Il lavoro uccide. Il giorno dopo un'intesa annunciata dal governo con i sindacati la strage sul lavoro continua: da Milano a Capaci sei lavoratori sono morti soffocati dall’azoto, precipitando dalle impalcature, schiacciati sotto un tir, decapitati da una trebbiatrice. Il bilancio è terrificante: solo nei primi 7 mesi del 2021 i morti sono 677
La strage del lavoro: flash mob di Cgil, Cisl e Uil a piazza Montecitorio a Roma © Ansa
Si muore ustionati o soffocati dall’azoto liquido. Si muore precipitando dalle impalcature a pochi metri dal suolo. Si muore schiacciati da un tir o decapitati dalle lame di una trebbiatrice. Il lavoro uccide, non per fatalità, ma per una fitta serie di concause, molte prevedibili e altre no. Tutte comunque create dagli esseri umani che operano dentro e fuori le imprese, in proprio o in subappalto, e ancora per contratto.
JAGDEEP Singh, 42 anni, e Emanuele Zanin, 46 anni lavoravano per la ditta «Autotrasporti Pe» di Costa Volpino che lavora in subappalto per la monzese «Sol Group spa». Ieri hanno perso la vita soffocati dall’azoto liquido durante un rifornimento della sostanza all’ospedale Humanitas di Pieve Emanuele in provincia di Milano. L’imbianchino Valeriano Bottero di 52 anni è morto precipitando da un’impalcatura mentre lavorava per la ditta «Lavor Metal nella zona industriale di Loreggia in provincia di Padova. Leonardo Perna, 72 anni, titolare di un’azienda meccanica, caduto da una scala a due metri d’altezza ha perso la vitae a Nichelino vicino a Torino. Giuseppe Costantino, 52 anni, aveva finito le operazioni di carico e scarico della merce a Capaci vicino a Palermo. Si era spostato nella parte posteriore del Tir. Ma il mezzo si è messo in movimento e le sue ruote lo hanno stritolato. Verso le 20.30 di ieri sera il corpo decapitato di un lavoratore agricolo di 54 anni dalle lame di una trebbiatrice è stato trovato a Pontasserchio in provincia di Pisa. Sul posto sono intervenuti i vigili del fuoco per liberare il corpo rimasto intrappolato nella macchina.
IN ITALIA, da ieri, ci sono sei vite in meno alle quali rendere giustizia. Insieme alle altre 677 che,
Commenta (0 Commenti)Il Reichstag a Berlino © Ap - LaPresse
Prima ancora di cimentarsi nel risiko delle possibili coalizioni converrà chiedersi quale paese e quale clima sociale rispecchi il risultato delle elezioni federali in Germania della scorsa domenica. Per quel tanto che l’espressione di un voto sia in grado di farlo.
A partire dalle due sorprese che ci ha riservato. Ovverosia la miracolosa ripresa di una agonizzante socialdemocrazia e il mancato sfondamento dei Grünen, in un contesto fortemente dominato dalle loro tematiche, nonostante il raggiungimento del miglior risultato della loro storia di partito.
Che il cambiamento climatico e la tutela dell’ambiente occupino i primi posti tra le preoccupazioni dei tedeschi è una circostanza assodata. Ma altrettanto forte resta il timore che un intervento radicale su questo terreno comporti un impatto negativo sulla struttura industriale e produttiva della Germania. Cosicché un governo a preponderanza verde avrebbe rischiato di attivare una fase di transizione troppo rapida e traumatica per milioni di lavoratori e lavoratrici impiegati nell’industria tradizionale.
Tutto sommato la percezione della Germania come un modello di successo in grado di garantire la continuità di accettabili livelli di benessere è ancora piuttosto radicata.
