Nella foto: Bombardamenti israeliani a Beirut, Libano @Bilal Hussein/Ap
Oggi un Lunedì Rosso dedicato all’idea del fuori. La incarna l’attivista curdo iraniana Maysoon Majidi, finalmente uscita da una lunga reclusione nelle carceri italiane, dopo essere fuggita dalle persecuzioni di vari governi. Sono fuori, perché spesso detenuti e respinti ai confini dell’Europa, i richiedenti asilo che provengono da paesi definiti “sicuri”. Ma cosa definisce davvero un paese sicuro? Fuori, o sulla soglia sottile che divide salute e malattia mentale, qui si collocano oggi tanti abitanti di Israele, dopo oltre un anno di sangue, la tenuta nervosa del paese è in declino.
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Commenta (0 Commenti)Patria e famiglia Il degrado dell’istituzione cui è affidato il patrimonio del paese non è cominciato con Sangiuliano e nemmeno con Sgarbi. Ma i nuovi potenti ci si ritrovano alla perfezione
Il G7 della cultura in visita al Museo archeologico di Napoli
Il degrado del ministero della Cultura – istituzione che dovrebbe tutelare e promuovere il patrimonio del paese, in tutte le sue forme, nell’interesse pubblico – non l’abbiamo scoperto con l’ondata di dimissioni partita a febbraio con la «resa» del sottosegretario Sgarbi.
Neppure il caso Boccia, che ha segnato la fine del ministro Sangiuliano, può considerarsi il culmine delle vergogne di un dicastero scosso nelle ultime settimane dalle dimissioni del capo di gabinetto Spano, nominato dal neo-ministro Giuli il 14 ottobre e durato, appunto, come una meteora.
Proprio le vicende di Spano – accusato anch’egli di conflitto d’interessi per l’assegnazione di un contratto di consulenza al Maxxi in favore del compagno (Marco Carnabuci, con cui si è poi unito civilmente) mentre era segretario generale del museo durante la presidenza di Giuli, hanno tolto il velo alla menzogna di un’azione moralizzatrice del governo di destra. Il cui obiettivo è stato da subito identificato nel sovvertimento dell’egemonia culturale della sinistra, intesa non solo come principi ideologici ma anche come modus operandi. Spano è stato infatti introdotto al Maxxi nel 2022 dall’allora presidente Giovanna Melandri, dopo aver ricoperto il ruolo di direttore dell’Unar, l’ufficio antidiscriminazioni razziali della presidenza del Consiglio dei ministri durante il governo Gentiloni.
ANCHE IL MILLANTATO spoil system annunciato a più riprese da Sangiuliano (e non si sa fino a che punto interrotto dal feuilleton estivo di sapore berlusconiano) si è rivelato un bluff. L’ex ministro, che aveva puntato sull’uso del patrimonio per alimentare la propaganda nazionalista – frequenti le sue visite al sito archeologico di Pompei, dove in sua assenza si è svolto il G7 della cultura più chiacchierato della Storia – ha sostanzialmente mantenuto attorno a sé i dirigenti scelti dal suo predecessore Franceschini. Alcuni di essi, come Alfonsina Russo e Luigi La Rocca, sono stati addirittura promossi al vertice di due dei quattro dipartimenti (rispettivamente il DiVa-Dipartimento per la valorizzazione del patrimonio culturale e il DiT- Dipartimento per la tutela del patrimonio culturale e del paesaggio) istituiti con la riorganizzazione del ministero entrata in vigore lo scorso maggio. Una riforma che moltiplica le poltrone e appesantisce la macchina burocratica, senza apportare reali miglioramenti alla gestione delle attività culturali e di un vasto e variegato patrimonio che continua a essere alle mercé di lotte partitiche e interessi privatistici.
