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INTERVISTA. L’urbanista autrice del libro «Le case degli altri»: «Le classi dirigenti parlano di “vocazioni turistiche”, un concetto che non ha alcun senso e depoliticizza i processi di trasformazione innescati dagli investimenti»

Alessandra Esposito: «Si preferisce puntare sulla rendita invece di lottare per reddito di base e salari» Napoli

Urbanista e attivista della rete Set – Sud Europa di fronte alla turistificazione, Alessandra Esposito si occupa del problema della rendita nei processi di trasformazione urbana. Quest’anno ha pubblicato Le case degli altri. La turistificazione del centro di Napoli e le politiche pubbliche al tempo di Airbnb (Editpress).

I sindaci di centrosinistra sembrano guidare la rivolta contro lo spopolamento dei centri storici.
Il problema del turismo di massa è stato creato dalle istituzioni e dalle politiche pubbliche. Dagli anni ’70 in poi, si è scelto di investire nella crescita del settore turistico e adesso ne stiamo pagando le conseguenze ma, al di là dei proclami, si è ben lontani dal mettere in discussione la crescita del turismo. Per esempio si continua a parlare dell’ampliamento degli aeroporti e a collaborare con Airbnb anziché fargli causa, come avvenuto altrove. Prima del governo Prodi, il Turismo era uno degli ambiti del Mise mentre adesso ha un ministero e assessorati dedicati che fanno sostanzialmente marketing territoriale e promozione di brand. Questo non è certo il compito del pubblico. Le classi dirigenti che hanno deciso di imboccare questa strada non ne parlano in termini di decisione politica ma come del risultato di “vocazioni turistiche”, un concetto che non ha alcun senso e depoliticizza i processi.

Quali condizioni hanno favorito il proliferare degli affitti turistici?
La cultura della rendita li ha favoriti. Negli ultimi cinquant’anni le politiche pubbliche hanno indotto la popolazione ad acquistare le case come strategia abitativa ma anche come strumento per il benessere economico. Per rispondere alla progressiva riduzione e precarizzazione dei redditi, le famiglie hanno cercato di compensare sfruttando le proprietà e pretendendo sempre più soldi da chi affitta o cerca di comprare. Oggi abbiamo una società polarizzata tra chi ha ereditato case, e sfrutta i propri vantaggi patrimoniali, e chi è costretto a fare più lavori per pagare le spese di una casa in cui vive in condizioni di sovraffollamento. Gestire immobili fa guadagnare più soldi che lavorare. Tutto questo con Airbnb è peggiorato. Ma Airbnb funziona perché si situa a cavallo di due culture egemoniche radicate: l’ossessione dello sviluppo turistico e l’ideologia della rendita e della casa in proprietà. Entrambe generate e promosse dal Pubblico.

Eppure siamo pieni di titoli sul valore prodotto dal turismo.
Nelle città turistiche oggi abbiamo un reddito pro capite più basso rispetto al 2008: la spinta a ‘vivere di turismo’ ha fallito, è ora di ammetterlo. La monocultura turistica alimenta economie recessive fondate sulla rendita, inquina il territorio, impoverisce, allontana gli abitanti. In sintesi, l’unico risultato è che siamo più poveri e abbiamo perso popolazione.

Adesso sembra esserci la volontà di affrontare il problema casa.
Se ne è parlato molto perché ora a non trovare più abitazioni sono anche i ceti benestanti del nord. Se il ceto medio, che produce e consuma, non trova più casa a Milano allora possiamo finalmente ammettere di avere un problema abitativo in Italia e ottenere che l’attore pubblico torni a parlarne. Questa cosa, vista da Napoli, è offensiva. A Napoli c’è da sempre la condizione abitativa peggiore del paese, con indici di sovraffollamento tra i più alti d’Europa. In Italia una famiglia su tre era sottoposta a spese abitative troppo alte rispetto al reddito già nel 2015. Negli ultimi tre decenni il sottoproletariato urbano è stato espulso dalle città italiane ma nessuno ha mai cercato di porre un freno. Si dovrebbe regolamentare tutto il mercato degli affitti, compresi gli affitti brevi, ma non lo si vuole fare perché si ritiene impopolare toccare gli interessi della proprietà: una specie di diritto di fatto alla rendita, non garantito però dalla Costituzione. Anche il caro affitti va avanti dagli ’80, oggi grazie alle proteste degli studenti ne possiamo parlare.

Napoli viene esaltata per il suo centro storico popolare.
La discussione è stata offuscata dalla favola della mixité sociale: che bello il palazzo in cui abitano classi sociali differenti. Ma non è mixité bensì segregazione verticale: chi nasce nel basso o negli appartamenti peggiori statisticamente è più probabile che esca prima dal percorso scolastico, che ottenga lavori poco retribuiti e resti a vivere in condizioni analoghe con i propri figli. Con il boom del turismo questa condizione è stata romanticizzata diventando un brand. Un’estetizzazione della povertà che maschera una gravissima polarizzazione e staticità sociale.

Come si inverte la rotta?
Da Santanchè a Nardella, le proposte sono molto timide se non ridicole. Bisogna regolamentare «le case degli altri», cioè quelle gestite dai privati, e riformare il mercato degli affitti. La campagna Alta tensione abitativa, per esempio, propone di inserire nella legge 431/1998 l’articolo 8 bis sugli affitti brevi: stabilire soglie per zone oltre le quali non si autorizzano le locazioni turistiche, con soglie differenziate e retroattive calcolate in base al fabbisogno abitativo. E poi utilizzare il patrimonio pubblico a fini sociali e abitativi. L’incidenza dell’affitto sui redditi ha superato il 40% e in Italia solo il 4% dello stock abitativo è di proprietà pubblica, quindi sono esclusivamente i privati a stabilire le condizioni di accesso alla casa. Invece di lottare per un reddito di base e l’aumento degli stipendi si è spinti ad alimentare la rendita pretendendo affitti sempre più alti