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Riforme. La stagione del populismo referendario... Il premier vanta il «capolavoro parlamentare», celebra l’uomo solo al comando e tace le fragilità di un sistema drogato dal maggioritario

Se Renzi facesse di mestiere il bancario, venderebbe ai risparmiatori ignari i titoli spazzatura che hanno affondato quattro banche, note — grazie a papà Boschi — a tutti gli italiani. Nessuno meglio di lui porge argomenti privi di pregio, mentre tace o occulta censure e rischi. Così è stato per le riforme nel discorso di fine anno. Toni trionfalistici, in specie per l’Italicum, vero «capolavoro parlamentare».

E certo di capolavoro si tratta, se tale è il bavaglio alle opposizioni, l’uso spregiudicato in chiave di dittatura di maggioranza di norme e regolamenti, le ripetute minacce di “tutti a casa” nell’ipotesi di un fallimento, e persino qualche schiaffo alle presidenze delle assemblee, ancorché timide e prone ai voleri governativi.

Cosa è mancato nel discorso del premier? Tutto il resto. Una minima serietà avrebbe richiesto qualche argomento sul dissenso, e in specie sulla censura di evidenti assonanze tra l’Italicum e il sistema dichiarato illegittimo con la sentenza 1/2014 della Corte costituzionale. Ovvero sull’accusa di concentrazione del potere e riduzione degli spazi di democrazia nella Costituzione che si prefigura, o ancora di sinergia perversa con le altre riforme, dalla legge elettorale alla pubblica amministrazione, alla scuola, alla Rai.

Cosa abbiamo, invece? L’annuncio ufficiale di una personale strategia plebiscitaria del premier. Il primo atto sarà nell’ottobre 2016 il referendum sulla revisione della Costituzione. Renzi ci informa che l’oggetto non sarà il contenuto della riforma e la qualità della democrazia che da essa viene, ma la conclusione della sua esperienza politica, e dunque crisi e nuove elezioni in caso di sconfitta. E certo sa che seguiranno nel 2017 altri referendum, abrogativi: scuola, Jobs Act, Italicum. È facile pensare che li veda come una ininterrotta stagione di populismo referendario, utile a consolidare il rapporto plebiscitario tra lui e gli elettori.

È già funzionale a questo l’autocelebrazione: con l’Italicum non finiremo come la Spagna, e saremo in Europa un paese campione per stabilità. Meno male che tra i paesi leader dell’Unione non lo segue proprio nessuno. Se affinità elettiva vediamo, è con qualche giovane democrazia – si fa per dire — dell’Est europeo. Per la Spagna, Renzi non dovrebbe chiedersi quale e quanta instabilità verrà dalla necessità di coalizioni. Piuttosto, la domanda è: quale stabilità verrebbe mai garantita se uno solo dei contendenti fosse stato alloggiato nelle stanze del potere grazie ad artifici elettorali, ad esclusione di tutti gli altri? Come si governa un paese che ha espresso un dissenso largamente maggioritario verso chi occupa pro tempore le poltrone dell’esecutivo?

Questo è il nostro problema con l’Italicum. Un sistema già tripolare – e forse quadripolare, se la sinistra ritroverà identità, coesione, leadership — costretto dall’imbuto del ballottaggio nella semplificazione forzosa dell’uomo e del partito soli al comando. Il punto non è la stabilità, ma la duratura capacità di governo. Che si misura giorno per giorno nei cinque anni che seguono la sera del voto. E non viene da un parlamento non rappresentativo, dall’ascolto estemporaneo, dai blog e mailing list di governo, e ancor meno dalle comparsate televisive.

Con Renzi una novità c’è davvero. Dai partiti a vocazione maggioritaria, un tempo popolarissimi anche presso una certa sinistra, passiamo oggi ai governi a vocazione minoritaria. Governi volutamente minoritari, perché fondati su uno scambio consapevole tra consensi reali che in un modello proporzionale condurrebbero a esiti di coalizione, e numeri parlamentari posticci e gonfiati da artifici maggioritari che non danno legittimazione sostanziale e forza politica a chi governa.

Il totem della vittoria artificialmente certa la sera del voto si accompagna di fatto al fatale declino dei consensi nel corso del mandato. È un lento morire, per le insoddisfazioni inevitabili e cumulative sulle politiche del governo. I sondaggi di popolarità decrescente lo segnalano in ogni paese.
Un tempo, nella prima repubblica dei tanti governicchi, sarebbe stato contrastato con un rimpasto, in un parlamento ampiamente rappresentativo e ad opera di partiti saldamente radicati. Ma oggi è l’assioma di partenza che lo impedisce. Come si fa a cambiare il volto di un esecutivo che si vuole gratificato direttamente dal voto popolare e da un megapremio di maggioranza?