Oltre alla controversa nomina dei quindici esperti della commissione Cinema (parzialmente sconfessati da Giuli), un esempio della deriva in cui si trova il MiC è dato dalla gestione dei parchi e dei musei archeologici autonomi, stretti tra le maglie di un carrierismo perverso legato a nomine fiduciarie non basate sulla competenza e da politiche di valorizzazione che esasperano l’aspetto commerciale (entrambi retaggi franceschiniani), generando incassi da reinvestire solo idealmente nella tutela e incrementando invece un giro di affari estraneo alle finalità dei musei. Basti citare, a questo proposito, gli acquisti spericolati di opere d’arte contemporanea al museo delle Civiltà di Roma e lo showroom di Bulgari al museo Nazionale Romano. Quest’ultimo evento, svoltosi lo scorso maggio, ha comportato la chiusura al pubblico per due settimane di intere sezioni del museo: una truffa verso gli ignari visitatori paganti e un probabile danno erariale.
IN TALE CLIMA di anarchia (o di oligarchia) continua a imperversare il direttore generale dei musei Massimo Osanna, nominato da Franceschini nel 2020 dopo essere stato alla guida del Parco archeologico di Pompei (dove era arrivato nel 2014 come «soprintendente speciale» grazie all’appoggio dell’allora ministro Bray), confermato nel settembre del 2023 da Sangiuliano – che gli ha però negato la promozione a capo dipartimento – e ora al servizio del ministro Giuli. La prima uscita pubblica congiunta l’hanno fatta a Francoforte, in occasione della Fiera del libro. Nel padiglione Italia, Osanna aveva infatti organizzato e curato assieme ai suoi amici di lunga data Maria Luisa Catoni e Luigi Gallo la mostra Sotto un cielo antico. Pompei tra passato e presente, con alcuni preziosi reperti conservati al museo Archeologico Nazionale di Napoli.
Per questo breve ed effimero prestito Osanna non ha dovuto concertarsi con nessuno. Dal novembre del 2023 risulta infatti delegato alla direzione del prestigioso museo napoletano, sebbene qualche mese prima della scadenza del mandato di Paolo Giulierini il «Mann» sia stato promosso tra gli istituti autonomi di «prima fascia» e dovrebbe quindi afferire, per effetto della Riforma, al Dipartimento per la valorizzazione del patrimonio. Nella prolungata attesa del bando per la scelta del nuovo direttore, Osanna esercita dunque il pieno controllo del «Mann», utile come bacino di risorse per operazioni di immagine o di consolidamento del potere di influenza ottenuto grazie alla presenza di suoi fedelissimi in posti chiave per l’archeologia.
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Il a Marzeno: il torrente ha trascinato con sé non solo l’argine, ma addirittura frammenti di muri e pavimentazioni (Corelli)
Ravenna, 27 ottobre 2024 – È il capitolo relativo alle delocalizzazioni quello più spinoso di tutto il dossier sulla ricostruzione,che prenderà ufficialmente il via non appena la struttura commissariale avrà reso pubblico il suo Piano speciale, appuntamento in vista del quale è previsto un confronto a tu per tu con la Regione Emilia Romagna domani, 28 ottobre, a Roma.
Nel corso di alcuni recenti incontri pubblici la presidente regionale Irene Priolo ha tracciato quelle che saranno le coordinate in fatto di delocalizzazioni, a partire da alcuni punti fermi, in primis quello secondo cui “le case che dovranno essere abbattute non potranno essere ricostruite”.
È l’identikit che corrisponde all’intera porzione orientale di Traversara, e cioè alle abitazioni che sorgono ai lati di via Torri (una delle due principali direttrici del borgo), e a quelle alle loro spalle in via Traversa Nuova, lasciate semidistrutte dalle acque fuoriuscite il 19 settembre dalla rotta del Lamone.
