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Tensione tra Meloni e Giorgetti. Il ministro apre a un nuovo taglio senza consultare la premier. Che corre dai Tg della sera

Prove di retromarcia. E il governo va in panne Giorgia Meloni - Ansa

Lo sciopero di due giorni dei benzinai, decisione per la verità non del tutto inattesa, è la goccia che porta quasi fuori controllo la tensione nel governo. Così, al termine di una giornata livida e confusa, il taglio delle accise diventa un’assurda partita di giro. L’aumento del prezzo dei carburanti determinerà un extragettito Iva. Quell’extragettito, ha deciso ieri il cdm, servirà proprio a tagliare le accise. Un valzer che denota per intero lo stato confusionale in cui versa il governo dopo il passo falso sulle accise. Viene inoltre prorogato sino al 31 dicembre il termine per la norma che permette ai datori di lavoro di distribuire buoni benzina sino a 200 euro non conteggiati nel salario. Il ministro Lollobrigida aveva anticipato la scelta annunciando «correttivi a protezione delle categorie produttive». Il «correttivo» c’è ma è poca cosa.

Mai dal giorno dell’insediamento a palazzo Chigi Giorgia Meloni era apparsa tanto nervosa e insicura come nelle due interviste lampo al Tg1 e al Tg5 decise all’ultimo momento, in piedi nel cortile del palazzo, senza dire nulla che non avesse già detto: «Bisognava scegliere tra tagliare le accise anche ai ricchi o concentrare le risorse a disposizione sui redditi medio bassi Si continua a dire che la benzina è a 2,5 euro mentre è a 1,8. L’opposizione fa il suo lavoro ma non è vero che abbiamo parlato di cancellazione delle accise: solo di sterilizzazione. Non è neppure vero che stiamo facendo scaricabarile con i gestori, che nella stragrande maggioranza si comportano bene. Tutto quello che stiamo facendo serve a calmierare l’inflazione». Come si possa abbassare l’inflazione determinando l’aumento della voce che più di ogni altra determina l’aumento dei prezzi, il costo del carburante, Giorgia Meloni non lo spiega.

Il nervosismo è del tutto giustificato. Lo sciopero dei gestori è materiale altamente infiammabile che piove sull’incendio della benzina. Il sottosegretario Mantovano ha convocato per stamattina le associazioni dei gestori che non escludono di cancellare lo sciopero. Dipenderà da cosa offriranno i ministri interessati, Giorgetti e Urso. La cancellazione del decreto trasparenza – l’obbligo di affiggere il prezzo medio dei carburanti che ha scatenato l’ira dei gestori – non sembra probabile ma quasi certamente il governo rivedrà il decreto.

La maggioranza è molto più divisa di quanto la premier sia disposta ad ammettere. L’insistenza di Lega e Fi per tornare al taglio delle accise è discreta ma pressante. Il ministro Giorgetti, senza consultarsi con la premier ma con la piena approvazione di Salvini, coglie l’occasione offerta dal question time al Senato e si lancia: «Il governo si riserva di adottare misure di riduzione delle accise in relazione all’incremento verificato dei prezzi dei carburanti». Il responsabile del Mef difende la decisione del governo, ricorda che la situazione di oggi è molto diversa dal momento in cui Draghi decise il taglio delle accise. Ma di fatto apre uno spiraglio. È a questo punto che la premier decide di riprendere le redini e rilasciare le due interviste che correggono Giorgetti. Da Chigi assicurano che l’assonanza è piena. Ma sta di fatto che i due non dicono la stessa cosa e la prospettiva di Giorgetti, tornare al taglio in caso di impennata dei prezzi, potrebbe richiedere tempi più celeri di quelli previsti dalla partita di giro sull’extragettito decisa dal governo.

