50 anni. Il manifesto va oltre l’impegno informativo, è qualcosa di più di un semplice quotidiano. È una idea, una scuola, un sentimento, un cuore collettivo e pulsante
Allo scoccare del mezzo secolo, per quegli strani scherzi del tempo, succede che le infinite, piccole e grandi storie, che hanno attraversato gli anni, diventano Storia.
Così, un consueto compleanno può assumere un carattere speciale, un rilievo anche simbolico, a metà strada tra magica alchimia e concreta determinazione.
Con il passare del tempo, gli anni trascorsi al manifesto sono diventati via via sempre più preziosi. E mi sono resa conto che se il tempo consumava noi, che realizzavamo e facciamo ancora oggi il giornale, «lui» invece non invecchiava, perché in grado di rinnovarsi.
Ora, che compie 50 anni, ha poche rughe, è in forma, forte, tenace. Combattivo come il primo giorno, quel 28 aprile del 1971 che è ormai la data di una storia giornalistica così lunga da rendere il manifesto, tra i quotidiani nazionali, il più longevo dopo La Stampa e il Corriere della Sera.
Il suo intreccio di ideali vive nel cuore e nella mente di milioni di persone; una storia politica maturata nel 1969 con l’omonima Rivista e subito dopo con la nascita del gruppo extraparlamentare; una vicenda collettiva, di una comunità di donne, uomini, ragazze, ragazzi e esponenti della vecchia guardia, che ci sostengono nella indefessa convinzione che un mondo diverso sia possibile.
Cinquant’anni fa nessuno mai avrebbe immaginato che la grande corazzata del Pci sarebbe sprofondata e il fragile vascello del manifesto gli sarebbe sopravvissuto. Se questo è accaduto, verosimilmente è perché quel ramo, che si separava dal grande albero, già si predisponeva all’innesto, alla contaminazione feconda con l’onda d’urto travolgente del ‘68, coniando, con l’invenzione di un quotidiano, una nuova, originale forma della politica.
Fu un incontro di reciproco, ricambiato amore che, nonostante tutto, traguarda ora il mezzo secolo.
Arrivare fin qui è stato un laico miracolo: l’esistenza del manifesto è segnata da momenti duri, difficili, perfino traumatici. Non una, ma più volte, siamo stati sul punto di chiudere definitivamente la nostra avventura.
Certamente, come conseguenza della crisi della sinistra italiana – e mondiale – incapace di immergersi e nuotare nei cambiamenti ideologici, sociali, culturali, economici che hanno caratterizzato la fine del Ventesimo secolo e i primi venti anni dei Duemila; ma anche a causa di
Leggi tutto: il manifesto: Cinquanta splendide primavere - di Norma Rangeri
Commenta (0 Commenti)Movimenti. La protesta a piazza Montecitorio del movimento "Per la società della cura": «Il piano di ripresa e resilienza non cambia l’economia che ha prodotto la pandemia. Sono politiche economiche ispirate alle vecchie ricette di stimoli tipiche degli anni Novanta che non producono lavoro dignitoso né qualità della vita». Condanna dell'esautoramento del parlamento e della discussione pubblica sulle soluzioni contenute nel piano di oltre 330 pagine anche da parte dei deputati in piazza
Davanti alla Camera che ha ricevuto il piano del secolo, quello di «ripresa e resilienza» solo dopo le 14 per votarlo senza conoscere la versione definitiva in serata, ieri si è radunato un puzzle di movimenti, associazioni e sindacati che anima la rete «Per una società della cura». Insieme hanno redatto il «Recovery PlaNet» alternativo a quello che il 30 aprile il governo invierà alla Commissione Europea. Prossimi appuntamenti: a Roma per il Global Health Summit del 21 maggio e il ventennale del G8 di Genova.
