Atteso oggi l’annuncio della tregua a Gaza. Sul tavolo lo stesso accordo proposto da Joe Biden a maggio: nel mezzo il massacro di decine di migliaia di palestinesi e l’abbandono degli ostaggi. Israele ha aspettato l’arrivo di Trump: un regalo di benvenuto in cambio della mano libera in Cisgiordania
Medio Oriente Atteso per oggi l’accordo tra Hamas e Israele. L’ultradestra protesta ma non troppo: si passerà all’incasso sulla Cisgiordania con il nuovo presidente Usa. Blinken parla del futuro di Gaza e piange i civili uccisi. Contestato: «Sei il segretario del genocidio»
Ragazzi palestinesi davanti a un edificio residenziale distrutto da un raid israeliano a Deir al-Balah – Ap/Abdel Kareem Hana
L’ufficialità della tregua è rimandata. Dovrebbe arrivare oggi dopo il meeting in notturna del gabinetto israeliano e dopo il definitivo via libera di Hamas che ieri sera diceva di non aver ancora ricevuto la mappa del ritiro israeliano.
SI È CONCLUSA così la lunghissima giornata d’attesa della fine della mattanza a Gaza, ore segnate da un profluvio di parole. Dopo mesi di silenzi e negazione della realtà, all’improvviso hanno tutti qualcosa da dire. Le parole probabilmente più oneste le aveva pronunciate lunedì Yehuda Cohen, padre di Nimrod Cohen, soldato di 19 anni morto a Gaza.
In un incontro alla Knesset ha accusato il primo ministro Benjamin Netanyahu di «crimini di guerra» nella Striscia e di «ideologia assassina che viola il diritto internazionale». «Si chiama fascismo», ha gridato Cohen dicendo di sostenere il mandato d’arresto contro il premier emesso lo scorso novembre dalla Corte penale internazionale.
Netanyahu ieri pomeriggio ha incontrato il Forum delle famiglie degli ostaggi che un accordo lo chiedono da mesi, memori della prima tregua, nel novembre 2023, che permise di liberare (vivi) 105 ostaggi, contro gli otto liberati con la forza e un prezzo di sangue enorme pagato dai palestinesi. Ieri hanno ribadito la richiesta: si lavori subito alla seconda fase dell’accordo. Non si fidano.
Secondo il piano reso noto ai media dai negoziatori, nei primi 42 giorni saranno rilasciati 33 dei 98 ostaggi totali (donne, bambini, malati) e 50 prigionieri politici palestinesi per ogni donna soldata e 30 per ogni civile. Israele manterrà il controllo del corridoio Filadelfia tra Gaza ed Egitto (più volte ritenuto inutile dall’esercito ma usato da Netanyahu per far deragliare il negoziato di maggio) ma inizierà a ritirarsi dal corridoio Netzarim, che taglia Gaza in due. Un milione di palestinesi sfollati dal nord saranno autorizzati a rientrare, sotto la supervisione di una forza terza (Egitto e Qatar?) per verificare che non portino con sé armi. Dai valichi di terra arriveranno 600 camion di aiuti al giorno.
NELLA SECONDA FASE (di durata non definita) si negozierà il rilascio dei restanti ostaggi vivi e dei corpi dei morti e la liberazione di un numero non ancora noto di prigionieri palestinesi (probabilmente un migliaio, tra loro anche condannati all’ergastolo che finiranno deportati all’estero). Il ritiro definitivo delle truppe israeliane avverrà solo dopo il ritorno in Israele di tutti gli ostaggi. La terza fase sarà dedicata al
meccanismo di ricostruzione di Gaza e della sua futura governance.
Insomma, sul tavolo c’è una tregua di sei settimane pressoché identica alla proposta mossa da Joe Biden nel maggio scorso. Quella fu ripetutamente bombardata dall’aviazione israeliana su ordine del governo Netanyahu. Più di un osservatore si chiedeva ieri a cosa fosse servito prolungare di altri otto mesi il genocidio di Gaza senza ottenere qualcosa in più. È servito se l’obiettivo è politico, prima che militare: renderlo un luogo invivibile e liberarsi le mani per quando si passerà all’incasso, l’annessione della Cisgiordania, per la quale serve il via libera statunitense (e dunque Donald Trump, sull’uscio della Casa bianca).
Trump, da parte sua, si intesta da giorni il risultato, seppur l’ufficialità non ci sia ancora: la giornata è trascorsa tra i ripetuti annunci di «accordo sull’orlo», «accordo imminente», «accordo a un passo» che rimbalzavano tra Washington e Doha. Tra coloro che ieri avevano una gran voglia di parlare c’era il segretario di stato Usa Antony Blinken.
In un discorso all’Atlantic Council si è detto certo del raggiungimento del cessate il fuoco, ha snocciolato i passaggi per il dopoguerra (il ritorno a Gaza dell’Autorità nazionale palestinese dopo un’amministrazione ad interim supervisionata dalla comunità internazionale e da truppe straniere – chissà che ne pensa Israele) e ha espresso dolore per i civili morti a Gaza, senza specificare da chi sarebbero stati ammazzati, esercito israeliano e/o armi statunitensi. Anche per questo il discorso-fiume è stato interrotto da un manifestante: «Sarai ricordato per sempre come il segretario del genocidio», gli ha urlato.
Blinken ha poi affrontato l’elefante nella stanza, la riduzione della Cisgiordania a un colabrodo: ha detto a Tel Aviv che può scordarsi di annettere quel territorio «senza subire conseguenze» e ha criticato l’alleato che «espande colonie e nazionalizza terre a una velocità mai vista nel decennio precedente».
TOO LITTLE, TOO LATE. Perché è lì, in Cisgiordania, che si gioca il futuro della regione. Lo sa bene l’ultradestra israeliana che ieri ha continuato a battere i piedi contro il negoziato ma – è opinione condivisa da esperti israeliani e membri della maggioranza di governo – non si metterà davvero di traverso: né Itamar Ben-Gvir né Bezalel Smotrich faranno cadere Netanyahu e l’occasione di una vita. Non voteranno l’accordo, che passerà comunque, ma resteranno nella maggioranza.
C’è da concentrarsi su un futuro che è già presente: lunedì Smotrich ha approvato un nuovo meccanismo per ampliare le colonie nella Cisgiordania occupata. I permessi di costruire nuovi edifici saranno rilasciati settimanalmente, non serviranno più mesi di attesa.
Una conferma ufficiosa giungeva ieri sera da Channel 12: l’entourage di Netanyahu avrebbe offerto a Smotrich delle «compensazioni», ovvero misure per rafforzare la presenza israeliana in Cisgiordania.