Ma a spiegare il nervosismo di queste ore non ci sono solo considerazioni interne alla maggioranza. I problemi più seri, anzi, sono altrove. I sondaggisti concordano: la popolarità del governo rischia di risentire seriamente del colpo. Per Mannheimer potrebbe costare 2 punti. Inoltre le categorie più inviperite con il governo di destra sono tradizionalmente parte importante della base elettorale della destra stessa. Infine l’eventualità che la misura porti a una crescita invece che alla diminuzione dell’inflazione è uno spettro tutt’altro che fugato. Per questo ieri era impossibile evitare la sensazione che il governo stia cercando una strada per tornare almeno parzialmente indietro senza doverlo ammettere

 

REGIONALI. Conte conferma l’accordo con Majorino, sul quale si esprimeranno gli iscritti

 Pierfrancesco Majorino - LaPresse

«Sono pronto a presentare un programma che accolga il contributo delle forze di centrosinistra elaborato nei mesi scorsi, il punto di vista dei sindaci lombardi e i punti condivisi al tavolo di confronto, assai proficuo, tra le forze di centrosinistra e il Movimento 5 Stelle»: così il candidato del centrosinistra alle elezioni regionali in Lombardia Pierfrancesco Maiorino annuncia l’intesa per la coalizione che sfiderà Attilio Fontana e Letizia Moratti. Giuseppe Conte ha sostanzialmente avallato l’operazione per la costruzione di quella che ha chiamato una «coalizione competitiva», limitandosi a precisare che dovrà essere ratificata dagli iscritti.

La notizia piomba nel Lazio, laddove una volta era tutto campo largo. La coalizione che fino ad oggi ha governato la Regione adesso è paralizzato da veti incrociati e divisioni. Prova a riportare un po’ dello spirito lombardo Amedeo Ciaccheri, presidente dell’ottavo municipio di Roma ed esponente di Sinistra civica ecologista. «Quella dell’accordo in Lombardia tra tutte le forze del campo largo è una notizia importante che fa ben sperare e che deve scuotere le forze progressiste del Lazio – prova a rilanciare Ciaccheri – Serve un progetto nuovo per la Regione e abbiamo la responsabilità di non consegnare il Lazio alla destra: unire le forze è la strada giusta su cui lavorare. Dobbiamo alle cittadine e ai cittadini del Lazio la coalizione più forte per battere la destra». Proprio ieri, tuttavia, Sinistra civica ed ecologista ha annunciato di essere pronta ad incontrare Alessio D’Amato e di avviare una discussione con il candidato di Partito democratico e Terzo polo sulla base dei dieci punti programmatici presentati un paio di settimane fa nel tentativo di ricucire l’alleanza. Dunque, la forza politica che federa diverse forze progressiste e civiche e che da tempo si spende per non consegnare la Regione alla destra riapre un’interlocuzione con i dem. «A meno di due mesi dalle elezioni regionali – spiegano – in assenza di segnali unitari da parte dei soggetti in campo, abbiamo deciso di avviare una dettagliata interlocuzione programmatica con il candidato presidente Alessio D’Amato, espresso dalla gran parte delle forze che attualmente governano in Regione». Il vertice è previsto per domani.

Nelle ultime ore è partita una lettera ai vertici di Sinistra italiana ed Europa Verde, una last call per riunire almeno le forze di sinistra, estremo tentativo prima dell’«ognuno per conto suo». È firmata dall’europarlamentare indipendente dei Socialisti e democratici Massimiliano Smeriglio, dalla deputata eletta con i rossoverdi Francesca Ghirra e da numerosi consiglieri comunali del Lazio, a partire dai due esponenti eletti in Campidoglio da Sinistra civica ecologista. «La componente civica che rappresentiamo è saldamente insediata nei territori da cui vi scriviamo -si legge tra le altre cose nel documento – Finora abbiamo concorso senza chiedere nulla in cambio. Lo abbiamo fatto fiduciosi di avviare un percorso ricompositivo, pubblico, aperto, partecipato eppure ad oggi non riusciamo a comprendere dinamiche e obiettivi della vostra discussione in vista delle elezioni regionali del Lazio».

E ancora: «Spiegare alle nostre comunità che il nostro contributo non è gradito o impedito sarebbe faticoso e inevitabile«. I firmatari, infine, lamentano «l’ennesima battuta d’arresto nel tentativo di ricomporre un polo autonomo, forte ed autorevole della sinistra ecologista».

I motivi per cui va frenato l'entusiasmo sull'annuncio del Lawrence Livermore National Laboratory della prima reazione di fusione nucleare a bilancio energetico positivo. Si tratta di una svolta che serve più che altro scopi militari, non civili per la produzione di energia a basso costo.

 

Scienziati statunitensi hanno testato un sistema di fusione nucleare che per la prima volta è riuscito a produrre in un esperimento di laboratorio più energia di quella che ha consumato per compiere la reazione.

