Parla il segretario generale della Cgil: "Non vogliamo lo scontro, è il momento di coesione e responsabilità, ma anche da parte delle imprese". Se si perde il treno degli aiuti della Ue "non ci sarà un secondo tempo e tra qualche anno saremo fuori dall’Europa e in declino industriale".
MILANO — «Tutti i licenziamenti vanno bloccati fino a fine anno e i contratti nazionali devono essere rinnovati. Altrimenti per Cgil, Cisl e Uil sarà sciopero generale». La partita del lavoro, malgrado le aperture del governo, è a un bivio decisivo e Maurizio Landini, segretario generale della Cgil, lancia un appello all’unità: «Non vogliamo lo scontro, è il momento di coesione e responsabilità, anche delle imprese». Perché se si perde il treno degli aiuti della Ue «non ci sarà un secondo tempo e tra qualche anno saremo fuori dall’Europa e in declino industriale».
Perché è necessario prorogare lo stop ai licenziamenti?
«Dovrebbe essere chiaro a tutti che subire un licenziamento per una persona è un dramma. Il lavoro, anche nei ruoli più umili ed essenziali, ci ha fatto uscire dalla fase più drammatica della pandemia. Non puoi ringraziare le persone che hanno fatto il loro dovere in questo periodo dicendo che ora possono anche essere licenziate. È un linguaggio sbagliato. Oggi è il momento della coesione. La precarietà introdotta negli ultimi vent’anni - mettendo in discussione conquiste e diritti - non ha prodotto posti né migliorato la produttività delle aziende».
Il governo sembra disposto a venirvi incontro e a cercare un compromesso. Che margini di manovra ci sono?
«La nostra posizione è il blocco dei licenziamenti per tutti fino a fine dicembre, con due possibili eccezioni: le imprese che cessano per messa in liquidazione e se si fanno accordi sindacali fondati sull’adesione volontaria. Altrimenti c’è la mobilitazione. Non ci convincono nemmeno gli incentivi ad aziende che non usano più cassa integrazione. Sono soldi pubblici usati male. Se non fai cassa vuol dire che hai lavoro».
Confindustria dice che il blocco dei licenziamenti è costato il posto a 500 mila precari…
«La pandemia ha svelato le diseguaglianze create in vent’anni di precarietà e di finanziarizzazione dell’economia. Non possiamo sottovalutare il rischio di frattura sociale. Le migliaia di persone che hanno perso il posto sono un motivo in più per chiudere queste ferite anche perché purtroppo non siamo fuori dall’emergenza. Noi non chiediamo solo di bloccare i licenziamenti. Vogliamo discutere subito un nuovo modello di sviluppo con ammortizzatori sociali universali per eliminare la precarietà. E sarebbe bene che tutto il mondo che rappresenta le imprese facesse la sua parte. Chiedere lo stop ai licenziamenti e non firmare i contratti di sanità privata e settore alimentare, come fa Confindustria, mi sembra un modo di pensare regressivo, sbagliato e pericoloso sul piano sociale».
È possibile lavorare con la Confindustria di Bonomi?
«Cominci a firmare i contratti nazionali. Non facendolo si assume la responsabilità di aprire uno scontro sociale di cui noi non sentiamo il bisogno. Abbiamo chiesto al governo di defiscalizzare gli aumenti salariali dei contratti nazionali e Confindustria potrebbe chiederlo con noi e lo stesso potrebbe fare spingendo per una legislazione che dia validità generale ai contratti nazionali».
Qual è il modello di sviluppo che proponete?
«Un nuovo modello deve mettere al centro il lavoro e partire dagli investimenti su sanità pubblica, istruzione – con obbligo scolastico portato a 18 anni – deve prevedere asili nido dove non ci sono e formazione permanente. C’è da gestire la transizione ambientale e produttiva con addio a carbone e fonti fossili, gestire la manutenzione del territorio e trasformare cultura, turismo e storia dell’Italia in elementi di crescita. Vanno fatti ripartire investimenti fisici su infrastrutture, Mezzogiorno e ferrovie ma dobbiamo anche dotarci di una rete digitale che non abbiamo. E serve un ruolo pubblico che indirizzi investimenti e indichi le priorità a partire dalla mobilità sostenibile».
Nostalgia dello Stato padrone?
«È uno dei temi nuovi che abbiamo di fronte. Lo Stato non deve sostituire le imprese, ma deve dare indirizzo su settori e attività strategiche. Noi abbiamo realtà pubbliche come ad esempio Eni, Enel e Leonardo. La nostra proposta è istituire un’agenzia per lo sviluppo (coinvolgendo magari Cdp) che faccia da regista al sistema. Lavoratrici e lavoratori devono poter partecipare a queste scelte strategiche, discutendo su cosa, come e perché si produce e con quale sostenibilità sociale ed ambientale».
Arriveranno i soldi dell’Unione europea. Come andranno usati?
«Sono un’occasione che non dobbiamo perdere. E devono servire a combattere la precarietà. Non mi fa paura dire che non sarà nulla come prima. Anzi, deve essere tutto diverso e non capisco perché Confindustria e soprattutto il suo presidente vogliano difendere un vecchio modello fondato su precarietà e poca innovazione tecnologica».
La politica italiana sarà all’altezza del Recovery Fund?
«Penso che non abbiamo alternative. Siamo tutti in una situazione complessa e inedita. È il momento del coraggio e della radicalità. E soprattutto il momento della responsabilità. E la centralità del lavoro deve essere un vincolo sociale anche per il mercato».
Serve un governo delle grandi intese per questa sfida titanica?
«Non penso alle grandi intese. Sono abituato a fare i conti con il governo che il Parlamento vota».