Traversara è il luogo che più apparirà irriconoscibile al termine della ricostruzione, ma azioni più chirurgiche è possibile vedano la luce anche altrove, ad esempio in quelle frazioni più martoriate proprio perché a pochi passi dal corso di un fiume, come la vicina Boncellino, più volte allagata dal Lamone. Un altro elemento di quello che si potrebbe definire ‘il decalogo delle delocalizzazioni’ è relativo a quegli edifici ormai troppo a rischio – ha spiegato la presidente Priolo – in quanto ritrovatisi a picco su quello che è diventato il nuovo argine di un fiume, risagomato da una piena nel momento in cui ha scavato le sponde allargando l’alveo. Situazioni che la terza alluvione ha presentato in più punti, in particolare nell’Appennino, come nella frazione brisighellese di Marzeno e in quella di Zattaglia, al confine fra i comuni di Brisighella e Casola Valsenio. Qui il Sintria allargò i suoi argini fino ad abbattere i muri dei seminterrati di alcuni edifici prossimi alle sponde, trasformandoli in qualcosa di simile a palafitte.
A Marzeno, in via Moronico, l’omonimo torrente diede vita a scenari analoghi, trascinando con sé non solo l’argine, ma addirittura frammenti di muri e tonnellate di pavimentazioni, scoprendo le porzioni ipogee degli edifici prima sepolte dagli strati di terra. Un ulteriore capitolo riguarda quegli edifici che dovranno essere sgombrati perché sorgono in luoghi destinati ad essere inglobati in future aree allagabili o in casse d’espansione. Mentre l’area allagabile che sorgerà a Faenza a servizio del torrente Marzeno dovrebbe occupare quelli che ora sono campi, quella su cui si sta ragionando per il Senio, nelle campagne fra Casale e la via Emilia, potrebbe coincidere con alcune abitazioni: l’opera è tuttavia al livello di ipotesi, non esistono ancora certezze.
Il tema delle delocalizzazioni è ancora più complesso quando si parla di frane: gli edifici minacciati da uno smottamento che ha visto coinvolta la roccia dovrebbero essere quelli più a rischio di essere sgomberati, mentre nei casi in cui una frana abbia smosso semplicemente la terra il destino delle abitazioni nel fatidico raggio di cinque o venti metri non sembra scritto in maniera altrettanto netta. Casola Valsenio, con le sue 5500 frane, è, insieme a Brisighella (6200 frane), l’epicentro del dissesto in provincia di Ravenna: in alcuni punti dell’Appennino la vita è come rimasta sospesa al maggio 2023, al punto che ci sono imprese le quali, per l’impossibilità di riportare la produzione nelle loro vecchie sedi, non hanno mai visto la propria attività ripartire. A stendere gli elenchi degli edifici che verranno delocalizzati saranno i Comuni: il tema è stato al centro dell’incontro di alcuni giorni fa a Ravenna tra commissari e cittadini, durante i quali è stato specificato che chi non potrà ricostruire la propria casa riceverà un rimborso di 1800 euro al metro quadro per l’acquisto di un altro immobile, o di un terreno su cui costruirlo.
Le sfumature della delocalizzazione sono però moltissime: il presidente della Provincia di Ravenna Michele de Pascale ha già fatto sapere di ritenere congruo che le istituzioni siano vicine finanziariamente anche a coloro che delocalizzeranno per loro libera scelta. E’ il caso ad esempio di quei residenti di Riolo Terme che già nel 2023 chiesero per primi di essere delocalizzati dalla loro casa di via Fornace, allagata a ripetizione: oggi sono purtroppo un sentore comune quelle che appena un anno fa parevano grida nel silenzio.
Regionali 1,3 milioni di elettori chiamati al voto, la metà a Genova. Alle europee di giugno il centrosinistra prevalse per circa 27mila voti sulle destre. Il candidato Pd: «Se vinco vado a casa di Pertini». Incognita maltempo sulle urne
Andrea Orlando – foto di Luca Zennaro/Ansa
La sfida della Liguria, diventata un rilevante test politico nazionale, è arrivata al dunque. Venerdì pomeriggio, per alcune ore, Genova si è trasformata nella capitale della politica, con i due comizi dei leader dei due poli a pochi centinaia di metri. Con il centrosinistra che, al teatro Politeama, ha inaugurato il primo palco comune di una vigilia elettorale da almeno due anni: da Schlein a Conte, Bonelli Fratoianni e pure Calenda (in video) per dire che in Liguria, dopo le inchieste che hanno travolto la giunta Toti, «è ora di voltare pagina» con Andrea Orlando. Mentre le destre si sono aggrappate al sindaco di Genova Marco Bucci per evitare una sconfitta che pareva certa fino a poche settimane fa.