Ma la cautela è d’obbligo, dopo decenni di false partenze e problemi fondamentali che rimangono irrisolti, soprattutto per quel che riguarda l’utilità civile di una ricerca prevalentemente a scopo militare.

Il Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti ha fatto sapere che il segretario all’Energia, Jennifer Granholm, e il sottosegretario alla Sicurezza nucleare, Jill Hruby, annunceranno oggi “un’importante scoperta scientifica” al Lawrence Livermore National Laboratory, senza aggiungere particolari.

Il laboratorio di Livermore, da parte sua, ha confermato di avere completato con successo un esperimento presso la sua National Ignition Facility (NIF), indicando però che l’analisi dei risultati era ancora in corso.

Stando alle indiscrezioni trapelate, la reazione di fusione presso il Lawrence Livermore National Laboratory in California, avrebbe prodotto circa 2,5 megajoule (0,7 kWh) di energia utilizzando un processo di fusione a confinamento inerziale alimentato da soli 2,1 megajoule (0,6 kWh) di energia, ottenendo quindi circa il 19% di energia in eccesso.

Come funziona

Il risultato sarebbe stato ottenuto surriscaldando con un fascio di raggi laser un mix di deuterio e trizio al centro del reattore.

In particolare, il sistema laser più potente del mondo, illuminando le pareti interne di una capsula d’oro di qualche centimetro, la porta a milioni di gradi. Al centro della capsula i raggi X, emessi dalla materia ionizzata, riscaldano a loro volta la superficie di una sfera di circa 3 mm di diametro che contiene il combustibile della fusione, deuterio e trizio. Nel volume compresso si innescano reazioni di fusione fino all’esaurimento del combustibile.

Si tratta, in sostanza, di una mini-esplosione termonucleare della potenza di pochi chilogrammi di tritolo, senza l’innesco di una bomba atomica. Era dagli anni Cinquanta che i fisici tentavano di replicare il processo della bomba H senza doverla innescare prima utilizzando una bomba atomica. In altre parole,

Il passo avanti in questione è che in futuro probabilmente non si dovrà più usare una bomba atomica, cioè un processo di fissione nucleare, come “grilletto” per far esplodere una bomba all’idrogeno, cioè per alimentare un processo di fusione nucleare.

La strada della fusione nucleare verso una generazione elettrica priva di carbonio, abbondante e a buon mercato è in realtà ancora lunghissima e irta di ostacoli tecnologici, logistici ed economici che neanche un progresso scientifico come quello che si prefigura negli Usa potrebbe riuscire a risolvere.

Poco rilevante per gli usi civili

“È un annuncio poco rilevante” dal punto di vista degli usi civili della fusione nucleare, ha detto a QualEnergia.it Giuseppe Cima, fisico con lunghe esperienze di ricerca e lavoro all’Università del Texas ad Austin e anche presso Euratom, Enea e Cnr.

Uno dei motivi principali per cui il previsto annuncio statunitense sarebbe destinato all’atto pratico a lasciare il tempo che trova per gli usi civili è che il piatto forte del test, cioè il suo bilancio energetico positivo, pur costituendo tecnicamente un passo avanti, è in realtà estremamente circoscritto. Il surplus di energia ottenuto col nuovo test, cioè gli 0,4 megajoule (0,1 kWh) netti, rappresentano il valore energetico dei soli neutroni e della radiazione liberati dalla fusione.

Ma per poter utilizzare effettivamente questo sistema per la produzione di energia elettrica, manca tutta una serie di passaggi fondamentali.

“Dai neutroni bisogna passare al calore, dal calore bisogna passare al vapore che deve azionare una turbina, dalla turbina al generatore elettrico e dall’alimentazione elettrica alla luce laser”, ha detto Cima, sottolineando le perdite termodinamiche che si registrano lungo tutto il processo.

Per superare tutti questi ostacoli termodinamici e chiudere il cerchio energetico anche con un bilancio solo in pari, la fusione dovrebbe fornire un guadagno di almeno altri tre ordini di grandezza (cioè moltiplicare l’energia per un altro fattore 1.000), ha aggiunto.

