L'ANALISI. Il voto dei tesserati, che ha premiato Bonaccini, non è affatto un microcosmo del consenso elettorale al partito, ma uno specchio deformante
«Queste sì, che sono soddisfazioni!», come talvolta capita di esclamare. Nel caso di alcuni studiosi che si occupano di partiti (e mi ci metto anch’io), si può ben dire che l’esito delle primarie del Pd, alla luce soprattutto di alcuni stupefatti commenti, rappresenta una bella rivincita.
È davvero buffo che qualcuno scopra ora, con aria pensosa, che i gazebo hanno sconfessato gli iscritti. Oddio, come farà ora la povera Schlein a gestire questa situazione? Ma non ci era stato detto e predicato che oramai «il partito delle tessere» era un’anticaglia novecentesca? Che l’adesione al partito doveva essere leggera e il tratto identitario del Pd quello di essere «aperto» e «contendibile»?
È davvero singolare che adesso molti cadano dal pero e si preoccupino del destino degli iscritti. Per anni e anni ci è stato spiegato che era pura nostalgia pensare a un partito in cui avessero un senso espressioni come «radicamento territoriale», o «partecipazione» alla vita del partito («per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale»: articolo 49 della Costituzione); o che era faticoso e inutile, e costoso, tenere aperte le sezioni, quando oramai bastano i social.
Non solo: le regole che si era dato il Pd prevedevano espressamente la possibilità di questo divario: e lo si scopre ora, per fornire preoccupati (o interessati?) consigli a Elly Schlein?
Dopo anni in cui il ruolo degli iscritti è stato svilito e svalutato; dopo che è stato costruito un modello organizzativo in cui si davano gli stessi diritti a iscritti ed «elettori», sul punto cruciale (eleggere il segretario); dopo che vi è stata anche una trasandatezza assoluta nella gestione della macchina del partito, spesso appaltata ai potentati locali, dopo tutto ciò, ci si sorprende che vi sia stato un costante calo degli iscritti (salvo, solo ora, tornare ad attribuire gran valore agli iscritti residui)?
Guardiamo un po’ di dati, peraltro spesso opachi, non facilmente reperibili e approssimativi (il che la dice lunga, anche indirettamente, sullo stato del partito).
Nel 2008-9 erano 800 mila, 400 mila nel 2014-16; circa 380 mila nel 2019. Quest’anno sappiamo che hanno votato 150 mila iscritti, ma non è dato sapere la percentuale dei votanti sugli iscritti aventi diritto.
L’analisi però più interessante riguarda la distribuzione territoriale del voto: una semplice tabella ci mostra dei dati eloquenti. Mettiamo a confronto, per grandi aree geografiche, il rispettivo peso percentuale sul totale nazionale del voto degli iscritti, dei votanti alle primarie e dei voti al Pd del 25 settembre scorso.
Come si vede, tra gli iscritti metà hanno votato da Roma in giù; laddove, tra i votanti alle primarie si scende al 40%; mentre vengono da questi regioni il 34% dei voti al Pd. Inverso l’andamento per le regioni del Nord, più equilibrato l’apporto delle quattro (ex) regioni rosse.
Ebbene, possiamo dire che l’universo degli iscritti che hanno votato a maggioranza Bonaccini non si può dire davvero rappresentativo del più ampio corpo elettorale del partito: non è un microcosmo ma uno specchio deformato. Basti pensare che in provincia di Modena hanno votato 2.290 iscritti e a Foggia 2.570. Alle primarie, poi, tanto per dare dei termini di raffronto, a Modena hanno votato oltre 25mila persone (11 volte in più) e a Foggia 12.326 (quasi cinque volte in più): cos’è più rappresentativo?
Che conclusioni trarne? Non certo che Elly Schlein debba snobbare questi iscritti. Ma deve essere ben consapevole che hanno caratteristiche peculiari e limitate: semplicemente non sono il partito (o tutto il partito). E magari partire da qui per proporre linee di riforma, nell’organizzazione e nelle procedure democratiche interne, che possano tornare a dare un valore e un senso all’adesione al partito e tornare a far aumentare il numero degli iscritti.
Altri sono i problemi con cui Elly Schlein deve misurarsi. E una questione pare emergere dal dibattito: come farà Elly Schlein a tenere unito il partito?
Sembra che le possibili alternative siano due: o la nuova segretaria rimane fedele alle sue promesse di radicalità e nettezza delle posizioni, e allora il partito si sfascia, o cerca di tenere insieme tutto, e allora il partito forse regge (ma poi quanto chiara e attrattiva sarà la sua posizione?).
È una falsa alternativa. Costruire la coesione del partito non significa annacquare la linea, rendendola infine incoerente e incomprensibile: significa arrivare ad una decisione sulla base di un percorso di discussione e di confronto quanto più ampio possibile, che dia voce e spazio a tutte le posizioni, che tenga conto delle idee di tutti, ma che alla fine valuti quale sia la tesi prevalente e quella da sostenere nel dibattito pubblico.
È un processo democratico e inclusivo quello che soltanto può dare legittimità ad una decisione e che la può rendere accettabile anche a coloro che non la condividono. Responsabilità di una vera leadership non è tagliare il nodo di Gordio, e costringere tutti o all’ubbidienza o alla rottura, ma coinvolgere saperi e opinioni, esperienze e competenze: dare un senso davvero all’idea di un partito che valorizzi l’intelligenza e la saggezza collettiva.
Per questo, tra i compiti più urgenti che ha di fronte Elly Schlein vi è anche quello di modificare radicalmente il modo di discutere e di decidere del partito. Se ne riparlerà