«QUESTO MODO di fare politica la dice lunga sulla concezione della democrazia di questo governo – sostiene Marco Bersani di Attac – Il piano insegue i miti della crescita competitività e concorrenza con il presidente del consiglio Mario Draghi che spinge alla sua attuazione senza una discussione pubblica perché sostiene che ogni ritardo provoca perdite di vite umane. Farei presente che le 116 mila vittime sono la conseguenza di un modello di sviluppo che ha provocato la pandemia del Covid e che potrebbe produrne altre se non lo si cambia. Nel Pnrr non c’è un’alternativa a questo modello».
«SI STANNO AFFRONTANDO i problemi del mondo del 2021 come le pandemie e l’emergenza climatica con le politiche economiche degli anni novanta – sostiene Monica Di Sisto di Fair Watch – Pensano che gli investimenti si traducano in punti di Pil da portare a Bruxelles come un trofeo. Ma gran parte di quelli prospettati nel piano rispondono a politiche di stimolo che rischiano di finire in nulla se il mercato interno e il tessuto sociale sono impoveriti come oggi. Gli incentivi non si traducono in lavoro dignitoso e qualità della vita. La storia dell’altra crisi dovrebbe averlo dimostrato. E invece si procede nello stesso modo, più di prima. Abbiamo votato un parlamento perché esami il piano, altrimenti parliamo di ristrutturazione autocratica del paese».
«QUELLA CHE SI VOTA in queste ore è una grande spartizione di risorse che quasi tutti i partiti stanno aspettando da mesi e li ha rapidamente convinti a imbarcarsi in un governo di destra-centro-sinistra, un’“ammucchiata” senza precedenti in Italia e in Europa- ha detto Piero Bernocchi (Cobas) – Senza un reddito di base, beni comuni come scuola e ricerca, trasporti e sanità sottratti al mercato non ci sarà nessuna transizione».
ANCHE SULLA SANITÀ è il piano è stato giudicato insufficiente. «La sofferenza usata per altre esigenze economiche per fare ripartire il modello di sviluppo che è alla base di queste pandemie – ha detto intervenendo online Vittorio Agnoletto di Medicina Democratica e della campagna “Nessun profitto sulla pandemia” – Abbiamo bisogno di cambiare il paradigma della sanità, di assumere medici e infermieri, una medicina territoriale, strutture ospedaliere intermedie, i Lea devono essere garantiti da un servizio pubblico e di un’azienda sanitaria pubblica a livello europeo. Altrimenti alla prossima pandemia rincorreremo le multinazionali per avere altri vaccini».
CRITICHE sono state rivolte da Rossella Muroni (Verdi) al la visione estrattivistica delle politiche energetiche, alla politica di transizione alle energie rinnovabili non democratica e non priva di problemi sull’idrogeno; sulle grandi opere e sui commissariamenti. «C’è un deficit di partecipazione democratica – ha detto in piazza Stefano Fassina (LeU) che ha votato la fiducia al governo -La storia non finisce oggi, le leggi delega passeranno in parlamento e i progetti vanno definiti, è importante continuare la mobilitazione». «Voterò contro questo scandalo – ha detto Nicola Fratoianni (Sinistra Italiana) in piazza- Il governo precedente è caduto perché aveva permesso la partecipazione al piano. Ora il Parlamento lo discute a scatola chiusa».
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Giuseppe De Rita sostiene che il 25 aprile è una festa che non ha più senso. Cosa avrà voluto dire? E’ necessario chiedercelo. Non ho dubbi che De Rita sia antifascista.
Quindi? E’ la constatazione di un sociologo che legge la realtà e la interpreta? Ma da un sociologo della sua fama ci si aspettano descrizione e analisi.
Non flash che assomigliano a battute amare. Per non dire irritate.
Il 25 aprile non ha più senso. Per chi?
Per chi ne conosce il significato, ha un doppio senso. Per i fascisti e gli eredi politici del fascismo, di sfumature varie, ha un senso negativo, da cancellare. Il senso della sconfitta.
