo di vecchio dell’est ucraino è ancora duro a morire ma la guerra abbrutisce e degrada il contesto e le persone. L’alcolismo dilaga e, anche se nel Donetsk ufficialmente vige il proibizionismo, la vodka si trova. «Al triplo del prezzo» lamenta Svetlana, che parla senza sosta e si scusa a ogni frase. «Non mi riprendete con la sigaretta, per carità». Si fa il segno della croce alla maniera ortodossa, con il figlio che sta più in basso, vicino all’ombelico, e dice «slava Bogu», gloria a Dio alla fine di ogni frase.

«Non abbiamo più niente – dice – ma se Dio vorrà sopravviveremo, perché la sofferenza che Lui ci manda ha un motivo». Ma quale può essere il motivo di tutto ciò? Piange in continuazione, è l’alcol ma guardandosi intorno non c’è nulla di sobrio intorno a noi.
Svetlana non ha più la casa che è stata danneggiata da un bombardamento russo. Ci accompagna a vederla e quando trova una macchina dei militari parcheggiata davanti al cancello inizia a prenderla a pugni e a calci. Se non la fermassimo si romperebbe un piede.

«MIO MARITO era qui in giardino, quando ho sentito i gatti miagolare forte l’ho chiamato e gli ho detto di entrare; non voleva, ma poi gli ho detto che se non entrava l’avrei strangolato. Poco dopo sono arrivati i missili russi». In giardino si lancia in confessioni a bassa voce, nonostante non ci sia nessuno: «ci hanno venduto, prima della guerra avevamo tutto: carbone, terra, risorse… ora non ci resta più niente». Chi li ha venduti? «L’Ucraina!». Ma a chi? «Non lo so, ai potenti che vogliono le nostre risorse. Io ho votato Zelensky quando si è candidato, gli ho creduto, ma ora non gli credo più, anche lui è come tutti gli altri. Ma prego per lui, prego che torni in sé e che prenda le scelte giuste. D’altronde – si fa il segno della croce – bisogna sempre pregare per il tuo zar».

Ripartiamo per l’altra casa, dove ci accolgono 4 cani e almeno 7 gatti. Le porte e le finestre sono chiuse, puzza tutto di muffa e cibo vecchio. Svetlana saluta gli animali – i suoi «bambini» li definisce quando ci dice che non ha avuto figli – e inizia a chiamare: «Valera!». Da una porta chiusa si sente un mugugno e dopo poco esce un uomo in accappatoio. È ubriaco e quasi non riesce a reggersi in piedi. Gli occhi gialli e con grumi di sangue ci guardano perplessi. Ci propone subito un brindisi e Svetlana ci intima di accettare, poi lo bacia teatralmente e pretende una foto. Sotto al lavandino molte bottiglie finite, in frigo altre piene.

MA COME FANNO a comprare queste cose? «Non abbiamo la pensione perché io ho solo 65 anni, sono una maestra delle elementari e, vedi? – indica una lampada dell’Unhcr e un pannello fotovoltaico – questo me l’hanno dato quelli degli aiuti umanitari per fare lezione a distanza. Ma non c’è mai internet, è impossibile».
«Con gli altri vicini» riprende, «ci riuniamo a turno in case diverse, mangiamo insieme, mettiamo i soldi in comune per fare la spesa e passiamo le giornate». Bevono anche gli altri? «Certo, cosa dovrebbero fare!».

A UN CERTO PUNTO le viene un’idea e scappa in un’altra stanza. Torna con i lembi del vestito sollevati e inizia a trarne ninnoli e un set di bicchieri di porcellana a forma di pesce. «Questi me li ha regalati il padre di Valera quando ci siamo sposati, voglio che li prendiate voi». Le diciamo che non possiamo accettare ma lei insiste. «Noi non usciremo vivi da questa guerra, lo sappiamo, voglio che qualcuno li continui a usare». Ma come, e Dio? «Già mi ha graziato una volta» preme una mano sul seno destro per dimostrare che sotto non c’è niente, non ce ne eravamo accorti. «Prendeteli vi prego e dite a tutti di pregare per noi perché se tutti nel mondo si mettono insieme per la stessa preghiera la guerra può finire».

