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Stati Uniti Dal 2022 hanno dato vita a scioperi eccezionali per durata, popolarità e conquiste. E ora?

Il voto dei lavoratori, le «unions» tra rinascita e trumpizzazione Minnesota, operai edili a un comjzio democraticofoto – Ap/Carlos Osorio

Bisognerà cominciare a ripescare dalla fanghiglia di questi giorni i fili che i primi quattro anni di Trump avevano sciolto e Biden non è riuscito a riannodare. A partire dalla società che un giornalista del New York Times aveva definito “sfilacciata”.

Nella società dove è stato lo stesso Trump, e non Harris, a fare una prima ricucitura. I sondaggi preelettorali, a cui dovremo abituarci a non credere, ci avevano detto che sarebbe stato un testa a testa e fatto ritenere possibile che la perbene vincesse sul permale. Errore. In una società che perde lavoro, bussola e memoria vince il demagogo.

Al di là delle certezze istituzionali, cioè che ora Trump comanda ovunque (probabilmente anche nella Camera dei rappresentanti), tutte le prime analisi sono provvisorie. Spiccano comunque i numeri del voto popolare: Trump ha vinto con uno scarto a suo favore di cinque milioni di voti, ribaltando i sette milioni in meno del 2020, quando fu sconfitto da Biden. Anche ora come allora la mobilitazione degli elettori è stata alta e generale: nella maggioranza degli stati ha superato il 65%.

Quasi ovunque ha premiato Trump e i repubblicani e dove la maggioranza è andata ai democratici – negli stati, nei gruppi sociali e nei centri metropolitani tradizionalmente “blu” – le quantità dei voti sono state più basse che in passato. La sconfitta è brutale.

Non si ha un risultato/rovesciamento così eclatante se non in seguito al raggiungimento di uno stato di crisi sociale-culturale drammatico. Imprevedibile? No. L’evoluzione plutocratica o oligarchica della società aveva già messo in crisi il sistema democratico. Nel 2021, proprio all’inizio del suo mandato, Biden aveva detto che la democrazia americana è «fragile». E aveva cercato di restaurarla con un progetto “rooseveltiano” di riforma sociale e ridistribuzione dei redditi, denunciando i danni prodotti dal neoliberismo («l’esperimento quarantennale che ha fallito»). La sinistra interna al suo partito l’aveva appoggiato, il resto no, e Biden è stato costretto alla prima sua marcia indietro. La seconda è stata quella di mesi fa, che ha lasciato la corsa finale a Kamala Harris. Ora con Trump quello che rimane della democrazia è più fragile che mai.

Dopo l’uscita dalla pandemia, non sono stati pochi a gridare che i lavoratori «non ne possono più»: anzitutto i lavoratori in prima persona, scegliendo una nuova combattività rivendicativa e l’abbandono di milioni di posti di lavoro malsicuri e a basso salario, e insieme a loro intellettuali e ricercatori vicini al mondo del lavoro e molte sigle sindacali. Tra il 2022 e oggi hanno dato vita a scioperi eccezionali, vecchio stile per durata, popolarità e portata degli ottenimenti. Eppure ha vinto Trump, che di sicuro non è «amico del lavoratori».

La contraddizione è evidente; d’altro canto, non è l’unica. La crescita delle “incoerenze” nei comportamenti ha investito tutte le componenti sociali: le donne, gli ispanici, gli afroamericani, i lavoratori (bianchi e di colore, maschi e femmine, giovani e anziani, diplomati e no, sindacalizzati e no…). Le cronache meno superficiali hanno parlato per anni della “crisi epistemica” strisciante e della distruttività di disuguaglianze sociali, di precarizzazione del lavoro e delle vite, di individualismo e di solitudini, di crisi identitarie, di violenze, di oppioidi e overdose e suicidi. Di milioni la cui condizione sociale non si sposta di una virgola verso l’alto da mezzo secolo. Tutto va tenuto in conto.

Questo è il paese senza memoria – si ripassino le promesse fatte da Trump nel 2016 – cui ha parlato il demagogo, promettendo per la seconda volta di risolvere ogni problema, per ognuno. Senza la confusione mentale di questi tempi – non solo in America, naturalmente – non avrebbe vinto.

Tra chi non gli ha creduto ci sono i dirigenti sindacali che hanno dato organizzazione alla combattività delle loro basi in questi ultimi anni. Non è del tutto così per i lavoratori. La contraddizione che attraversa anche loro non è immune dalla confusione dominante, ma si spiega anche in altro modo. Come dappertutto, è una doppia logica che guida i loro comportamenti: il legame alla propria organizzazione sindacale è una cosa, il rapporto con la politica e il voto è un’altra. Il primo tiene, soprattutto nelle fasi di rivendicazioni e di lotta, com’è l’attuale; il secondo è volubile. Poi però: la percentuale nazionale della sindacalizzazione è al 10%. Infine, anche se gli iscritti sindacali e i loro familiari votano al 60% per i democratici, tra i tanti non sindacalizzati (soprattutto nel Sud e nei 27 stati con le right to work laws, le leggi antisindacali) il voto si divide, metà e metà.

Ora ci si domanda quale sarà l’evoluzione delle dinamiche di conflittualità, di mobilitazione e rivendicazione, che il mondo del lavoro ha messo in campo in questi ultimi anni. Se avrà seguito la resurgence, la rinascita del movimento sindacale ora evidente, oltre che negli scioperi, anche nella crescita della “popolarità” delle unions (che precede la crescita degli iscritti), delle richieste di elezioni per l’introduzione del sindacato nei singoli luoghi di lavoro, delle denunce contro le aziende per i loro comportamenti antisindacali. Si vedrà se nelle nuove condizioni, prevedibilmente così avverse, sarà ancora possibile dare una risposta di speranza alla domanda che si poneva qualche mese fa una rivista di sinistra: «Sarà in grado il movimento sindacale di ricostruire la nostra democrazia?»