OGGI URNE APERTE tutto il giorno (dalle 7 alle 23), domani dalle 7 alle 15, quando inizierà lo spoglio che potrebbe trasformarsi in una sfida all’ultimo voto tra Orlando e Bucci. In campo ci sono altri 7 candidati presidenti: due di questi, Marco Ferrando del Partito Comunista dei Lavoratori e Nicola Rollando (Potere al popolo, Pci e Rifondazione) appartengono all’area della sinistra. C’è anche l’ex senatore 5S Nicola Morra con Uniti per la Costituzione. Gli elettori chiamati al voto sono 1.341.799: alle europee di giugno votò il 50,6%, alle regionali del 2020 il 53,4%.
Le stime indicano dunque che andranno alle urne circa 700mila cittadini, salvo sorprese in negativo legate al maltempo che imperversa da giorni sulla Liguria, con allerta arancione sul centro e il ponente fino alle 15 di oggi. Scongiurato il rischio di un rinvio del voto per allerta rossa, ma alcuni seggi in zone a rischio alluvione nel savonese sono stati spostati. Oltre al presidente, si vota per eleggere 30 consiglieri regionali: 24 con il sistema proporzionale e soglia al 3%, 6 scatteranno come premio di maggioranza per lo schieramento del “governatore” vincente.
NEL 2020, QUANDO TOTI conquistò il secondo mandato, il distacco tra i due poli sembrava incolmabile: 56% per le destre, oltre 350mila voti, e 38% (circa 240mila) per il centrosinistra insieme al M5S con il candidato Ferruccio Sansa. Oltre centomila i voti reali di distanza tra le due coalizioni principali. Da allora quel margine si è accorciato, fino a ribaltare i rapporti di forza. Alle politiche del 2022 le destre in regione hanno sfiorato i 310mila voti (42%), mentre la somma delle forze che ora sostengono Orlando (che due anni fa erano divise in tre tronconi) era a circa 350mila voti, con il 47,7%.
Percentuali che si sono ripetute alle europee 2024, quando Fdi e Pd si sono conteste per pochi decimali il trono di primo partito (26,8% per Meloni contro 26,3%), ma il centrosinistra (senza Iv) ha prevalso di circa 27mila voti: 302.000 contro 275.000 delle destre. In percentuale il distacco è di circa tre punti: 47,7% contro 44,1%. Nel comune di Genova, dove vota circa la metà dei liguri (650mila persone), alle europee la vittoria del centrosinistra è stata larghissima: 125mila voti contro 75mila, 57% contro 34%.
LA SFIDA DUNQUE è alla portata del centrosinistra, che negli ultimi 4 anni, dopo una rovinosa crisi che è iniziata intorno al 2015 (prima vittoria di Toti), ha recuperato terreno e si è reinsediato, soprattutto a Genova e nelle sue periferie. La candidatura di Bucci ha arrestato una cavalcata che pareva trionfale: il sindaco ha fatto riprendere fiato alle destre e in parte oscurato l’ingombrante fantasma di Toti, anche se nelle sue liste ci sono svariati ex assessori, e si è presentato con lo slogan di «sindaco della Liguria». Oltre a insistere sul suo essere un manager e sull’aver ricostruito il ponte Morandi in tempi record (non da solo). Semplice il suo concetto: «A sinistra litigano e basta. Noi invece andiamo tutti d’accordo. Questo significa che se vinciamo noi, le cose si fanno».