Alla fine accettiamo i ninnoli più insignificanti e le lasciamo il servizio con la promessa che quando finirà la guerra li useremo per brindare. Slava Bogu

 

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Ue Ruolo top alla socialista spagnola. Vicepresidente esecutiva, a lei la transizione giusta, pulita e competitiva

Teresa Ribera - Ap Teresa Ribera – Ap

Alla fine è Teresa Ribera a prendere l’ambito posto di Vicepresidente per la transizione giusta, pulita e competitiva. Ministra della transizione ecologica e vicepresidente del governo spagnolo dal 2018, si occupa di clima e ambiente da quasi un trentennio. All’ultimo incontro negoziale delle Nazioni Unite sul riscaldamento globale – la non entusiasmante Cop28 di Dubai – ha giocato un ruolo da protagonista. Non stupisce che la sua nomina esalti l’esecutivo Sánchez, che si vede assegnare un ruolo di peso e vicino ai cordoni della borsa. Ma la nomina della figura più ecologista che il lato progressista della sua coalizione le potesse offrire non era scontata. La sua opposizione al nucleare è fortemente osteggiata dal Ppe.

Il secondo mandato di von der Leyen inizia infatti sull’onda del green backlash, il rifiuto delle politiche verdi – reali o annunciate che siano – che ha premiato la destra un po’ ovunque. Tanto più che un altra poltrona di peso è stata proposta per il meloniano Raffaele Fitto – un braccio teso verso Fratelli d’Italia che non aiuterà di certo la transizione. Gli ottimisti possono vedere nella scelta di Ribera un segno di buona volontà di von der Leyen nel mantenere gli impegni presi durante la scorsa legislatura. Per i critici, è un contentino ai socialisti nell’ambito di una maggioranza che si sposta a destra. «Il centrodestra odia e teme Ribera in egual misura» scrive Politico, «ma non può votare contro la sua nomina perché, beh ragazzi, non avete proposto abbastanza donne». Teresa Ribera è infatti una delle undici commissarie di genere femminile in un esecutivo dominato al 60% da uomini.

Al suo fianco la vicepresidente troverà un amico – l’ex ministro dell’ambiente danese Dan Jørgensen, delega all’energia – e due possibili ostacoli, l’olandese Wopke Hoekstra e la svedese Jessika Roswall. Entrambi conservatori, il primo è commissario al clima e al net-zero, la seconda all’ambiente. Ma non sembrano figure tali da preoccupare Ribera. Per lei, il problema saranno i voti in Parlamento europeo e lo spostamento a destra di Liberali e Popolari, Ursula Von der Leyen compresa. Sempre, bentinteso, che la paladina della transizione spagnola voglia mantenere intatta la sua fama anche a Bruxelles

 

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Medio Oriente Saltano in aria migliaia di cercapersone in dote a Hezbollah, nelle case, nei negozi, per strada. Principale indiziato: Tel Aviv. Operazione senza precedenti, gli esperti parlano di crimine di guerra. Il partito sciita promette reazioni, ma ora è più debole, sul piano militare e politico

Alcuni dei feriti dalle esplosioni dei cercapersone fuori dall’ospedale dell’American University a Beirut foto Ap/Bassam Masri – Ap/Bassam Masri

Duemila e ottocento feriti e nove morti. Quello di ieri è stato il più potente attacco cibernetico di sempre registrato in Libano. A esplodere i cercapersone in dote a membri di Hezbollah, non solo militari, anche funzionari e dipendenti civili: insomma un’operazione per nulla chirurgica.

TRA I MORTI, una bambina di otto anni e i figli di Ali Ammar e Hassan Fadlallah, importanti quadri e deputati del partito. Lo stesso ambasciatore iraniano in Libano Mojtaba Amani è stato lievemente ferito.

Hezbollah ha fatto sapere che il suo leader Hassan Nasrallah non è stato toccato dalle esplosioni. La maggior parte dei feriti è stato colpito all’addome, ai genitali, alle mani e alla testa.

Anche in Siria si sono registrate esplosioni simili tra le file del Corpo della guardia rivoluzionaria islamica iraniana, ma con un numero di feriti molto ridotto (secondo l’Osservatorio siriano per i Diritti umani sarebbero una quindicina).