Di certo la crescita delle diseguaglianze sociali si è fatta sentire ed è stata messa a tema, così come le numerose falle nel sistema di Welfare. Ne è conseguita la
Leggi tutto: Germania, un cambiamento senza bussola - di Marco Bascetta
Commenta (0 Commenti)Il ritiro dall'Afghanistan e il nuovo ordine mondiale
Il ritiro unilaterale degli Usa da un teatro di guerra che avevano considerato strategico non poteva non avere conseguenze sugli alleati europei e sull’Europa. Le prime reazioni sono senza alcun respiro strategico, come a pensare di mettere una pezza su un vestito irrimediabilmente lacerato. Una reazione al fondo banalmente conservatrice e altrettanto banalmente sostitutiva di quel che il grande alleato ha abbandonato. Non riesce a riempire il vuoto l’enfasi spropositata messa sulla scelta operata da Biden. Si è parlato persino di una svolta epocale, finendo così per inseguire una falsa pista.
In realtà, si è trattato di una scelta obbligata che risponde anche a un nuovo orientamento della politica internazionale degli Usa, suggerita dalla sua nuova classe dirigente, che propone anche a quel livello la priorità della difesa degli interessi della classe media e operaia del Paese. La scelta obbligata dall’insostenibilità della spesa statale segna in realtà una precisa tendenza: il declino della potenza militare mondiale degli Usa. La tendenza è stata di lungo periodo e il suo avvio può essere ricondotto alla sconfitta nel Vietnam, quella sì davvero epocale. Il tentativo estremistico dei neoconservatori americani di ricorrere alla guerra preventiva e permanente, sospingendo la spirale guerra-terrorismo-guerra è fallita disastrosamente. Non solo Obama ma anche Trump devono, seppure in termini radicalmente diversi, collocarsi all’interno dell’accettazione del declino degli Usa come potenza militare mondiale. La guerra non paga.
Cambia ancora il rapporto tra la politica e l’economia. Ancora, dopo l’attacco dell’11 settembre 2001 alle Torri gemelle, la Borsa fu chiusa fino al lunedì successivo e l’impatto sull’economia fu enorme, così come sempre è stato significativo rispetto alle crisi politiche. Oggi non è successo nulla che la Borsa voglia segnalare. Si è prodotta allora una separazione tra la politica tradizionale e l’economia e la finanza. Per gli Usa del tempo di Biden, l’economia digitale, se vogliamo l’andamento economico di Google, Facebook, Apple, Amazon, Microsoft, conta molto più della presenza militare del Paese e dunque del complesso militare statale. Le scelte da compiere in Europa non potrebbero e non dovrebbero ignorarla, tantomeno dovrebbero farla nei confronti dei mutamenti in corso negli
Leggi tutto: All’Europa non serve un esercito ma una forza di pace - di Fausto Bertinotti
Commenta (0 Commenti)Per il Tribunale del lavoro di Firenze la società ha violato l'articolo 28 dello Statuto dei Lavoratori, mettendo in atto comportamenti anti sindacali. "Azienda in malafede", scrive il giudice
Il Tribunale del Lavoro di Firenze ha revocato l'apertura dei licenziamenti collettivi per la Gkn di Campi Bisenzio (Firenze), industria delle componentistica auto controllata dal fondo britannico Melrose. I giudici hanno dato ragione ai sindacati, che avevano impugnato il procedimento avviato verso i 422 dipendenti licenziati dal gruppo, che per il Tribunale ha violato l'articolo 28 dello Statuto dei Lavoratori, mettendo in atto comportamenti anti sindacali. I lavoratori erano stati informati di aver perso il posto con una email. E il giudice ritiene che "è configurabile un'evidente violazione dei diritti del sindacato, messo davanti al fatto compiuto e privato della facoltà di intervenire sull'iter di formazione della decisione" da parte dei vertici della multinazionale di lasciare a casa i dipendenti. Per il giudice, nel comunicare i licenziamenti collettivi con una email, il 9 luglio scorso, la Gkn è venuta meno al "democratico e costruttivo confronto che dovrebbe caratterizzare le posizioni delle parti".