Orlando ha cercato di decostruire questa narrazione berlusconiana dell’”uomo del fare”, presentando un programma di sinistra che prevede sostegno regionale ai pensionati sotto i 1000 euro, salario minimo obbligatorio per le imprese che partecipano a gare della regione e lo spostamento massiccio di risorse dalla sanità privata a quella pubblica. Non ha detto no alle opere: «La diga del porto, il terzo valico e il tunnel subportuale a Genova sono opere che vanno completate», ha spiegato. «E voglio trovare i finanziamenti per la ferrovia Genova- Ventimiglia». «Non siamo quelli no, siamo per le opere utili ai cittadini», gli ha fatto eco Giuseppe Conte.
IN CASO DI VITTORIA, Orlando ha annunciato che per prima cosa tornerà in visita alla casa-museo di Sandro Pertini a Stella (Savona), dove è stato il 14 ottobre. Ieri ha passato la giornata a Spezia, a casa dei genitori, e la sera ha cucinato per gli amici d’infanzia che ancora frequenta nei fine settimana quando torna in Liguria. A Genova nessuno azzarda previsioni, al di là delle propaganda di rito dei sostenitori dei due candidati. Domani alle 15 parte la maratona dello spoglio, e potrebbe durare fino a notte. Il risultato avrà forti ripercussioni nazionali. In caso di sconfitta, a destra si aprirà una resa dei conti che potrebbe incidere nel percorso della manovra
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Li fermi chi può Da Milano a Palermo, passando per Torino, Firenze, Roma, Bari e Cagliari, la protesta di associazioni, studenti e Cgil con Pd, M5S e Avs. Gli studenti denunciano: «Spendiamo 30 miliardi di euro in armi»
Roma, il corteo per la pace di ieri – LaPresse
Almeno ottantamila in tutta Italia, ventimila solo a Roma. I numeri della manifestazione per la pace organizzata ieri in sette città italiane: oltre alla capitale cortei anche a Torino, Milano, Firenze, Bari, Palermo e Cagliari. La mobilitazione è stata promossa da Europe for peace, Rete italiana pace e disarmo, Fondazione PerugiAssisi e Sbilanciamoci!, con il supporto di Cgil, Anpi, Acli e oltre 400 tra associazioni e movimenti. Hanno aderito anche le opposizioni, con delegazioni di Pd, Avs, M5s e Rifondazione presenti nelle piazze.
A ROMA le bandiere palestinesi, delle associazioni e organizzazioni studentesche riempiono la piazza. Di fronte al Colosseo, sopra il palco, una signora spalanca le finestre e appende alcune sciarpe e camicie colorate. Dal viola al rosso, prende forma la bandiera della pace. «L’Italia ha le mani sporche di sangue», denuncia Bianca Piergentili, coordinatrice della Rete studenti medi del Lazio. «La Costituzione ripudia la guerra, ma come facciamo a ripudiarla se spendiamo 30 miliardi di euro per le armi?», domanda dal palco, mentre «neanche un euro alle scuole e alle università». Gli studenti di Rete della conoscenza, Link e Udu rivendicano «una società della cura», e scenderanno in piazza il 15 novembre per ribadire che «i luoghi della formazione non possono diventare un laboratorio di armi», in continuità con le proteste dello scorso anno che chiedevano il boicottaggio delle istituzioni accademiche israeliane. Anche per Nicola Fratoianni (Avs) la spesa militare va bloccata, e si appella alle opposizioni per una linea comune. È d’accordo Marta Bonafoni (Pd), per cui la situazione in Medio Oriente «non è più un’escalation, è il rischio dietro l’angolo di una guerra globale». Una critica agli appelli occidentali arriva da Yousef Salman, presidente della comunità palestinese di Roma e del Lazio: «Avete riconosciuto lo Stato di Israele e dite di volere la pace con due stati e due popoli, allora perché non riconoscete lo Stato di Palestina?». Sfila il Laboratorio ebraico antirazzista: «Siamo figli e nipoti di sopravvissuti ad Auschwitz – dicono – Col peso delle nostre storie e del nostro dolore ci opponiamo al genocidio in corso».
