Reportage. Nella città data per persa sul fronte caldo del Donbass: «Così reggiamo una settimana». I militari furiosi: «Il comandante di zona è un incompetente e mancano rinforzi»
Palazzi bombardati a Pokrovsk - foto di Vincenzo Circosta
C’è fila all’ingresso di Pokrovsk, poco prima del nostro arrivo i russi hanno bombardato l’ultimo ponte rimasto. Il cavalcavia ha retto ma nel tratto centrale metà della carreggiata è caduta nel vuoto. «Prima il ponte verso Myrnograd, poi il grande ponte sopra la ferrovia, ora questo… è chiaro che i russi si stanno preparando a entrare» spiega un ufficiale ucraino di una brigata di complemento impegnata su questo fronte. «Se la situazione resta la stessa possiamo resistere una settimana, forse due. Magari se mandano dei rinforzi…» si interrompe e conclude con un’imprecazione.
Eppure la città sembra sospesa in una bolla, non si ha l’impressione (come a Bakhmut, ad esempio) che da un momento all’altro possano spuntare i battaglioni russi da dietro l’angolo.
L’artiglieria nemica non martella costantemente e il livello distruzione non è comparabile ad altre battaglie campali di questa guerra. Ma allora perché tutti la danno per spacciata?
Ci aiuta a capirlo l’ufficiale di complemento che però accetta di parlare a condizione di restare anonimo. «All’inizio della primavera c’è stato un cambio al comando di zona e il nuovo comandante è un incompetente: sposta i soldati sulla linea del fronte come se fossero le sue pedine di scacchi, non riesce a prevedere le offensive del nemico e quando i russi attaccano va nel panico. Abbiamo rischiato di essere chiusi in una sacca già due volte e abbiamo dovuto ripiegare – ci spiega l’uomo – per evitare l’accerchiamento. Ora per raggiungere le nostre posizioni di tiro dobbiamo percorrere 90 chilometri». Una lunga deviazione che evita di essere scoperti dai droni russi e, di conseguenza, bersagliati dall’artiglieria.
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Il nemico è a 7 km a est e a sud-est. «Anche qui, vedi – l’ufficiale indica con l’indice e il pollice su una mappa – stanno avanzando su due fronti, il loro obiettivo è di tagliarci fuori dalle retrovie».
Congiunge le dita sulla scritta Pokrovsk e si blocca, gli altri commilitoni guardano per terra. Ma non si sono lamentati? «Eccome! Tutto inutile». Un altro dei presenti racconta: «C’è qualcuno che dice che sia parente stretto di uno molto in alto… non so se sia vero ma sta di fatto che la sua incapacità ci ha fatto perdere troppi uomini».
Ora i russi non bombardano a tappeto perché ciò rallenterebbe la loro offensiva. «Hanno trovato un punto debole nelle nostre difese e lo stanno sfruttando, c’è stato un periodo in cui perdevamo un villaggio al giorno, per quanti dei loro ne potevamo ammazzare, erano sempre più di noi, molti di più, su un fronte lungo centinaia di chilometri. Resistere così è quasi impossibile».
«Pensa» racconta infine, «che dopo aver chiesto rinforzi per mesi ci hanno mandato di recente delle reclute che stavano nel Kursk… ragazzini che per poco non si sparano sui piedi! Abbiamo dovuto separarli e distribuirli tra i nostri per evitare che ci intralciassero». Inoltre nelle retrovie hanno dislocato delle reclute appena uscite dai campi di addestramento. «Cosa dovremmo farci? Sembra quasi che la vogliano regalare ai russi questa dannata città. E solo questa settimana ne ho persi altri due dei miei, due ottimi soldati, due ragazzi…» si ferma di nuovo e guarda per terra anche lui.
Pokrovsk è quasi deserta. Dei 50mila residenti che vi abitavano prima della guerra ora ne restano poche migliaia. Ieri l’amministrazione cittadina ha diffuso un comunicato nel quale ammette l’impossibilità di poter mantenere le forniture idriche d’ora in avanti; la corrente elettrica e il gas mancano già da un po’. L’ordine di evacuazione è stato dato da qualche settimana ma, come in molte città del Donbass diventate terreno di scontro, c’è sempre una parte di popolazione che non vuole partire.
Il lungo vialone che arriva alla piazza centrale sulla quale svettano le cupole d’oro e zaffiro della chiesa ortodossa è percorso solo da auto di militari. Alla fermata degli autobus delle anziane aspettano invano da ore di poter tornare nel loro villaggio. «Siamo venute per consegnare delle carte al comune, ma non c’era nessuno, né il sindaco né la polizia». L’idea stessa che alla mattina presto queste donne siano uscite per venire a sbrigare delle pratiche burocratiche nella città più pericolosa del Donbass è di un’assurdità quasi comica.
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Un’altra anziana chiude una saracinesca. Quando la chiamiamo ci rivolge un sorriso con molti buchi ma nel quale svettano 4 denti d’oro. «Ho mandato tutti via, soprattutto i nipoti, io resto qui finché vendo la merce che mi rimane in negozio e poi me ne vado». Ma non ha paura? «Domani, venite domani a parlare, ora c’è il coprifuoco». Il sole è ancora alto, pensiamo sia una scusa ma più tardi scopriamo che l’amministrazione militare ha davvero imposto il rientro obbligatorio a casa entro le 15. «Comunque, quando tutto va male resta la nonna» continua la vecchia Ludmilla con il suo sorriso scintillante, «come si dice: una per tutti», ride rumorosamente e affretta il passo.
Il coprifuoco finisce alle 11 del mattino e inizia alle 15, agli abitanti di Pokrovsk sono concesse quattro ore di libertà. «È così stringente perché serve a controllare le strade quando non ci sono abbastanza agenti per le pattuglie, il rischio di operazioni di sabotaggio russe è alto e quindi teniamo tutti a casa» ci spiegano. A poca distanza un anziano carica la macchina e sembra si prepari a partire. «Non voglio fare nessuna intervista» dice ancora prima che apriamo bocca, ma poi ci spiega che non sta andando da nessuna parte perché percepisce 7000 grivnia di pensione (circa 170 euro) «e a Dnipro le case costano almeno il triplo». Non è preoccupato dell’arrivo del freddo? Si tocca la testa canuta e dice con un sorriso sardonico: «Ho i capelli bianchi, ne ho viste tante, passerò anche questa». Non ha famiglia? «Li ho mandati a Dnipro, ma non possiamo andare tutti».
Mezz’ora dopo le strade si svuotano completamente. Due poliziotti molto giovani pattugliano la piazza («non sono di qui, vengono da fuori» dice un’anziana di passaggio, quasi con disprezzo), ogni tanto un’automobile civile con i simboli di qualche brigata passa a tutta velocità. Da una curva svolta una vecchia Lada che trasporta un frigorifero e altri mobili legati con delle corde su un carrettino a rimorchio. Una serie di ambulanze a sirene spiegate viaggia verso ovest, probabilmente la coda tardiva di un’evacuazione di civili. Verso sera l’attività dell’artiglieria aumenta progressivamente e prima che faccia buio passiamo di nuovo il ponte, ricordandoci sempre, come dice un amico ucraino di queste zone, che «è l’ultimo rimasto, potrebbero colpirlo in ogni momento: correte!»