Certo il tema non è a misura di tweet, e quindi sfugge alla dimensione politica del premier. Ma rende plausibile una sua affermazione: che il turno a Palazzo Chigi sarà il suo ultimo mandato pubblico. Riteniamo probabile che gli italiani lo collocheranno a riposo senza onori. Ma dobbiamo evitare – anche con i referendum — che nel frattempo faccia troppi danni. Ed è ferale il dubbio che sia più saggio di lui Berlusconi, che – come Renzi ricorda — si lamentava di dover governare in coalizione, ma poi ha votato contro l’Italicum. Magari alla fine ha capito.

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IlFattoQuotidiano.it / BLOG / di Patrizia Gentilini

 

Ambiente & Veleni

Smog e rischi per la salute: nemmeno rispettando i limiti saremmo al sicuro

di Patrizia Gentilini | 28 dicembre 2015

C’è voluto oltre un mese di continui sforamenti dei limiti per le polveri sottili perché il problema dell’inquinamento atmosferico meritasse le prime pagine dei giornali italiani: ancora una volta però il problema viene affrontato in modo non esaustivo e soprattutto con soluzioni che altro non appaiono altro che “pannicelli caldi” quali quello delle targhe alterne o dello stesso blocco del traffico. Ben pochi – se non il Fatto Quotidiano – ha posto l’attenzione sulla follia dei nuovi inceneritori che si vanno a realizzare o sull’ampliamento di quelli già esistenti, vanificando così tutti gli obiettivi di una corretta gestione dei rifiuti, così pure pochi puntano l’attenzione su una altrettanto folle politica energetica che invece di incentivare l’utilizzo dell’energia solare pensa bene di dare il via libera alle estrazioni petrolifere per terra e per mare.

Ma da un punto di vista strettamente medico vorrei ricordare che anche il rispetto dei limiti di legge non tutela in modo adeguato la salute perché purtroppo per le polveri sottili, come per altri inquinanti, non esistono livelli al di sotto dei quali non si verifichino rischi per la salute, specie per bambini, organismi in accrescimento ed ovviamente per persone anziane o debilitate.

Gli studi scientifici ci dimostrano infatti che – al di là degli eventi immediati- l’esposizione a lungo termine alle polveri sottili comporta per ogni incremento di 10 µg/m3 di PM2.5 un incremento del 6% del rischio di morte per tutte le cause e del 12% per le malattie cardiovascolari; addirittura nelle donne in età post-menopausale – escludendo quelle con precedenti patologie cardio/cerebrovascolari e le fumatrici – l’incremento di rischio si dimostra ben più elevato: per ogni incremento di 10 µg/m3 di PM2.5 si ha un aumento della mortalità per eventi cardiovascolari del 76%.

Nessuno poi ricorda che nell’ottobre del 2013 la Iarc (International Agency for Research on Cancer), organo di riferimento dell’Oms, ha dichiarato il particulate matter come cancerogeno certo per l’uomo (I), al pari della polluzione aerea (out air pollution) per rischio di cancro al polmone ed alla vescica e che per ogni incremento di 10 µg/m3 di PM2.5 si ha un incremento del 40% di un particolare istotipo: l’adenocarcinoma, correlato quindi più all’inquinamento che all’abitudine al fumo. Certo, in Cina stanno peggio di noi e di recente proprio in Cina è stato segnalato il caso di più precoce insorgenza di cancro al polmone in una bambina di 8 anni, ma tutto questo non dovrebbe farci riflettere visto che in Italia già si registra una incidenza di cancro in bambini ed adolescenti purtroppo ben più elevata che in altri paesi occidentali? E che dire dell’azione neurotossica degli inquinanti presenti nell’aria, del rischio di diabete di tipo 1 o dell’incremento del 30% di abortività spontanea per l’esposizione ai livelli più elevati di PM10 nelle madri residenti entro 4 km dagli inceneritori dell’Emilia Romagna, come documentato dallo studio Moniter?

Ancora una volta è l’infanzia a pagare il prezzo più alto dei nostri dissennati comportamenti e certamente – più che di regali natalizi – sarebbe molto meglio se lasciassimo ai nostri bambini almeno la possibilità di respirare, ma purtroppo – come a suo tempo affermato da un grande pediatra Bruce P. Lanphear: “A dispetto del grande affetto che noi abbiamo per i nostri bambini e della grande retorica della nostra società sul valore dell’infanzia, la società è riluttante a sviluppare quanto necessario per proteggere i bambini dai rischi ambientali”.

