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Dopo il voto. L’entusiasmo con cui si è commentata l’affermazione del centro-sinistra, nasconde la dissoluzione del «popolo» dei 5Stelle che ha alimentato l’astensione

Un'opera di Fernand Leger

 

Un'opera di Fernand Leger

Il comprensibile entusiasmo con cui il centro-sinistra (Cs) sta guardando ai risultati delle comunali del 3-4 ottobre sta portando a ritenere che quel «ciclo elettorale» iniziato ormai più di un lustro fa si sia concluso. Se quel «ciclo», che aveva visto l’affermazione del «populismo egalitario» dei 5 Stelle accanto a quello «sovranista» della Lega, starà forse estinguendosi, non per questo sono i consensi del Cs ad aumentare, forse perché le ragioni che ne avevano sancito il successo sono ancora tutte lì.

I 5 Stelle – che già dal 2013 avevano iniziato ad attrarre fino a un quarto dell’elettorato – avevano avuto il merito di coagulare attorno a sé il malcontento di quella fascia di elettori delusa dal Cs, e dal Pd in primis, e dalla svolta neo-liberista cui questo aveva accondisceso: i ceti medio-bassi delle aree urbane e peri-urbane dei giovani adulti precari e sotto-pagati del centro-nord, i ceti medio bassi di città e periferie del meridione. La geografia politica di questa tornata elettorale è, com’è naturale, variabile e articolata. L’aritmetica dei voti espressi e non espressi, tuttavia, offre più di un’indicazione (come ha colto Andrea Fabozzi sul manifesto del 5 ottobre).

Ha un bel da affermare Enrico Letta «che rivincita su chi criticava il Pd!», ma il fatto è che non uno degli elettori che il suo partito aveva perso cinque anni fa pare essere «tornato all’ovile». Perché è la politica del Pd e del Cs tutto che non è cambiata ed è la percezione sulle sue direttrici di fondo che non è mutata. Gli esclusi sono rimasti tali e i commentatori possono pure intonare i soliti «peana» sull’astensionismo. Una partecipazione al voto più bassa di sempre – soprattutto nelle grandi città, dove si afferma il Cs – non è solo «disaffezione». Dissoltasi l’illusione pentastellata – com’era prevedibile, sia per come un classe dirigente inadeguata era stata selezionata che per l’inconsistente e confusa pratica politica messa in atto – l’elettore che, frustrato, emarginato e non rappresentato dalla sinistra, aveva guardato all’universo illuminato dalla stella di Beppe Grillo, si è definitivamente allontanato.

Guardiamo ai numeri delle grandi città. A Bologna, portata ad esempio di un «nuovo» Cs esteso, dalla sinistra ai 5 stelle al Pd ai moderati inclusi i verdi, la coalizione porta a casa 92mila voti. Nel 2016, pur divisa, ne aveva raccolti quasi 110mila. I votanti, che erano stati più di 179mila, scendono di 22mila unità. E mentre i 5 Stelle si dissolvono, perdendo 23mila voti (i cinque sesti), il Pd mantiene i suoi, forse prendendone a sinistra e al centro, senza però guadagnarne uno in più dagli ex elettori «grillini» che, evidentemente, preferiscono astenersi.

A Roma, in un quadro più complicato, non pare esservi un trend differente. Nel 2016, i votanti al primo turno erano stati 1.348mila, oggi sono quasi 200mila in meno. I consensi dimezzati di Virginia Raggi (220mila voti in meno) non compensano i 150mila voti in più dei candidati Gualtieri e Calenda rispetto a quelli di Pd e sinistra 5 anni prima, spartendosi questi il voto di sinistra e di centro (il centro-destra è in calo). È il Pd che non attira gli elettori 5 Stelle.

A Torino, i votanti sono calati di 67mila unità. Cinque anni fa, al primo turno, il candidato Pd aveva ricevuto 160mila voti, contro i 118mila della Appendino (M5S), perdendo poi al secondo turno. Oggi, il candidato di Cs ne raccoglie 140mila, quello del Cd 124mila, mentre la candidata pentastellata si ferma a 28.700. È chiaro come, anche in questo caso, l’elettore 5 Stelle abbia preferito astenersi o votare a destra che scegliere diversamente.

A Napoli, con 60mila votanti in meno del 2016, Gaetano Manfredi, sostenuto da una eterogenea coalizione, è stato eletto al primo turno. Il Pd ottiene 39mila voti (ne aveva 44mila) e i 5 Stelle 31mila (ne avevano 36.500). A Milano, con quasi 60mila votanti in meno, Sala è passato anch’egli al primo turno, il Pd ottiene 152mila voti (appena 6mila in più), mentre Sinistra per Milano perde 8mila voti dei 19mila che aveva. Il candidato 5 Stelle si ferma a 13mila (ne aveva 54mila).

In sostanza, dove i 5 Stelle avevano capitalizzato un considerevole consenso, come a Roma o a Torino, si sono dissolti e i loro elettori si sono dispersi, per lo più astenendosi. A Napoli, dove pure hanno mantenuto una loro base modesta, e a Bologna, dove sono praticamente svaniti, risultano ininfluenti al successo del candidato del Cs. E il Pd non avanza nel numero dei consensi se non a Milano, più a spese della sinistra che dei 5 Stelle.

L’entusiasmo per il risultato di oggi appare dunque eccessivo: gli elettori che avevano scelto i 5 Stelle sono ancora ben lontani da riconoscersi nel «nuovo corso». Perché le ragioni della loro lontananza sono ancora tutte lì e il sostegno del Cs a Draghi e alle sue scelte sulla distribuzione, sul lavoro e sull’inclusione non fa nulla per accorciarle. Quei ceti medio bassi urbani e periferici degli esclusi e dei «non protetti» che avevano dato il loro consenso al populismo egalitario 5 Stelle sono ancora fuori dal radar del «nuovo» centro-sinistra. Che dovrà ripensarsi a fondo prima che, magari, arrivi un «Trump de noantri» a richiamarli.