Bisogna cioè considerare che, nel caso del confinamento inerziale, è necessario un input energetico a monte molto maggiore, poiché bisogna reinnescare ogni volta le reazioni di fusione, a differenza della maggior parte dei sistemi di fusione nucleare a confinamento magnetico, dove il riscaldamento delle particelle alfa potrebbe mantenere tutto, o quasi, in moto una volta innescate le reazioni.

Fuori ritmo e fuori inventario

C’è poi il problema del ritmo di riproduzione delle microesplosioni, che per generare energia in quantità rilevanti per una utility industriale dovrebbe essere nell’ordine di migliaia all’ora. A fronte di tale frequenza necessaria, i test in questione richiedono ora una preparazione di ben 15 giorni ciascuno, ci ha detto Cima.

Il test in questione è stato ottenuto con una preparazione di 15 giorni. Per generare un singolo evento di fusione, con una produzione “netta” di 0,1 kWh di soli neutroni, equiparabile a 0,1 Wh di elettricità, ci sono cioè volute più di due settimane, ci ha detto Cima.

Il terzo grande ostacolo pratico è rappresentato dalla difficoltà di reperire il trizio, un raro isotopo radioattivo dell’idrogeno, che costa circa 30.000 dollari al grammo, più o meno come un diamante.

Il problema, in realtà, non è il prezzo, che molti sarebbero pronti a pagare, bensì il fatto che questo elemento si trova solo in due condizioni: allo stato naturale, in quantità infinitesimali, nell’alta atmosfera, generato dal bombardamento dei raggi cosmici, e come sottoprodotto della fissione dei reattori nucleari tradizionali, in piccole quantità che pochi raccolgono.

Le poche decine di chilogrammi di trizio disponibili in commercio provengono da un tipo di impianti nucleari presenti solo in Canada e nella Corea del Sud. Secondo le proiezioni degli esperti, le forniture raggiungeranno il picco nel corso di questo decennio, per poi iniziare un costante declino, destinato ad accelerare quando gli stessi esperimenti sulla fusione nucleare inizieranno a bruciare maggiori quantità di questo isotopo.

Entra quindi in gioco il classico cane che si morde la coda: diversi scienziati ritengono che i futuri reattori atomici a fusione nucleare potranno produrre da soli il trizio di cui hanno bisogno, scindendo del litio in elio e trizio.

Ma i processi per tale presunta “auto-produzione” non sono ancora stati identificati e sperimentati. Per produrre cioè il trizio in questo modo sarebbe necessario un reattore a fusione già funzionante, e potrebbe non esserci trizio a sufficienza per raggiungere questo stadio in primo luogo e avviare la fusione atomica su scala almeno dimostrativa. Né si potrà necessariamente contare in futuro sulla produzione di trizio dei reattori tradizionali di Canada e Corea, destinati allo smantellamento nel giro di non moltissimi anni.

La motivazione militare

L’esperimenti del Lawrence Livermore National Lab è stato finanziato in massima parte dal Dipartimento della Difesa Usa per continuare la ricerca di nuove armi senza violare il Comprehensive Nuclear-Test-Ban Treaty (CTBT), un trattato internazionale che impone un limite alla potenza di un ordigno nucleare sperimentale, ha detto l’ex docente dell’Università del Texas.

Il test in questione, per la ridotta energia delle singole esplosioni, permette appunto di approfondire la ricerca sugli esplosivi nucleari rispettando gli impegni internazionali.

In tale quadro molto complesso “sembra che i progressi siano stati piu’ consistenti e rapidi per gli armamenti piuttosto che per gli usi civili in analogia, ma ancora piu’ marcatamente, con quanto successe con la più semplice tecnologia della fissione”, ha detto Cima.

Ancora decenni

I progressi annunciati non porteranno a un’accelerazione improvvisa della tecnologia di fusione, ci ha confermato Nicola Armaroli, direttore di ricerca dell’Istituto per la Sintesi organica e la Fotoreattività del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) ed esperto di energia.

“Ben venga un piccolo progresso, ma questo non vuol dire che l’avremo in tempi brevi, se mai l’avremo nella pratica. Noi dobbiamo decarbonizzare entro il 2050 e resta assai improbabile che la fusione ci verrà in soccorso. Comunque arrivi, la fusione arriverà in ritardo”, ha detto Armaroli.

