Foibe Il Giorno del Ricordo nasce fin dall’inizio in contrapposizione al 25 aprile, nella logica di una presunta “pacificazione nazionale” secondo la quale ognuno degli schieramenti che si erano confrontati nella seconda guerra mondiale avrebbe dovuto avere la sua celebrazione
Sono passati vent’anni dalla prima celebrazione del Giorno del Ricordo e due e mezzo da quando le forze politiche che l’hanno voluto governano il Paese. È possibile provare a tirare le somme, capire se questa data memoriale ha raggiunto il suo obiettivo originario.
E qual è il messaggio che sta veicolando nell’opinione pubblica. Fin dalla sua ideazione, il Giorno del Ricordo aveva carattere prettamente ideologico, non storico. La complessità delle dinamiche che hanno portato alla violenza di fine guerra al confine italo-jugoslavo era e rimane sostanzialmente sconosciuta. Ma le forze neofasciste che avevano sempre strumentalizzato tale violenza avevano altri scopi.
L’obiettivo principale era criminalizzare il comunismo in generale e la resistenza jugoslava in particolare. E, indirettamente, riabilitare il regime fascista, rappresentando i suoi fautori come vittime ed eroici difensori dei sacri confini della patria. Il Giorno del Ricordo nasce quindi fin dall’inizio in contrapposizione al 25 aprile, nella logica di una presunta “pacificazione nazionale” secondo la quale ognuno degli schieramenti che si erano confrontati nella seconda guerra mondiale avrebbe dovuto avere la sua celebrazione e i suoi martiri da commemorare.
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Il futuro oltre il confine feritoL’accostamento al Giorno della Memoria, per vicinanza temporale e linguistica, serviva invece a proporre un’equiparazione, poi ribadita esplicitamente infinite volte, tra le foibe e i crimini nazisti. Con il triplice scopo di relativizzare la Shoah, equiparare le ideologie novecentesche e criminalizzare chiunque metta in dubbio la narrazione ideologica delle foibe attraverso una corretta ricostruzione storica. Chi evidenzia ad esempio le responsabilità fasciste nella spirale di violenza sul confine orientale sta “giustificando” un crimine analogo alla Shoah e finisce quindi nel girone infernale dei “negazionisti”, senza più diritto di parola.
La narrazione vittimista delle violenze al confine orientale (quella dello sterminio anti-italiano e della presunta “pulizia etnica”) era già presente nel
testo della legge ed è stata poi veicolata negli ultimi vent’anni da mass media e politici di tutti gli schieramenti parlamentari.
Essa è stata favorita dall’ignavia delle forze politiche non fasciste e da una convergenza di interessi che si è rivelata, a lungo andare infruttuosa se non controproducente. La criminalizzazione dei partigiani jugoslavi ha finito per coinvolgere la Resistenza in sé e l’antifascismo in generale, diffondendo l’idea che gli unici veri patrioti in Italia siano stati, e siano tuttora, i fascisti e i loro eredi. Tra le vittime illustri anche il presidente più amato, Sandro Pertini, a cui il comune di Lucca ha negato due anni fa l’intitolazione di una via perché «è stato un partigiano».
Oggi, a sentire la comunicazione mainstream, il 25 aprile è diventata una data “divisiva”, mentre la vera “festa degli italiani” è il 10 febbraio, quando le istituzioni si recano a Basovizza circondate da gagliardetti della X Mas e i sindaci consegnano onorificenze agli eredi di militi o poliziotti fascisti condannati dalla Resistenza jugoslava a fine guerra.
«Non meritano tutta questa attenzione, la battaglia delle foibe è vinta», twittava un militante di estrema destra all’uscita del mio libro, nel 2021, invitando i camerati a evitare inutili allarmismi. Difficile dargli torto. Ma come sempre ai fascisti non basta vincere; vogliono umiliare gli avversari, negargli diritto di parola, cancellarne il ricordo.
Negli ultimi anni le forze di governo non hanno smesso di implementare costantemente la propaganda su questo tema: dal Museo delle Foibe previsto a Roma, al Treno del Ricordo che dall’anno scorso fa tappa in diverse città italiane; dai film, programmi e documentari continuamente riproposti in televisione, fino ai viaggi del Ricordo organizzati gratuitamente nelle scuole dalle associazioni di esuli monopolizzate dai meloniani e lautamente finanziate con soldi pubblici. E naturalmente aumentano le aggressioni verbali e fisiche, i tentativi di censura, le intimidazioni, le offese, le minacce a chi cerca di raccontare storicamente la vicenda.
Spero di non sbagliarmi, ma ho la sensazione che tutto questo sforzo propagandistico abbia avuto un altro effetto, non sperato né desiderato: una reazione antivirale, la definirei, in difesa della verità storica e dei valori della Resistenza e della Costituzione. Sempre più spesso, in occasione del giorno del Ricordo circoli culturali di vario genere, forze politiche democratiche e sezioni Anpi di tutta Italia organizzano dibattiti, conferenze, mostre per sensibilizzare l’opinione pubblica e contrastare la disinformazione di Stato. Certo si tratta di uno sforzo che difficilmente può competere con la macchina comunicativa governativa.
E tuttavia nasce dal basso, da un impulso verso la conoscenza presente nella società, da una reazione spontanea alla brutalità della propaganda.
Tutto questo lascia ben sperare, ci consente di affermare che se la campagna di disinformazione storica è al suo apice, una parte sempre crescente di opinione pubblica ne sta identificando le crepe e svelando gli scopi. Certo questa resistenza culturale ha bisogno di appoggi, soprattutto politici: perché difendere la verità storica, in questo caso, significa anche difendere i valori fondanti della nostra democrazia.