Per chi proviene, in prima persona o per storia familiare, dall’antifascismo militante, è una festa imprescindibile nel suo enorme valore.
Il valore della libertà. La libertà, diceva Piero Calamandrei, che ha il valore dell’aria. Ne conosci veramente il valore quando l’aria viene meno.
Per gli afascisti, gli indifferenti rispetto ad ogni questione civile che non li riguardi in prima persona, è un giorno come un altro, salvo il godere di una giornata di riposo.
Gli indifferenti. Quelli che Antonio Gramsci detestava. Il tarlo che rode dall’interno ogni democrazia, un tarlo pericoloso perché silenzioso e invisibile. A volte, si vede il marciume quando è troppo tardi.
Il 25 aprile divide, o non dice più niente a nessuno, quindi mettiamoci una pietra sopra? Divide ancora? Perché?
Non c’è una sola festa, e non solo in Italia, che sia vissuta allo stesso modo, felice o infelice che sia.
Anche il 14 luglio, in Francia, non ha lo stesso valore in ogni ambito e per ogni persona. Ma nessun francese ignora cosa accadde il 14 luglio del 1789.
Il 4 luglio, negli USA, è festa molto sentita. Chi ne gioisce va dai radical democratici ai sovranisti, con spirito opposto. Ma nessuno, negli USA, dice che è una festa priva di significato.
La generazione italiana giovane non conosce il significato del 25 aprile? Tutta la gioventù? Strana generalizzazione. Questo sarebbe un vero e grande guaio, e non solo per il 25 aprile.
La vera e drammatica questione è che la conoscenza della storia è merce rara, nel nostro paese. Nei piani bassi e nei piani alti.
Credo che De Rita dovrebbe preoccuparsi di un paese che ha pochi parlamentari che conoscono la nostra storia, Costituzione compresa.
E che il primo vulnus alla nostra Repubblica, sia stato, poco dopo il suo inizio, il mettere molta polvere sotto il tappeto.
Molti fascisti, anche criminali, nei ministeri, nell’esercito, nella magistratura, nella scuola. L’armadio della vergogna docet.
Non sono soltanto i giovani che conoscono poco la storia. Pochi sanno che i nodi individuati dal Risorgimento democratico non sono stati sciolti. Neppure Giolitti lo ha fatto. Che la prima guerra mondiale ha sconvolto il mondo, e non solo l’Italia. Che il fascismo sembrò la risposta che, andando per le spicce, metteva ordine.
De Rita ridicolizza gli uomini del CLN che, a Liberazione compiuta, sfilano in giacca e cravatta. Ma dietro di loro c’era tanta gioventù armata. Di questo non parla, De Rita. Come dovevano sfilare, i rappresentanti del CLN, con fucili spianati? La nostra non fu solo una Resistenza armata di armi. Ci furono tante altre buone armi, se proprio vogliamo usare la parola armi. Quelle del pensiero, della politica, dell’etica civile, opposte a quella del regime. Claudio Pavone lo ha spiegato in modo magistrale. E molte donne storiche hanno spiegato il significato liberatorio, per le donne, della Resistenza delle donne antifasciste. Una per tutte, Anna Rossi-Doria.
Gli uomini del CLN, sfilando così vestiti, vollero significare che la gioventù antifascista armata aveva consentito loro di ritornare a una vita civile finalmente senza armi. In pace, con abiti in borghese, che non vuole dire abiti borghesi, come De Rita dovrebbe sapere. Gli uomini del CLN comprendevano bene il significato dei simboli, esperti di semiotica più di De Rita.
La nostra gioventù, quella che studia, quella civilmente impegnata, nel volontariato, nell’ambientalismo, per i diritti civili e sociali, non sa cosa significhi il 25 aprile? De Rita non conosce questa gioventù.
E’ una gioventù innamorata della Resistenza, del 25 aprile, di Bella Ciao.