Anche a fronte di una dimostrazione di laboratorio, attesa 70 anni, che il bilancio energetico del primo passo di una prova di fusione nucleare sulla Terra possa chiudersi in attivo, un tale progresso potrebbe non vedere applicazioni reali e su vasta scala prima di molti decenni, e forse mai.

“C’è ancora una lunghissima strada da fare per arrivare ad impianti, anche solo dimostrativi, e vedere che la tecnologia sia scalabile ed economicamente conveniente. E quindi passeranno i soliti decenni che ci riproponiamo da cinquant’anni”, ha aggiunto il dirigente del Cnr.

C’è poi il problema che questa tecnologia sarebbe destinata a rimanere nelle mani di pochi, ammesso sempre si riesca a realizzarla.

“Il fatto che sia controllata da pochi mal si addice a una democratizzazione e decentralizzazione del sistema energetico di cui abbiamo bisogno, perché sono soprattutto i Paesi più poveri, meno tecnologicamente avanzati, che hanno bisogno di aumentare il consumo energetico e con tecnologie come questa cadrebbero ancora una volta sotto un pesante colonialismo energetico”, ha detto Armaroli.

“C’è un aspetto sociale, politico, geopolitico e culturale che non va trascurato quando si parla di fusione”, ha affermato il dirigente del Cnr – soprattutto in una fase come quella attuale, dove i pericoli e i costi di una scarsa autonomia energetica sono sotto gli occhi di tutti.

Conclusioni

La fusione laser è molto lontana da qualsiasi applicazione pratica in ambito civile, più lontana ancora perfino della fusione magnetica, che era la strada fin qui più battuta in questo settore. Il rischio concreto è che il battage mediatico innescato dal governo americano su questa scoperta serva a giustificare investimenti per la decarbonizzazione che, in realtà, sono soprattutto investimenti militari.

Il risultato potrebbe essere che con la motivazione di ottenere più kWh “puliti” per meno dollari, si finisca in realtà per risparmiare solo in termini di dollaro al kW di potenza distruttrice in caso di guerra. Al deficit energetico complessivo legato a questa applicazione corrisponderebbe solo un surplus militare e geostrategico, grazie al fatto che, con questa scoperta, non sarebbe più necessario usare una bomba atomica per innescare una bomba all’idrogeno.

Poco più di un mese è bastato per capire la strada dell'esecutivo. Una direzione univoca e pericolosa. Per contrastarla il sindacato deve essere fermo, far valere il proprio tratto confederale, dialogare con le imprese e la società civile

Settimana di mobilitazione per il lavoro - Seconda giornata Roma, 12 dicembre 2019, piazza Santi Apostoli: Cgil, Cisl e Uil per il lavoro, la crescita, lo sviluppo © Simona Caleo/Cgil

Poco più di un mese dall’insediamento del nuovo governo. Tempi brevi ma ampiamente sufficienti per verificare cosa significhi la destra al governo. Il primo atto è stato contro la possibilità di manifestare, il cosiddetto decreto anti-rave che in realtà nelle intenzioni riguardava molto altro; poi i migranti con l’ostacolo alle Ong e la riproposizione di atteggiamenti disumani e razzisti, ventilando il ritorno ai decreti sicurezza; le proposte di modifica costituzionale con autonomia differenziata e presidenzialismo.

Si sono per ora quasi sempre dovuti fermare, di fronte alle proteste in Italia e dell’Europa, ma la direzione di marcia è univoca e pericolosa. Adesso è stata presentata una manovra economica, non solo sbagliata nel merito e nel metodo ma che viene utilizzata per inviare segnali politici. Parafrasando una frase in uso nel governo è chiaro chi

I GIORNI DELL'IRAN. Le dichiarazioni del capo della magistratura testimoniano solo la spaccatura nel Paese. Ma la rivolta non accenna a fermarsi

 Donne partecipano alla protesta nella provincia del Sistan e Balucistan - Getty Images

Serrande chiuse da ieri per i bottegai delle città iraniane, in solidarietà con le proteste, o forse spaventati per i possibili danni durante lo sciopero generale di tre giorni che culminerà il 7 dicembre. In coincidenza con la giornata dedicata agli studenti universitari, un raduno è stato organizzato in piazza Azadì, la piazza della libertà, nella capitale Teheran. Come in passato, dopo lo sciopero si prevede una continuazione delle proteste. I manifestanti non hanno intenzione di fermarsi, perché altrimenti sarebbe vano il sacrificio di almeno 470 persone uccise nella repressione, tra cui 64 minorenni. E a nulla serve la notizia, non confermata dal ministero degli Interni di Teheran, dell’«abolizione» della polizia morale. A comunicarlo era stato il capo della magistratura, che non è però il soggetto preposto alla buoncostume e in ogni caso si era limitato a comunicare che le funzioni della polizia morale erano state «sospese».

