Le giaculatorie della Lega con le ricorrenti richieste di pene più severe e di trattamenti penali più afflittivi e di riduzione delle garanzie giudiziarie sono rivolte esclusivamente nei confronti dei soggetti deboli (immigrati, rom, clochard). Ad esse fa da contrappeso una accanita resistenza quando l’azione giudiziaria lambisce i colletti bianchi o il ceto politico.
Con il deposito dei quesiti in Cassazione è iniziato il percorso dei sei referendum sulla giustizia promossi dal partito radicale e dalla Lega. Ci si potrebbe stupire di una iniziativa congiunta da parte di forze politiche che esprimono opzioni politico-culturali profondamente differenti sui temi della giustizia e dei diritti dei cittadini; opzioni che secondo un linguaggio corrente, vengono qualificate con le espressioni contrapposte di giustizialismo/garantismo. Si tratta di qualificazioni tanto imprecise quanto scorrette.
In realtà il c.d. “giustizialismo” della Lega (e di Fratelli d’Italia) e il c.d. “garantismo” coltivato dai radicali (e da Forza Italia) sono due facce della stessa medaglia. Le giaculatorie della Lega con le ricorrenti richieste di pene più severe e di trattamenti penali più afflittivi e di riduzione delle garanzie giudiziarie, sono rivolte esclusivamente nei confronti dei soggetti deboli (immigrati, rom, clochard), ad esse fa da contrappeso una accanita resistenza quando l’azione giudiziaria lambisce i colletti bianchi o il ceto politico. Per converso l’esasperazione dei radicali per le garanzie procedurali lascia trasparire una forte diffidenza per l’esercizio della giurisdizione.
Queste due culture politiche sono convergenti nell’esigenza di “addomesticare” l’esercizio della giurisdizione per superare lo scandalo del “potere diviso”, cioè quello snodo insuperabile di pluralismo istituzionale rappresentato dal sistema di indipendenza del potere giudiziario che, secondo il disegno costituzionale, non può essere assoggettato né condizionato dall’esercizio dei poteri politici di governo, né da nessun altro potere. A ben vedere si tratta di un’esigenza diffusamente condivisa. Nel suo libro “Magistrati” pubblicato nel 2009, Luciano Violante richiama la concezione della magistratura formulata quattro secoli prima dal filosofo inglese Francis Bacon, secondo il quale: «I giudici devono essere leoni, ma leoni sotto il trono». In altre parole l’esercizio della funzione giudiziaria deve essere compatibilizzato con l’esercizio del potere politico sovrano.
Non v’è dubbio che il modello di giudice, leone sotto il trono, è quello preferito dal sistema politico. I leoni sotto il trono sono feroci verso chi è sgradito al Sovrano: l’esempio è quello di un PM siciliano che sequestrò una nave di una ONG, contestando al capitano la fantastica accusa di violenza privata nei confronti del Governo italiano per averlo “costretto” ad accettare lo sbarco dei migranti salvati nel Mediterraneo. All’occorrenza questi leoni si trasformano in cagnolini quando si trovano di fronte agli abusi del Sovrano: l’esempio è quello di un altro magistrato siciliano che, a fronte della condotta di un politico che – secondo il Tribunale dei Ministri – integrava astrattamente gli estremi del reato di sequestro di persona, ha disposto l’archiviazione, invocando – a contrario – la separazione dei poteri. Certamente al leone sotto il trono non verrà mai in mente di mordere la mano del padrone. Come si fa a far rientrare i leoni sotto il trono? La risposta ce la danno i sei quesiti per i quali è stato richiesto il referendum.
Ci sarà tempo per esaminare nello specifico ciascun quesito e per valutarne l’ammissibilità sotto il profilo costituzionale. Quello che vogliamo rilevare in questa sede è che tutti e sei i quesiti sono convergenti verso lo stesso risultato attraverso gli obiettivi:
- di indebolire l’indipendenza di ciascun magistrato (quesito sulla responsabilità civile diretta);
- di manipolare l’esercizio dell’azione penale, creando le condizioni per sottoporre il PM al potere politico (quesito sulla separazione delle carriere);
- di restringere la possibilità di coercizione penale nei confronti dei colletti bianchi (quesito sulla custodia cautelare);
- di garantire “l’agibilità politica” delle istituzioni da parte del ceto politico-amministrativo che incorra in condanne penali (quesito sull’abrogazione della legge Severino);
- di complicare la vita al Consiglio Superiore della Magistratura (quesito sulla abolizione della raccolta firme per la presentazione delle candidature);
- di manipolare le carriere dei magistrati (quesito sui Consigli Giudiziari).
In una situazione in cui si registra una forte crisi di credibilità della magistratura, dovuta a scandali vari, ampiamente valorizzati dai media, questo potrebbe essere il momento giusto per assestare un colpo mortale al progetto costituzionale, che ha voluto un giudice indipendente a garanzia dei diritti fondamentali dei cittadini, operando una virata verso un sistema autoritario in cui le autorità di governo controllino l’esercizio della giurisdizione, secondo il modello Lukashenko. Quando questo progetto sarà compiuto, forse ci sarà ancora un giudice a Berlino (come invocato dal mugnaio di Potsdam) ma certamente non ci sarà più un giudice a Roma o a Milano capace di difendere i nostri diritti contro gli abusi dei potenti.
Domenico Gallo
da MicroMega.net