La gioventù a cui mi riferisco è tutta la gioventù? Certamente no. Forse sono in maggior numero gli indifferenti? Non lo escludo.
C’è anche una gioventù fascista o neofascista?
C’è, si vede, si sente. Non si nasconde. E’ rumorosa. E’ di numero superiore alla gioventù antifascista, impegnata quotidianamente per l’attuazione della Costituzione, molto più di quanto non facciano molti parlamentari?
Non credo. Ma sono modi di essere giovani su fronti opposti, non c’è retorica di necessaria riconciliazione che tenga. Piero Calamandrei disse che la patria era stata uccisa dal fascismo e che l’antifascismo l’avrebbe fatta rinascere. Recentemente Maurizio Viroli ci ha ricordato una espressione di Norberto Bobbio, che sceglieva le parole con cura. L’antifascismo deve essere intransigente e sprezzante. Sprezzante? Certo, perché privo di valore, da disprezzare. E, aggiungeva Viroli, noi antifascisti siamo in difficoltà, se pensiamo di dovere comprendere e perdonare. Comprendere nell’accezione della comprensione storica dei fatti, premesse, contesti, conseguenze? Certamente. Ma comprensivi come con un fanciullo che, per inesperienza, ha sbagliato? Sicuramente no.
Perdonare? Impossibile. Altri totalitarismi hanno compiuto altri disastri? Non è l’alibi per perdonare.
Nessuna tragedia della storia va perdonata. Il perdono non è una categoria della storia e della politica.
Con questi pensieri andrò, fra poche ore, alla cerimonia del 25 aprile.
Ben sapendo che il 25 aprile, e la nostra Costituzione, sono ancora poco onorati.
E che avrebbero meritato, e meritano, molto più, e meglio, di quanto il popolo italiano e i sui rappresentanti abbiano fino ad oggi fatto.
Maria Paola Patuelli
25 aprile 2021
Commenta (0 Commenti)Ci siamo auto-invitati al 25 aprile in Piazza.
Alle ore 11.15 canteremo DALLE BELLE CITTÀ e intoneremo un BELLA CIAO da cantare tutti assieme!!
VENITE A CANTARE PER LA LIBERTÀ!!
Mediterraneo. Le immagini dei gommoni che si aggirano tra i corpi senza vita di uomini e donne che speravano di salvarsi mettendosi nelle mani dei trafficanti, ancora l’unica possibilità di scappare, dovrebbero spingere governi e Ue ad attivare subito un piano di evacuazione delle migliaia di persone prigioniere delle milizie, per evitare che debbano scegliere tra la violenza e il pericolo di morte
Chissà se il premier Draghi sarà ancora soddisfatto del suo accordo con la Libia dopo la strage di esseri umani causata proprio da quell’accordo. Chissà se il nostro governo europeista interverrà per richiamare l’Ue, dato che Frontex sapeva e non è intervenuta.
Se tutto il mondo ha potuto vedere quali sono le conseguenze del cinismo italiano ed europeo è grazie ai «buonisti» della Ong Sos Mediterranèee, che hanno provato ad aiutare quelle imbarcazioni in fuga.
Il leader dei sovranisti nostrani, il «duro» Salvini, che accusa chi salva vite umane di essere responsabile di quelle morti, dovrebbe vergognarsi insieme ai tanti che, con responsabilità diverse, hanno contribuito in questi anni a consegnare alle milizie e ai trafficanti libici il destino di migliaia di persone in fuga da una guerra civile che abbiamo contribuito ad alimentare.
Per chi si ritrova prigioniero in Libia le opzioni sono due: tentare la fuga, rischiando la morte, o restare alla mercé della violenza organizzata, sdoganata anche dal Memorandum siglato dal nostro governo.
I governi europei, quelli che si ergono a giudici di chi vìola i diritti umani, davanti alla cancellazione di quei diritti si girano dall’altra parte e lasciano che siano le milizie ad occuparsi di questa umanità evidentemente per loro «meno umana».