GIÀ A SETTEMBRE, nei giorni immediatamente successivi alla morte di Mahsa Amini, alcuni deputati avevano ipotizzato una revisione e addirittura l’abolizione della polizia morale giacché invisa alla popolazione. Il deputato Jalal Rashidi Koochi aveva dichiarato che queste pattuglie «non ottengono alcun risultato, se non quello di causare danni al Paese». Il presidente del Parlamento, Mohammad Bagher Ghalibaf, già sindaco di Teheran, aveva chiesto che la condotta della polizia morale fosse oggetto di un’inchiesta: «Per evitare che si ripeta quanto accaduto a Mahsa Amini», aveva affermato il presidente del Parlamento, «i metodi utilizzati da queste pattuglie dovrebbero essere rivisti». Ancora più radicale era stato un altro parlamentare, Moeenoddin Saeedi, che intendeva proporre l’abolizione totale della polizia morale e infatti aveva dichiarato: «A causa dell’inefficacia del Gasht-e Ershad nel trasmettere la cultura dell’hijab, questa unità dovrebbe essere abolita, in modo che i bambini di questo Paese non ne abbiano paura quando vi si imbatteranno».

ORA, A DUE MESI da quelle dichiarazioni, il fatto che il capo della magistratura si permetta di avanzare l’ipotesi di una «sospensione» della polizia morale, ma questo non venga confermato dal ministro degli Interni preposto a questo corpo speciale, è la dimostrazione della frattura all’interno della leadership della Repubblica islamica: da una parte vi è chi sarebbe disposto al compromesso, dall’altra vi è l’ala intransigente. Tra questi ultimi vi sono i paramilitari basiji, la polizia e le forze di sicurezza che «non esiteranno a fronteggiare duramente i rivoltosi, i criminali armati e i terroristi che sono stati assoldati dai nemici». Nella dichiarazione dei pasdaran si legge: «Dopo la sconfitta della nuova sedizione, creata dai nemici, il sistema sacro della Repubblica islamica continuerà con forza a realizzare la sua causa e sconfiggerà il fronte unito dei nemici».

IN OGNI CASO, se anche la polizia morale dovesse abdicare, questo non implicherebbe l’abolizione dell’obbligo del velo e tanto meno maggiore libertà perché a pattugliare le strade restano poliziotti e militari. E infatti il deputato Hossein Jalali ha dichiarato che «il prezzo da pagare per chi non porterà il velo nel nostro Paese si alzerà». Membro della commissione cultura del parlamento, si è espresso nell’ambito di un’assemblea nella città santa di Qum, facendo riferimento a un piano da mettere in pratica nelle prossime due settimane riguardo all’uso del velo per le donne, già obbligatorio in pubblico dopo la fondazione della Repubblica islamica nel 1979.

ALLA LUCE dell’uso costante della violenza contro il popolo, la leadership iraniana ha perso ogni legittimità. Al di là delle fratture nella cabina di comando, il sistema politico non è riformabile: tutti coloro che ci avevano provato sono in carcere, agli arresti domiciliari, oppure hanno scelto la via dell’esilio. Sul fronte internazionale, la data da tenere a mente è il 14 dicembre, quando si riunirà il comitato delle Nazioni Unite sulle questioni di genere.