I cercapersone, che oggi sembrano apparecchi postdatati, erano di ultima generazione, costruiti a Taiwan e forniti di recente a Hezbollah forse tramite l’Iran, probabilmente in seguito allo scandalo di qualche mese fa: telefoni (sempre di Hezbollah) sotto controllo da parte del Mossad.

PARE CHE i dispositivi possano essere stati modificati e dell’esplosivo posto all’interno, fatto poi saltare attraverso delle frequenze radio specifiche. Un’altra possibilità, più remota, è quella di un impulso elettronico inviato da lontano che avrebbe fatto esplodere i telefoni.

Si tratta al momento di plausibili supposizioni da parte degli esperti, che significano però sicuramente una falla nel sistema operativo di Hezbollah, nella sua comunicazione interna e un gravissimo colpo tanto militare, quanto psicologico.

Militare perché confermerebbe la debolezza dei servizi di Hezbollah e dell’Iran, o peggio infiltrazioni esterne o spie interne, oltre a esporre il movimento: in caso di guerra aperta con Israele si ritroverebbe con vie di comunicazioni compromesse.

E poi psicologica: i cercapersone sono stati fatti esplodere in vari punti del paese – a sud, nella valle della Beka’a, nella periferia meridionale di Beirut, e in tutti gli altri luoghi in cui il partito/milizia è radicato, oltre che in Siria – contemporaneamente, creando il panico e intasando i pronto soccorsi.

ISRAELE non ha rivendicato l’attentato ma Hezbollah, l’ha ufficialmente accusato: «Dopo aver esaminato i fatti e le informazioni disponibili sull’attacco criminale di questo pomeriggio, riteniamo il nemico israeliano totalmente responsabile di questa aggressione, che ha toccato anche dei civili e causato la morte di diversi martiri, oltre che provocato numerosissimi feriti. (…) Questo nemico perfido e criminale riceverà senza dubbio la giusta ricompensa a questo attacco».

Il governo libanese ha denunciato «con forza l’aggressione criminale israeliana che rappresenta un’importante violazione della sicurezza e della sovranità libanese» e ha aggiunto di aver «immediatamente interpellato le Nazioni unite affinché mettano i colpevoli di questi atti criminali che non conoscono limiti davanti alle loro responsabilità».

Le scuole sono sospese oggi in tutto il paese. Philip Proudfoot, dell’Institute of Development Studies, citando la convenzione di Ginevra del 1949 ha descritto su X il fatto come un crimine di guerra: i dispositivi, nonostante di proprietà di membri di Hezbollah, sono stati fatti esplodere mentre la maggior parte di questi si trovava in mezzo ai civili.

IL PRESIDENTE del parlamento e capo dell’altro partito sciita libanese Nabih Berri ha accusato Israele di aver commesso un «crimine di guerra» e ha chiesto al «mondo intero di fermare la macchina del terrore israeliana». L’Iran ha subito condannato l’attacco, mentre il portavoce del Dipartimento di Stato statunitense Miller ha sottolineato che gli Stati uniti non hanno preso parte né erano al corrente dell’attentato.

Se la responsabilità israeliana dovesse essere accertata, l’atto si inserirebbe nell’operazione più volte annunciata, specie in questi ultimi giorni, contro il Libano. Ieri sera un consiglio d’urgenza si è riunito al ministero della difesa israeliana per decidere sul da farsi. Si attende la risposta di Hezbollah.

E intanto gli scontri al confine sono andati avanti anche ieri: nel tardo pomeriggio tre civili libanesi sono stati gravemente feriti in un attacco aereo a Majdel Selm, periferia di Marjeyoun, mentre erano a casa. In mattinata a Blida, stessa area, tre morti e due feriti. Hezbollah ha invece lanciato missili contro postazioni militari nel nord di Israele.