La Libia non è un porto sicuro, ha ribadito più volte l’Alto Commissario Onu Filippo Grandi. Solo nel 2021 più di 6 mila persone sono state catturate con imbarcazioni libiche pagate dal nostro governo e riportate in lager dove è noto a tutti, anche ai nostri ministri, che le persone subiscono trattamenti disumani e degradanti.
Ma il Governo continua a fare affari con quel Paese, dichiarando che fermare quelle persone in fuga è nel nostro interesse, anche sapendo a che destino vanno incontro. Argomenti non dissimili dalla «difesa delle frontiere della patria» proclamata dal leader leghista per giustificare il sequestro di persona di cui dovrà rispondere ai giudici di Palermo.
Il Parlamento italiano deve istituire subito una Commissione d’inchiesta sull’accordo Italia – Libia e sulle responsabilità del governo nelle stragi e nelle violenze perpetrate.
Le immagini dei gommoni che si aggirano tra i corpi senza vita di uomini e donne che speravano di salvarsi mettendosi nelle mani dei trafficanti, ancora l’unica possibilità di scappare, dovrebbero spingere governi e Ue ad attivare subito un piano di evacuazione delle migliaia di persone prigioniere delle milizie, per evitare che debbano scegliere tra la violenza e il pericolo di morte.
Purtroppo finora ha prevalso il calcolo elettorale e l’assenza di coraggio e intelligenza politica, oltre che di un briciolo di coscienza, anche nelle forze democratiche.
Servono a poco quote simboliche per i cosiddetti corridoi umanitari, praticati peraltro dalle associazioni religiose e non dai governi. Dimostrano che si può fare, si possono salvare le persone, ma che a farsene carico devono essere i governi, con programmi adeguati. L’Ue si è arresa, e il Patto Europeo su migrazioni e asilo lo dimostra con chiarezza, all’ideologia dei partiti sovranisti e razzisti. Era l’aprile del 2015, solo 6 anni fa, quando a seguito dell’ennesima strage il Consiglio Europeo fu convocato d’urgenza.
Iniziò con un minuto di silenzio e si concluse con l’impegno di fermare le stragi. Il minuto di silenzio dura da 6 anni e non servono lacrime di circostanza e finte promesse. Bisogna agire subito: evacuazione e chiusura dei campi per migranti in Libia e un programma di ricerca e salvataggio europeo. Fermare la strage è possibile!
Commenta (0 Commenti)Clima. Serve una «Costituzione che istituisca un demanio planetario con inventario non solo di diritti universali ma di beni comuni, inappropriabili da parte di nessuno
Non è una «giornata» che si può celebrare impunemente la «giornata della Terra» messa in calendario per oggi, 22 aprile. È infatti il secondo anno che cade in piena pandemia e non ci si può prendere cura della Terra senza far tesoro della lezione che ne è venuta: è sotto gli occhi di tutti come essa ci abbia preso di sorpresa e come sulla base delle risorse e delle culture disponibili non siamo minimamente in grado di reggere alla prova. Basta vedere le immagini della infinita distesa di morti malamente inumati nelle foreste a questo scopo disboscate del Brasile, per capire che senza una rivoluzione del sistema di governo e una conversione della maggioranza dei cuori la vita così com’è non può continuare sulla Terra.
La pandemia, concentrando su di sé tutta la cura del mondo, ha distolto l’attenzione da altre urgenze già presenti prima di essa e da questa aggravate. Basta pensare all’innalzamento delle acque a seguito della crisi climatica quando, come dice un documento “People and Oceans” delle Nazioni Unite, circa 145 milioni di persone vivono entro un metro sopra l’attuale livello del mare e quasi due terzi delle città del mondo, con una popolazione di oltre 5 milioni di abitanti, si trovano in aree soggette al rischio mentre quasi il 40% della popolazione mondiale vive entro 100 km da una costa. I movimenti migratori strutturali che ne deriveranno imporranno ben altre priorità alle politiche nazionali. E basta pensare al solo problema dello smaltimento delle acque contaminate dalle centrali nucleari sinistrate, come quella di Fukushima, che diventeranno inoffensive solo fra 24.000 anni, per comprendere la portata delle questioni da affrontare.