 

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Gianni Ferrara
su: Il “Manifesto”” del 15.12.2015
L’impotenza dimostrata finora dal Parlamento ad eleggere i tre giudici costituzionali, prima ancora e invece che deprecata, andrebbe spiegata. Ne risulterebbero le ragioni, se ne scoprirebbero le responsabilità. Si dedurrebbe innanzitutto che questa elezione non ha precedenti, non per il ritardo e la difficoltà di scegliere candidati adeguati al tipo e al valore dei giudizi di costituzionalità, ma per la posta che è in gioco. Una posta che va ben oltre la valutazione della conformità a Costituzione di una legge o di un atto avente forza di legge o l’esercizio di un’attribuzione ad uno o ad un altro potere dello stato o tra Stato e Regioni o tra Regioni. È in gioco il ruolo stesso della Corte, la sua funzione di garanzia effettiva della Costituzione. È in gioco la forma di governo sancita in Costituzione. È in gioco la fisionomia dell’ordinamento della Repubblica, la determinazione di suoi principi fondanti, la sua identità.
È della democrazia italiana che si tratta, è la democrazia italiana ad essere stata posta in gioco con le due operazioni di chirurgia istituzionale compiute dal governo Renzi e dalla sua maggioranza con l’Italicum e col cosiddetto «superamento» del bicameralismo. È di queste due leggi, della loro costituzionalità che sarà chiamata a giudicare la Corte costituzionale. Leggi qui l'intero articolo

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La Turchia apripista, verso un fronte di guerra peggiore

Stiamo facendo tutti finta di non vedere quel che sta per accadere in Siria: una guerra di ancora più vaste proporzioni che va ad aggiungersi a quella in corso che l’Occidente ha alimentato sostenendo radicalismi armati di ogni genere purché fossero contro Assad. Sarà un caos belli così devastante che l’abbattimento del jet russo da parte dell’aviazione turca — vero apripista di questo scenario caotico e micidiale — sembra un piccolo incidente di passaggio.

Dopo gli attentati di Parigi, la Francia dello stato d’emergenza ha avviato la sua guerra di vendetta contro lo Stato islamico, ma alla fine pronta a coordinare le azioni militari con la Russia già sul campo. Perché l’aviaziona russa era nel frattempo intervenuta di fronte alla débâcle del fronte occidentale, quella coalizione degli «Amici della Siria» — dagli Usa, ai Paesi europei alle petromonarchie del Golfo — impossibilitata a sbrogliare la matassa siriana dopo averla imbrogliata fino alla distruzione attuale. La risposta all’intervento russo non si è fatta attendere, con la bomba sull’aereo civile da parte dell’Isis e con l’abbattimento del jet militare Sukhoi da parte dell’aviazione di Ankara, grande sponsor dell’Isis. L’intervento militare anti-russo del Sultano atlantico Erdogan è stato indirizzato a far fallire ogni possibilità di essere esclusi dalla spartizione della Siria e dalle mire contro l’Iran. E quindi contro i risultati «unitari» del vertice di Antalya che, proprio in Turchia, aveva visto il riavvicinamento tra Putin e Obama.

La china presa dai nuovi annunci d’intervento armato nell’area, è un precipizio che sembra premiare proprio l’intraprendenza criminale di Erdogan, non a caso baluardo Nato. Accade così che la Gran Bretagna, nonostante i pacifisti e la volontà del leader laburista Corbyn, sia avviato verso i bombardamenti e già la Raf scalda i motori nella base britannica di Akrotiri a Cipro; che il segretario alla difesa Usa Carter annunci «stivali a terra» in Iraq, per operazioni mirate e addirittura in Siria per «operazioni unilaterali».

Accade che Netanyahu riveli che raid e operazioni coperte israeliane siano ormai in corso in territorio siriano; che arrivino truppe e aerei tedeschi fuori da ogni logica di legittimità dopo il passato della Germania ora riunificata; e che Federica Mogherini Mister Pesc cerchi un nuovo bis: mentre Renzi dichiara di non volere una «Libia bis», la rappresentante Ue chiama a responsabilità, per Siria e Libia, la Nato, cioè la protagonista dei raid che, con l’abbattimento di Gheddafi, hanno aperto il varco ai jihadisti e ai loro santuari verso Siria, Tunisia, Iraq e Mali. Si allarga dunque la scena bombardante, dei paesi che corrono alla spartizione della terra siriana e ad un ipotetico quanto lontano tavolo dei negoziati, pronti a gridare «vittoria»: ma chi avrà diritto a sedersi al tavolo dei vincitori, davvero non è chiaro.