A QUASI un anno dall’inizio del conflitto tra Israele e Hezbollah e dopo aver sfiorato varie volte l’escalation e l’estensione del conflitto alla regione intera, mai come ora si respira aria di guerra. Le prossime ore e i prossimi giorni daranno la misura di questa operazione che mette in crisi per l’ennesima volta gli equilibri precarissimi del Libano e della regione intera

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Ursula von der Leyen disegna la nuova Commissione europea a sua immagine. Rigida in economia, in frenata sul Green deal e dura sull’immigrazione. L’ideale per allargare ai conservatori, con l’Italia a fare da battistrada. E cresce il peso dei paesi dell’Est

Fianco destro Oscilla tra europeismo e sovranismo la Commissione presentata da Ursula von der Leyen. Rigidità sui conti e niente sociale

Ursula von der Leyen presenta la nuova Commissione europea foto di Mathieu Cugnot Ursula von der Leyen presenta la nuova Commissione europea – foto di Mathieu Cugnot

Una Commissione molto più a destra di quella precedente, situazione che dipende dai colori dei governi dei 27, a cui si è adeguata con grande agio la presidente Ursula von der Leyen, che oggettivamente aumenta il suo potere personale di esponente del Ppe, anche grazie alla debolezza dei due grandi in Consiglio, la Francia in piena crisi politica e la Germania con il governo Scholz incalzato dalle destre.

È una Commissione liquida, con attribuzioni fluide e spezzettate, che si incrociano, dove a qualche apertura si affianca immediatamente la chiusura, all’europeismo il sovranismo. Il compito della nuova Commissione sarà di rispondere all’angoscia del rischio della «lenta agonia» indicato dal rapporto Draghi: la scelta di bilanciare le appartenenze politiche, mettendo sempre un guardiano pro business per temperare eventuali velleità sociali, segnala la volontà di sacrificare sull’altare della riconquista della competitività regole e protezioni.

L’esempio più chiaro è la transizione climatica: il clima è bilanciato tra la socialista spagnola Teresa Ribera alla Transizione, grande lottatrice che è stata anche negoziatrice Onu sull’ecologia, e l’olandese Wopke Hoekstra al Clima, un rigido ex ministro delle Finanze “frugale”. Per l’Energia c’è il danese socialdemocratico Dan Jørgensen e all’Economia circolare la svedese (partito dei moderati) Jessika Roswall, una seconda scelta per Stoccolma. Le cariche dedite alla spesa sono sotto controllo del polacco Piotr Serafin, esponente del più grosso paese a guida Ppe, molto apprezzato dai “frugali”, che avrà un rapporto diretto con Ursula von der Leyen per tenere stretti i cordoni della borsa.

L’EST è in netta crescita di importanza e la prima certezza, con lo spostamento del potere dalla «vecchia Europa», è la conferma dell’appoggio all’Ucraina: accanto a Kaja Kallas (Estonia, ex prima ministra e candidata sfortunata alla segreteria Nato), che alla Politica estera sostituisce Josep Borrell – e si esporrà anche molto meno a favore dei palestinesi – c’è un

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Le mareggiate rappresenteranno un problema anche per i fiumi che scaricheranno con fatica a mare aumentando il rischio alluvionale nelle zone più a rischio

 

e carte meteo avevano preannunciato per l'Italia una settimana di temperature dal sapore tipicamente autunnale, ma le immagini che arrivano dal Centro Europa descrivono un disastro diffuso in un'area vastissima che va dall'Austria alla Polonia (video qui sotto) passando per la Romania. Migliaia le persone evacuate per il rischio di inondazioni: i fiumi ricolmi d'acqua già tracimano dagli argini mentre in montagna si susseguono nevicate eccezionali (in Austria picchi di 2 metri di neve), con il rischio che poi possa entrare in fusione con il ritorno del normali temperature del periodo, alimentando ancor più i corsi d'acqua a valle. 

Questa rapidissima panoramica è utile per capire cosa succederà anche in Italia nelle prossime ore: da martedì e fino a giovedì il nucleo d'aria fredda che ha già allontanato l'estate dal bacino mediterraneo prima di oltrepassare i Balcani, tornerà a riavvicinarsi lentamente all'Italia portando un nuovo forte peggioramento. Il mare Adriatico - ancora molto caldo - sarà il motore di un'ondata di maltempo che colpirà in particolare l'Emilia Romagna e le Marche. I modelli matematici vedono piogge eccezionali per durata e intensità che fino a giovedì insisteranno su alcune zone dell'Italia.