Dal palco il segretario della Cgil Maurizio Landini: «Gli investimenti bellici alimentano un’economia di guerra e tolgono fondi alla scuola e alla sanità» ha detto, ribadendo la necessaria unità del movimento globale dei lavoratori davanti alla guerra.
«IN PIAZZA Santa Croce possono entrare al massimo 12mila persone, ed è già strapiena mentre più di metà corteo è ancora in cammino». Basta questo dato, offerto ai microfoni di Controradio da Bernardo Marasco che guida la Camera del Lavoro di Firenze, a far capire il successo di una manifestazione che ha visto fra i protagonisti tantissimi toscani con liguri ed emiliano-romagnoli. Fra i partecipanti ci sono fra i tanti gli scout dell’Agesci, che sfilano fianco a fianco con gli attivisti dei cento fiori della sinistra italiana, in tutte le sue declinazioni. Anche questa immagine, inconsueta, aiuta a far capire che il popolo della pace vuol riprendere la parola. Indicativo che alla testa della manifestazione ci sia la sindaca dem Sara Funaro, con accanto padre Bernardo Gianni priore della basilica di San Miniato, e a poca distanza l’imam del capoluogo toscano Izzedin Elzir. Partito da piazza Santa Maria Novella, il corteo percorre le sponde dei lungarni attraversando i ponti a segnare l’idea dei «Ponti di pace», come hanno sottolineato gli organizzatori.
Moltissimi i drappi arcobaleno, anche tante bandiere della Palestina e del Libano, e tanti striscioni con la richiesta di cessare il fuoco. «Dobbiamo continuare a manifestare per la pace e contro le guerre anche se il nostro grido non arriva – dice Izzedin Elzir – Già vedere la piazza di Firenze con migliaia di persone che camminano insieme per la pace ci dà una grande speranza». «Senza la pace non c’è lavoro – gli fa eco Rossano Rossi che guida la Cgil Toscana – senza la pace non c’è futuro, senza la pace ci sarà solo morte e distruzione». Non mancano i gonfaloni di alcuni comuni, così come i labari delle sezioni Anpi di mezza Toscana e il grande striscione «Insorgiamo» del Collettivo di Fabbrica ex Gkn. Moltissimi i giovani in un corteo che vede protagonisti i ragazzi e le ragazze degli istituti superiori e insieme i loro nonni, interpreti impeccabili di una manifestazione grande, colorata e che fa bene al cuore. «Firenze è sempre stata città della pace e continuerà ad esserlo – tira le somme la sindaca Funaro – dobbiamo fare di tutto per lanciare messaggi di pace».
A BARI ieri mattina cinquemila persone arrivate da tutta la regione, ma anche da Calabria e Basilicata, sono partite da piazza Massari per arrivare in piazza Prefettura. Qui dal palco è intervenuto il governatore regionale dem Michele Emiliano, ribandendo la necessità di un’iniziativa del governo e dell’Unione Europea per un cessate il fuoco immediato. Anche il presidente dell’Anpi Pagliarulo nel capoluogo pugliese: «la pace è la strada dei partigiani dell’umanità» ha detto, prima di concludere citando Gino Strada, fondatore di Emergency. La ong presente nelle piazze, con la presidente Rossella Miccio sul palco a Milano; a Roma invece in collegamento Stefano Sozza, capomissione a Gaza.