"Il Tribunale - si legge in un passaggio della provvedimento - in parziale accoglimento del ricorso, accertata l'antisindacalità delle condotte" di Gkn nel licenziare 422 dipendenti, ordina di "revocare la lettera di apertura della procedura ex L.233/91"
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Momenti dell’imponente manifestazione degli operai e del coordinamento delle donne della Gkn ieri a Firenze © Aleandro Biagianti
Doveva piovere e non è piovuto. Ma almeno 25mila gocce sono cadute ugualmente, sotto il sole settembrino, sulle strade di Firenze. E se ogni tempesta, come ricordava Lorenzo ‘Tekoser’ Orsetti, nasce da una singola goccia, per la resistenza operaia delle tute blu Gkn c’è ancora speranza. Nonostante la chiusura totale da parte della multinazionale controllata dal fondo finanziario Melrose, che ha avviato la liquidazione della fabbrica di Campi Bisenzio. Nonostante il silenzio del governo Draghi su questa e tante altre chiusure di stabilimenti industriali. Nonostante l’abulia della politica «ufficiale», incapace di dar corpo a leggi che contrastino il dumping del lavoro (e delle regole fiscali, solo per fare un altro esempio) all’interno dell’Ue. Ma, come evidenziato sulla t-shirt di uno dei manifestanti che hanno pacificamente invaso la città, «Chi lotta può perdere, chi non lotta ha già perso.
IL CORTEO AUTORGANIZZATO dalla Rsu e dal Collettivo di fabbrica è diventato strada facendo sempre più imponente, tanto che ci sono voluti tre quarti d’ora per vederlo sfilare fra piazza Indipendenza e piazza San Marco. In testa le bandiere partigiane della Brigata Sinigaglia e dell’Anpi Oltrarno e di Campi Bisenzio, protagoniste della liberazione della città dal nazifascismo nel 1944. Come a cementare il legame fra chi contribuì alla riconquista della democrazia, e chi sta lottando per vederne confermati i cardini costituzionali.
SUBITO DIETRO L’ORMAI celebre striscione «Insorgiamo». E poi un fiume di donne e uomini di
Leggi tutto: «Insorgiamo». La protesta della Gkn invade Firenze - di Riccardo Chiari
Commenta (0 Commenti)Il caso. Le incognite di una delega fiscale che divide i partiti della maggioranza Frankestein ancora prima di essere presentata: irap e Irpef, cuneo fiscale e riforma del catasto, assegno unico. Lega: sulle tasse stop all’aumento. LeU e Sinistra Italiana: «È il partito delle Ztl"
Il presidente del Consiglio Mario Draghi © Ap
Doveva essere un settembre a passo di carica, ma quello del governo Draghi sarà a passo di gambero. Dopo la concorrenza anche la delega fiscale che doveva essere presentata già a fine luglio, poi prima di ferragosto, sembra slittare a fine mese insieme alla nota di aggiornamento al Def per i veti incrociati nella maggioranza Frankenstein. E quando arriverà alle Camera il provvedimento potrebbe essere generico rinviando le scelte al dibattito parlamentare o a quello sui decreti attuativi. Il nuovo sistema dovrebbe, infatti, entrare in vigore nel 2023. Quello che è certo è che chi misura la politica fiscale in base agli interessi elettorali non cambierà idea. Prima vengono i «cronoprogrammi» ma poi ci sono gli interessi.
La riforma fiscale sarebbe una delle (tante) precondizioni per ricevere la manna dei 200 miliardi di euro del piano di ripresa e resilienza europeo. Ma la maggioranza è spaccata. È bastato il nuovo annuncio sulla riforma del catasto, piccolo grande classico che va in scena perlomeno dal governo Monti. Anche quell’esecutivo cercava di dare seguito a un orientamento della Commissione Europea che invita a modificare il sistema attuale basato su estimi di 40 anni fa. È bastato un ballon d’essai a fare saltare
Leggi tutto: La riforma fiscale è un terreno minato anche per Mario Draghi - di Mario Pierro
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