 
pioggia 12 ore
Le piogge previste martedì mattina

La formazione di un'aera di bassa pressione sul basso Tirreno genererà una intensificazione dei venti nord-orientali sui settori adriatici centro-settentrionali e pertanto tra martedì e mercoledì il vortice che si trova Romania, Ungheria e Serbia si porterà sull'Italia portando piogge abbondanti sul versante adriatico, appennini centrali e sulle regioni del Sud. Il peggioramento tuttavia si andrà a intensificare mercoledì - soprattutto su Emilia Romagna e Marche - ma piogge e rovesci sparsi interesseranno quasi tutta l'Italia, tranne la zona alpina. Una beffa per chi in montagna si aspettava una replica delle precipitazioni nevose viste sul versante austriaco. Solo da giovedì sera si vede un miglioramento.

piogge estreme mercoledi
L'allerta per piogge estreme mercoledì 18 settembre 2024

L'intensità delle precipitazioni dovrebbe preoccupare le popolazioni che si trovano in zona a rischio alluvionale: c'è infatti un'alta probabilità che tra domani e giovedì si possano registrare valori record di pioggia cumulata. Sulla base delle previsioni disponibili, il Dipartimento della Protezione Civile ha emesso un avviso di condizioni meteorologiche avverse per temporali su Emilia-Romagna e Marche. Tuttavia attenzione anche per locali nubifragi sulle zone costiere di Abruzzo e Molise, e su Campania, Puglia e Basilicata. I temporali potranno registrare anche una forte fulminazione così come grandine di grossa dimensione associata a forti raffiche di vento: venti di burrasca coinvolgeranno anche Friuli Venezia Giulia e Veneto con mareggiate sulle coste esposte.

allerta meteo 17 settembre 2024
L'allerta meteo per 17 settembre 2024

Le mareggiate rappresenteranno un problema anche per i fiumi che scaricheranno con fatica a mare aumentando il rischio alluvionale nelle zone più a rischio. Pertanto da martedì 17 settembre scatta l'allerta gialla su parte di Emilia-Romagna, Marche, Umbria, Lazio, Abruzzo, sugli interi territori di Molise, Basilicata e Puglia, su parte di Campania e Sardegna. Un ulteriore peggioramento della situazione è previsto per mercoledì 18 settembre e giovedì 19. Vale il solito consiglio:è bene seguire gli avvisi meteo delle autorità locali

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Striscia di Gaza Il ministero della sanità palestinese ha pubblicato i nomi di 34mila morti identificati. Uccisi ieri a Gaza altri 20 palestinesi. Cinque sono stati fatti a pezzi da una bomba mentre erano in fila davanti a una panetteria nell’«area sicura» di Mawasi

Gaza,14 pagine di neonati uccisi. Bibi ora punta il Libano 

Mentre Benyamin Netanyahu e il ministro della Difesa Yoav Gallant dicevano ieri all’inviato Usa Amos Hochstein che solo un conflitto totale in Libano «riporterà nelle loro case gli sfollati» dall’Alta Galilea, l’offensiva israeliana che da quasi un anno devasta Gaza continua ogni giorno, senza eccezioni, a uccidere palestinesi. Almeno altri 20 ieri, a sud come a nord della Striscia, in prevalenza civili colpiti in campi di tende e abitazioni: cinque sono stati fatti a pezzi da una bomba mentre erano in fila davanti a una panetteria nel campo Al Sumud nell’«area sicura» di Mawasi. Non si sa se queste vittime saranno identificate tutte subito, andando ad aggiungersi alle oltre 30mila, sulle 41.226 in totale dal 7 ottobre, che sono state riconosciute ufficialmente e hanno un nome e un cognome.

Due giorni fa il ministero della Salute di Gaza ha pubblicato un documento di 649 pagine in cui vengono forniti nome, età, sesso e numero della carta di identità di 34mila palestinesi uccisi dalle forze israeliane. Le prime 14 pagine del documento sono agghiaccianti. Contengono i nomi dei bambini che avevano meno di un anno quando sono morti nei bombardamenti israeliani. I minori uccisi sono 11.355, un terzo del totale dei morti. 13.737 sono gli uomini, con un’età compresa tra i 18 e i 30 anni, in parte combattenti di Hamas e di altri gruppi armati palestinesi, tutti gli altri sono civili. Ottobre 2023 è stato il mese più mortale per i bambini e le donne palestinesi. Tuttavia, il numero effettivo dei deceduti con ogni probabilità è più alto anche del totale degli uccisi identificati e da identificare: sotto le macerie di edifici e case, ci sarebbero i corpi di almeno 10mila palestinesi dispersi. Sono invece circa 1.600 i soldati e i civili israeliani uccisi il 7 ottobre e negli 11 mesi successivi.

