Unione europea e Italia festeggiano la firma dell’intesa con la Tunisia che dovrebbe fermare le partenze dei migranti ma nel paese continuano le violenze contro i subsahariani, centinaia dei quali sono ancora abbandonati nel deserto. Il Consiglio d’Europa chiede «maggiori garanzie sui diritti umani»
COMMENTI. La firma del Memorandum d’intesa tra la Tunisia e l’Unione europea per un «nuovo partenariato per affrontare la crisi migratoria», è un «modello» nelle relazioni con i paesi nordafricani, secondo […]
Giorgia Meloni in Tunisia saluta il presidente Kais Saied - foto LaPresse
La firma del Memorandum d’intesa tra la Tunisia e l’Unione europea per un «nuovo partenariato per affrontare la crisi migratoria», è un «modello» nelle relazioni con i paesi nordafricani, secondo quanto sostenuto dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, rimane all’interno di vecchie logiche, improntate alla cosiddetta «condizionalità migratoria», già lanciate in Europa ai tempi di Sarkozy, ma che oggi hanno dimostrato un fallimento completo. Come del resto si era già dimostrata una prospettiva perdente lo scambio tra una manciata di ingressi legali ed una maggiore disponibilità nelle politiche di rimpatrio forzato, già al centro degli accordi conclusi nel 1998 da Napolitano con la Tunisia di Ben Alì.
La Tunisia beneficiava già, dopo l’Accordo di Associazione (firmato dalla Tunisia – primo dei Paesi dell’area – già nel 1995 ed entrato in vigore nel 1998 di aiuti da parte dell’Unione Europea con il cd. Strumento Europeo di Vicinato e Partenariato (ENPI), che fornisce assistenza ai Paesi destinatari della Politica Europea di Vicinato. Il Piano Indicativo Nazionale 2011-2013, ad esempio, stanziava a favore della Tunisia 240 milioni di euro destinati a riforme politiche per democrazia, diritti umani, stato di diritto e buon governo; gestione dei flussi migratori e dell’asilo, lotta al crimine organizzato, al terrorismo e al riciclaggio; sviluppo di condizioni propizie all’investimento privato; sviluppo sostenibile ambientale, sociale ed economico; sostegno all’istruzione, alla formazione superiore e alla ricerca; rafforzamento dei programmi sociali; agevolazioni per lo scambio di beni e servizi; sviluppo dei trasporti, del settore energetico e della società dell’informazione. Oggi siamo rimasti a questa stessa generica enunciazione di
principi.
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La «linea Meloni sulle migrazioni», dunque, non è affatto nuova. Si possono ricordare il Processo di Khartoum ed i Migration Compact lanciati da Renzi nel 2014 alla fine dell’operazione Mare Nostrum. Oppure si può paragonare il Memorandum d’intesa concluso da Gentiloni e Minniti con il governo di Tripoli nel febbraio del 2017, o gli accordi intergovernativi del 2016 tra gli Stati europei e la Turchia, con il Memorandum d’intesa concluso ieri tra la Tunisia e l’Unione Europea.
Non ci sono nuovi impegni operativi vincolanti, ma solo dichiarazioni di principio, che adesso, come ha dichiarato la Meloni «dovranno essere messe a terra». Forse si spera in ulteriori progressi con la visita a Roma del ministro dell’interno tunisino prevista per i prossimi giorni, o con la Conferenza dei capi di governo africani che la Meloni ha indetto per domenica 23 luglio a Roma.
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Manca di certo nel Memorandum d’intesa l’obiettivo principale che si proponeva il governo italiano: la possibilità di riportare in Tunisia, dopo «procedure accelerate in frontiera» i migranti sub-saharani arrivati in Italia dopo essere transitati da quel paese. In Tunisia non hanno ancora dimenticato l’esperienza fallimentare, un vero disastro umanitario, che si verificò dal 2011 al 2013, quando in collaborazione con l’Unhcr venne istituito il campo di transito di Choucha, vicino a Ben Guardane, alla frontiera con la Libia. Saied ha imposto nel Memorandum la clausola secondo cui la Tunisia non diventerà piattaforma per i rimpatri dall’Unione europea, ed ha ottenuto invece una promessa di supporto dall’Unione europea, per i respingimenti collettivi che già sta attuando verso i paesi confinanti.
Non si vede però come l’Unione Europea, anche attraverso Frontex, possa partecipare con il supporto finanziario, se non operativo, ad operazioni di intercettazione in mare o di rimpatrio forzato in violazione del divieto di respingimenti collettivi o degli obblighi di soccorso e di sbarco in un porto sicuro affermati dal Regolamento UE n.656 del 2014. La Tunisia non è oggi un «paese terzo sicuro» per la maggior parte degli Stati membri dell’Ue.
Le prassi attuate dalla polizia tunisina ed i respingimenti collettivi nel deserto, ai confini con la Libia e l’Algeria, sono in contrasto con gli standard minimi di tutela dei diritti fondamentali della persona sanciti dalle Convenzioni internazionali. La collaborazione nelle attività di ricerca e salvataggio (SAR) con le autorità tunisine non si potrà certo risolvere nella delega di ulteriori respingimenti collettivi, sempre che la guardia costiera tunisina voglia davvero riportare a terra tutti i migranti subsahariani in fuga verso l’Europa.
Quello che continua a mancare è una vera organizzazione di ricerca e soccorso europea che costringa gli Stati costieri a salvare vite umane ed a garantire un porto di sbarco sicuro. Una maggiore «effettività» delle politiche di rimpatrio, in assenza di consistenti canali legali di ingresso in Europa e di possibilità realistiche di evacuazione dei migranti sub-sahariani, come pure un contrasto più violento dei tentativi di attraversamento del Mediterraneo, non potranno che fare esplodere altro conflitto sociale in Tunisia e travolgere le sue relazioni con i paesi dell’area subsahariana, come la Costa d’Avorio ed il Gambia