Chiaro è che Damasco fa sapere che ogni azione militare, su terra e dal cielo, che non sia concordata — come quelle russa e francese — con il governo siriano è considerata «aggressione»: e si riferisce al ruolo dell’esercito di Ankara, a quello britannico e degli Stati uniti, per non parlare dei raid israeliani. La guerra dunque si allarga ancora di più. Mentre Obama ripete — come una litania — «Assad se ne deve andare», dimenticando che proprio per mandare via Assad la sua coalizione dal 2012 a alla fine del 2014, quando gli Usa si sono «ravveduti», ha sostenuto proprio il nemico jihadista. È certo e sicuro che Assad dovrà uscire di scena, probabilmente nell’arco di un anno; la Russia dice che deve decidere il suo popolo. Ma ora non a caso proprio la Francia con il ministro degli esteri Fabius sembra legittimare «con l’esercito libero siriano» anche l’«esercito di Damasco» come le vere truppe di terra da valorizzare.

Mentre Obama pronuncia la cantilena «Assad se ne deve andare», invece sostiene Erdogan e il suo spazio aereo: il Sultano che massacra il suo popolo kurdo, che fa strage dell’opposizione e stralcia i diritti umani arrestando giornalisti che denunciano i traffici sporchi di Ankara con l’Isis. No Erdogan non solo non se ne deve andare, ma l’Ue gli regala 3 miliardi di euro per recintare e arrestare migranti, mentre il vertice Nato è corso in suo aiuto contro l’«aggressività russa nell’area». E mentre «Assad se ne deve andare», la monarchia saudita, santuario finanziario e in armi dello Stato islamico, va invece tenuta naturalmente e saldamente al suo posto.

Il circo di menzogne fa davvero paura. Ma siamo «tranquillizzati» finalmente dal ministro Angelino Alfano: scopriamo infatti i foreign fighters, ora li snidiamo e li arrestiamo. Erano 20mila dall’Europa e altrettanti dagli Usa, denunciava Obama un anno fa. Ma nessuno si è chiesto com’è stato possibile che decine di migliaia di giovani siano partiti dalle capitali europee ( e dalel città americane) e poi arrivati in Medio Oriente quando non direttamente in Turchia per essere addestrati, senza che una sola intelligence occidentale avesse da dire nulla negli ultimi quattro anni? Adesso «li scoprono». E prima? Prima chiudevamo tutti e due gli occhi, perché «Assad se ne deve andare». E così in questi giorni «scopriamo» le cellule islamico-kosovare in Italia e, dice il procuratore di Pristina, che «300 combattenti kosovari sono partiti per la Siria». È davvero una «bella» scoperta, per una «nazione», il Kosovo, che vive intorno — come la caramella col buco — alla mega-base Usa e Nato di Camp Bondsteel presso Urosevac, una «nazione» ora etnicamente ripulita con un milione e 700mila abitanti, grande quanto il Molise e inventata dai bombardamenti Nato del 1999, considerata un narcostato dall’Onu e con il 50% di disoccupazione nonostante finanziamenti in percentuale superiori a quelli degli organismi internazionali verso l’Africa. E dove non si muove foglia che l’Alleanza atlantica non voglia e non sappia: davvero una «rivelazione».

Ma forse qualcosa deve essere sfuggita anche alla Nato, se ieri per allargare l’orizzonte, ha chiesto anche al Montenegro di entrare nell’Alleanza atlantica che si allarga sempre più a est. Abbiamo creato deserti che chiamiamo pace. E la guerra ci ritorna in casa.

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181 paesi hanno definito un percorso che potrebbe consentire di limitare a 2,7 °C l’aumento di temperatura rispetto al periodo preindustriale. Siamo ancora distanti dalla definizione di sforzi coerenti con uno scenario che eviti di sorpassare i 2 °C, ma si intravvede finalmente un cammino globale di controllo delle emissioni.
La Conferenza sul clima di Parigi si è cautelata rispetto al rischio di un fallimento analogo a quello registrato a Copenaghen nel 2009, quando si era cercato senza successo di estendere lo sforzo di contenimento delle emissioni climalteranti a tutti i paesi del pianeta.
Questa volta, infatti, è stata prevista l’individuazione di obiettivi climatici da parte dei singoli paesi prima dell’appuntamento delle Nazioni Unite, obbligando in questo modo a compiere uno sforzo di analisi e di proposte. Un criterio bottom-up che ha portato necessariamente ad approcci molto diversi tra loro. I piani più rigorosi, come quelli dell’Europa e degli Usa, indicano riduzioni assolute delle emissioni, mentre in quelli di molti paesi in via di sviluppo sono previste riduzioni rispetto ad uno scenario tendenziale condizionate all’ottenimento di risorse finanziarie.
Ma è un fatto che 181 paesi hanno definito un percorso che potrebbe consentire di limitare a 2,7 °C l’aumento di temperatura rispetto al periodo preindustriale. Siamo ancora distanti dalla definizione di sforzi coerenti con uno scenario che eviti di sorpassare i 2 °C, ma si intravvede finalmente un cammino globale di controllo delle emissioni.