A Palermo c’è anche l’ex sindaco Leoluca Orlando, ora eurodeputato nel gruppo dei Verdi, tra le centinaia di persone in piazza. Alla mobilitazione ha aderito l’arcivescovo del capoluogo siciliano, Corrado Lorefice, che in un messaggio ha invitato i manifestanti a non cedere allo «strapotere dell’odio». In mattinata c’è stato il presidio a Cagliari davanti al porto: qui assieme alle sigle sindacali, le associazioni e rappresentanti politici anche movimenti che lottano contro la presenza di basi militari sull’isola, dove la concentrazione è tra le più alte d’Europa
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La risposta di Israele all’attacco iraniano del primo ottobre alla fine scatta, ma è «contenuta». Come chiesto dagli Usa. È comunque il primo passo verso la guerra diretta tra i due paesi. L’Iran minimizza: danni lievi ai siti militari e quattro soldati uccisi. Ma «risponderemo»
Assaggio pericoloso I jet di Tel Aviv hanno colpito 20 siti militari in un raid contenuto rispetto alle previsioni. Tel Aviv bombardare in Libano, uccise 19 persone. Colpita ancora la periferia di Beirut
Teheran nella notte dell’attacco israeliano
Lo scontro frontale ora frenerà o l’attacco israeliano all’Iran dell’altra notte, seppur «contenuto», ha segnato un ulteriore passo verso il baratro? Tanti se lo domandavano ieri mentre tiravano un sospiro di sollievo per le apparenti dimensioni ridotte del raid aereo israeliano e per il bilancio relativamente basso di morti in Iran: quattro soldati. La guerra totale sembra evitata, ma la prospettiva continua ad aleggiare.
IN REALTÀ LA GUERRA APERTA cercata dal premier Netanyahu per creare, dopo il 7 ottobre 2023, un «Nuovo ordine» in Medio oriente – con un Iran fortemente ridimensionato – è già in atto. Tel Aviv e Teheran sono sprofondate da tempo in un conflitto regionale ad intermittenza, a causa della distanza tra i due paesi, che, con ogni probabilità, si intensificherà anche se l’Iran dovesse scegliere di non reagire all’attacco subito in risposta al suo lancio di 181 missili su Israele lo scorso 1° ottobre. «Gli attacchi della guerra ombra sono entrati a pieno titolo in un conflitto aperto, anche se per ora di tratta di un conflitto gestito», diceva ieri l’analista Ellie Geranmayeh al New York Times. Fin troppo esplicite le minacce del portavoce militare israeliano Daniel Hagari: «Se il regime in Iran dovesse commettere l’errore di iniziare un nuovo ciclo di escalation, saremo obbligati a rispondere. Il nostro messaggio è chiaro: tutti coloro che minacciano lo Stato di Israele e cercano di trascinare la regione in un’escalation più ampia pagheranno un prezzo elevato». Il dito, avverte Hagari, resta sul grilletto. E in queste ore su Netanyahu premono, per alzare il tiro, non solo le forze più radicali della sua maggioranza di estrema destra religioso. Chiedono più guerra, più escalation proprio i leader dell’opposizione critici verso il governo per la scelta degli obiettivi in Iran. L’ex premier centrista Yair Lapid, ha dichiarato che «la decisione di non attaccare obiettivi strategici ed economici in Iran è stata sbagliata». Secondo Lapid, Israele «avrebbe potuto e dovuto esigere un prezzo molto più alto da Teheran». L’ultranazionalista ministro della Sicurezza Itamar Ben Gvir invece ha esortato il governo a considerare il raid come «il colpo di apertura» di prossimi attacchi più devastanti.
TUTTI – DESTRA, SINISTRA CENTRO – esaltano le capacità dimostrate dall’aviazione, capace di colpire con 100 velivoli, tra cacciabombardieri e droni, a 1.600 km di distanza «con estrema precisione» impianti iraniani per la produzione di missili, i sistemi di difesa terra-aria e ulteriori capacità aeree iraniane. «L’esercito israeliano – scriveva ieri il quotidiano Haaretz – ha voluto comunicare che è in grado di raggiungere qualsiasi punto del Medio oriente indipendentemente dalla distanza e che gli iraniani avranno difficoltà a impedirglielo». L’altra notte, nella prima fase dell’attacco, gli aerei hanno preso di mira i radar e la contraerea in Siria e Iraq, poi gran parte di essi hanno proseguito verso Teheran. All’esterno del territorio iraniano hanno lanciato i missili distruggendo, pare, batterie antiaeree S-300. Una seconda ondata avrebbe attaccato i siti di produzione di missili a lungo raggio e
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