Un bagno di sangue che include anche la Cisgiordania occupata (centinaia i palestinesi uccisi) e che per starebbe per allargarsi al Libano. Ieri Hochstein, l’inviato di Biden, ha ripetuto agli israeliani che un conflitto più ampio contro Hezbollah – che lancia attacchi contro Israele in sostegno dei palestinesi – non aiuterà gli sfollati a tornare a casa. Una possibilità che non spaventa Benyamin Netanyahu, anzi il premier israeliano appare deciso ad aprire un nuovo fronte di guerra. I 60.000 israeliani evacuati dal nord, ha detto Netanyahu a Hochstein giunto ieri a Tel Aviv, «non potranno tornare alle loro case senza un cambiamento fondamentale nella situazione della sicurezza» nelle zone di confine con il Libano. «Israele – ha avvertito il primo ministro – apprezza e rispetta il sostegno degli Stati uniti, ma alla fine farà ciò che è necessario per mantenere la sua sicurezza». Una dichiarazione di guerra indiretta che potrebbe materializzarsi nel giro di qualche giorno, malgrado la presunta opposizione alla guerra, almeno in questa fase del ministro della Difesa Yoav Gallant, contrario a disperdere le forze armate su più fronti. In realtà anche Gallant punta alla guerra, ma non subito. Secondo un comunicato del ministro della Difesa diffuso dopo il faccia a faccia con Hochstein, Gallant ha sottolineato che la possibilità di un accordo con Hezbollah si sta esaurendo poiché il movimento sciita continua a «legarsi» a Hamas.

Paradossalmente proprio l’uscita di scena di Gallant darebbe inizio del conflitto. Liberandosi del «dubbioso» ministro della Difesa e sostituendolo con Gideon Saar, un ex rivale divenuto di recente suo alleato, Netanyahu avrebbe la strada spianata per l’attacco in Libano. Saar è noto per il suo sostegno alla «vittoria totale» contro Hamas a Gaza e per un attacco massiccio in Libano. Le sue posizioni spaventano persino le famiglie degli ostaggi israeliani: la sua nomina, dicono, significherebbe l’addio definitivo alla possibilità di un accordo con Hamas per uno scambio di prigionieri. Netanyahu comunque ieri ha negato di voler sostituire Gallant.

Gli esperti militari affermano che Israele ha raccolto in questi mesi «informazioni di intelligence fondamentali» ed è pronto a lanciare un attacco dal cielo a sorpresa in Libano per neutralizzare buona parte dei sistemi di lanci di razzi e missili di Hezbollah. Se ciò non spingerà il movimento sciita ad arretrare i suoi uomini e avrà inizio una pioggia di razzi, droni e missili contro obiettivi in Israele (inclusa Tel Aviv), scatterà l’offensiva di terra e una nuova occupazione del Libano del sud, 24 anni dopo il ritiro israeliano dal paese dei cedri.

Hezbollah non si lascia intimidire e anche ieri ha rivendicato attacchi contro postazioni militari israeliane in Alta Galilea, in rappresaglia per i sanguinosi raid israeliani nei quali sono morti non solo combattenti ma anche civili, tra cui un bambino. L’influente deputato di Hezbollah, Hussein Hajj Hasan, ha ribadito che la sua organizzazione cesserà i lanci di razzi e droni quando Israele metterà fine alla sua offensiva a Gaza. «Il nostro obiettivo è chiaro ed è evidente a tutti: impedire al nemico di vincere e aiutare la resistenza a Gaza a ottenere la vittoria» ha detto.

Netanyahu fa la voce grossa anche con i combattenti Houthi. Domenica ha avvertito non mancherà di rispondere al lancio di un missile balistico dallo Yemen verso il centro di Israele, caduto a soli 35 chilometri dall’aeroporto internazionale Ben Gurion. Lo scorso luglio, dopo l’uccisione di un israeliano a Tel Aviv causata da un drone degli Houthi, l’aviazione israeliana bombardò massicciamente il porto yemenita di Hodeida causando gravi danni e numerose vittime

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