Ricordiamo che i 36 paesi industrializzati

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 Una guerra ingiusta ma utile? Parigi Rossana Rossanda

La Francia, non contenta del disastro senza via di uscita provocato in Libia dall’ignoranza di Sarkozy, reitera errore e vittime in Siria, attirandosi addosso – a proposito di guerre «utili» - l’attacco di quella parte del Daesh come movimento che filtra anche sul territorio dell’Europa occidentale.

Vedo che la «guerra giusta» di Norberto Bobbio, contro la quale ci eravamo battuti, riappare travestita da guerra «utile», ma non è una gran trovata. Utile per chi? Ogni guerra è sempre utile a una delle due parti in causa, almeno a breve termine, quindi il giudizio di valore va sempre spostato sulla causa del conflitto, mentre il metodo di risolverlo con una guerra va sempre rifiutato. Ricordiamoci di come apparve la seconda guerra mondiale a Gandhi e a molte parti del mondo non occidentale; se si è contro la guerra, non è possibile una guerra giusta, la guerra va misurata non nei termini dei rapporti di forza che ha prodotto, ma va rifiutata sempre per la quantità di vittime che produce. Non è semplice, perché - per esempio - io non tendo a definire «ingiusta » la seconda guerra mondiale perché i milioni di morti da ambedue le parti l’hanno subita; eppure, per la mia generazione, sulla vita dei cittadini i governi non dovrebbero aver potere di vita o di morte (come nel caso della soppressione della pena di morte).

In verità, per le guerre questo potere gli è lasciato - e non dovrebbe esserlo - con l’argomento per cui Daesh non si potrebbe danneggiare o sconfiggere in altro modo, anche perché si tratta di un nemico diffuso e meno esposto di quanto non sia un paese con il suo stato, con un territorio preciso dove si dispiegano eserciti, fortificazioni, industrie militari, sistemi di trasporto. In realtà, anche Daesh è più presente e concentrato in certi territori e, soprattutto, i mezzi militari gli sono forniti nientemeno che dall’Occidente, al più attraverso la mediazione di un altro paese. Nel caso della Turchia questa mediazione non è necessaria perché nella coalizione internazionale contro Daesh nessun altro stato partecipa alla guerra contro i curdi, che per Ankara sono il principale nemico. Il lancio di un missile turco contro l’aereo militare della Russia, che è in guerra contro Daesh ma non contro i curdi, ne è un segnale minaccioso, tranquillamente sopportato dall’Occidente.

In verità, la guerra nel Medio Oriente ha presentato e presenta sovente, a partire dall’Afghanistan, diversi fronti, anche in parte nascosti, aspetto che non è l’ultima delle sue specificità; essa mette in rilievo le ragioni per cui il più vasto movimento pacifista dei tempi recenti le è nato contro. E non solo i civili ne sono regolarmente le vittime (a ogni attacco, specie aereo) ma, come in tutti i conflitti con una forte componente ideologica, le parti non corrispondono nettamente a un territorio ben definito. Insomma, il carattere particolarmente brutale e non giustificabile delle guerre è qui singolarmente evidente.

La Francia, non contenta del disastro senza via di uscita provocato in Libia dall’ignoranza di Sarkozy, reitera errore e vittime in Siria attirandosi addosso – a proposito di guerre «utili» - l’attacco di quella parte del Daesh come movimento che filtra anche sul territorio dell’Europa occidentale, figlio non soltanto (anche se in buona parte) del disagio sociale, ma di una disperazione più interiorizzata e profonda che ha portato sinora giovani francesi e belgi a concludere le azioni omicide attivando le cinture esplosive e togliendosi la vita. Non ci si racconti che attendevano di essere accolti nell’aldilà da centinaia di vergini vogliose, disperavano della vita in terra, senza nulla che le dia un senso umano o sovrumano. Manca nel nostro mondo il solo elemento in grado di sconfiggere Daesh, cioè un senso umano o oltre umano che non sia il successo nel denaro, che non a caso essi bruciano, o lo spettacolo inteso in senso proprio come distrazione dal reale

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