Si comprende allora lo sgomento del papa che nel messaggio di Pasqua ha definito come uno scandalo il rincrudirsi delle guerre e diffondersi delle armi nel confermato esercizio della lotta di tutti contro tutti. Ma non meno scandaloso è che mentre la ragione suggerirebbe l’immediata mondializzazione dei vaccini, enormi profitti derivanti dai loro brevetti e dall’esplodere delle tecnologie informatiche abbiano scavato nuovi abissi tra un pugno di ricchi e moltitudini di poveri, sottraendo immense risorse a bisogni vitali, nell’indiscussa obbedienza alla sovranità dei mercati.
Una risposta a queste sfide è la lotta per giungere all’adozione di una «Costituzione della Terra», come è concepita e promossa a partire dall’Italia da un movimento e una Scuola, di cui a suo tempo il manifesto ha dato notizia. Ora si è giunti al momento di cominciare a discuterne un progetto di base che sarà reso pubblico il prossimo 8 maggio in una apposita assemblea convocata per via telematica, a partire dalla Biblioteca Vallicelliana a Roma. A illustrarlo sarà Luigi Ferrajoli, che ne ha curato la stesura; si tratta di un testo aperto, in cui dovranno congiungersi il talento dei costituzionalisti, la logica dei filosofi del diritto e la poesia di uomini e donne concreti che vogliano farsi costituenti di un ordine di giustizia e pace sulla Terra.
Non si tratta solo di proclamare diritti e di porre vincoli e limiti ai poteri come fanno le Costituzioni degli Stati nazionali, si tratta anche di istituire nuovi ordinamenti che, nel pluralismo delle differenze, ne realizzino l’effettività e ne garantiscano il godimento. Si tratterà di una Costituzione ben altra rispetto a quelle vigenti, perché si tratta di dare risposte a «problemi sconosciuti ad altre età», per riprendere le parole con cui sognavano la nuova società gli spiriti grandi che già ne avevano concepito l’idea all’indomani della tragedia della seconda guerra mondiale, dopo i primi bagliori dell’arma nucleare e i sofferti genocidi, quando i popoli si riunirono a san Francisco e gettarono le basi del mondo nuovo di cui le Nazioni Unite furono l’embrione.
Ben al di là di quanto si fece allora si deve ora istituire un demanio planetario, fare un inventario non solo di diritti universali ma di beni comuni, inappropriabili da parte di nessuno, a cominciare dalle acque, dalle foreste, dalle rotte marine e spaziali, dalle medicine di base, stabilire un elenco di beni illeciti, fuori mercato, a cominciare dalle armi di offesa, abolire gli eserciti nazionali e stabilire la sola legittimità di una forza di polizia internazionale per la sicurezza e la pace, introdurre una fiscalità mondiale, debellare la fame omicida, tutelare lo storico patrimonio dei saperi e delle arti prodotto nei secoli.
Non si tratta solo di ecologia, si tratta di far continuare la storia. Occorre non violentare la Terra, spremendone e dilapidandone le ricchezze, ma riconoscendola come un pianeta vivente, una perla dell’universo, casa comune degli esseri umani, delle piante e di una grande quantità di animali, sede di storia e di lavoro, del diritto e della scienza, di amori e di illimitate speranze, come dice l’ «incipit» di questa nuova Costituzione. Si tratta di istituire una «Federazione della Terra». Naturalmente si tratta solo dell’inizio di un cammino. Ma il futuro passa anche da qui.
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