MEDITERRANEO . Si cerca di nascondere il fatto semplice, ma incontrovertibile, che le Ong, come ogni soggetto che navighi, sono obbligate a rispondere alla legislazione internazionale e non possono rispondere a codici ad hoc che non hanno alcun valore giuridico

Il nuovo codice sulle orme di Minniti Salvataggio della Open Arms al largo della Libia - Ap

Il filo comune che unisce chi criminalizza le Ong che salvano vite umane ripropone le stesse accuse stantie e lo stesso metodo delle «regole speciali». La logica, già rodata, è quella di proporre disposizioni specifiche per un gruppo, le Ong, sottintendendo così che quest’ultime non rispettano le regole, «fanno i furbi», e c’è quindi bisogno di un codice di comportamento in più. Si cerca di nascondere così il fatto semplice, ma incontrovertibile, che le Ong, come ogni soggetto che navighi, sono obbligate a rispondere alla legislazione internazionale e non possono rispondere a codici ad hoc che non hanno alcun valore giuridico. Le navi mercantili, di cui ha parlato a sproposito il ministro Tajani durante la riunione con i suoi omologhi Ue, se devono intervengono, ma se possono se ne guardano bene, perché rischiano di dover fermare la loro attività commerciale per settimane o mesi. Le ipotesi circolate per questo nuovo codice sono davvero ridicole e imbarazzanti e si ripresentano nella veste di regole di comportamento senza le quali si possono subire pesanti sanzioni amministrative e, soprattutto, non si può arrivare sulle coste italiane.

Proviamo ad analizzare le principali.

1. Le Ong devono dimostrare che intervengono solo in caso di pericolo: gommoni e barchini che possono ospitare 10/20 persone e ne ospitano 5/10 volte tanto sono oggettivamente in pericolo. I comandanti sono obbligati a intervenire, altrimenti ne rispondono personalmente penalmente.

2. Le Ong devono comunicare il loro intervento e coordinarsi con le autorità competenti: lo fanno sempre, c’è una ampia documentazione pubblica e disponibile, e ogni volta mandano alle diverse autorità dei Paesi coinvolti tutte le informazioni. Sono le autorità che non rispondono mai, per lavarsene le mani e non indicare, come la legge impone, il posto sicuro più vicino.

3. Si chiederebbe alle Ong di non comunicare la loro posizione alle imbarcazioni che stanno per lasciare le spiagge libiche o tunisine, cioè le si accusa di dare appuntamenti a chi deve ancora partire. Una accusa che, secondo il titolare della Farnesina, sarebbe sostenuta da documenti di Frontex. La stessa Agenzia Europea che è stata più volte accusata di praticare respingimenti, che lo ricordiamo sono illegittimi, e il cui direttore, a seguito di una inchiesta dell’agenzia anti frode europea, si è dimesso a fine aprile di quest’anno. Non un fonte neutra e autorevole quindi. Una illazione, quella usata da Tajani, del tutto infondata, inventata appositamente per collegare le Ong ai trafficanti. Un collegamento privo di prove, come dimostrano i tanti procedimenti giudiziari italiani: una vera diffamazione.

Come nel caso del suo degno predecessore, questo nuovo codice imporrebbe comportamenti che in gran parte sono previsti dalla legge e che le Ong rispettano alla lettera da sempre, introduce elementi illegittimi e impraticabili e, soprattutto, alimenta il sospetto che chi opera nel Mediterraneo per fare attività di ricerca e salvataggio lo fa in cattiva fede e in combutta con gli scafisti. Scafisti che, da anni, è noto siano in gran parte gli stessi che ricevono soldi, strumentazione e formazione da parte del governo italiano e dell’Ue. Informazioni che si possono leggere nei documenti delle istituzioni internazionali e dei tribunali italiani e non nei fogli di propaganda di partiti e esponenti politici.

Intanto i governi di Italia, Grecia, Cipro e Malta firmano una dichiarazione congiunta del tutto ingiustificata e mistificatoria. Richiamano la legislazione internazionale di fatto negandola e cercano di criminalizzare chi salva vite umane. Ripropongono il vittimismo per gli sbarchi, senza tenere in considerazione che i governi si fanno carico dei richiedenti asilo, che arrivano anche via terra e via aereo: incomprensibile il motivo per cui solo chi arriva via mare andrebbe redistribuito.
Non è di un codice che c’è bisogno e neanche di inutili nuovi accordi per impedire alle persone di scappare da guerre e persecuzioni o di nuove procedure per poter rimpatriare più facilmente le persone senza un permesso di soggiorno, obiettivi sui quali, c’è da scommettere, si concentreranno i governi nelle prossime settimane. In tutti questi anni abbiamo assistito a lunghissime trattative nei numerosi incontri di ministri Ue, conclusesi sempre con la promessa di modifiche legislative e interventi volti solo a impedire sempre di più ogni mobilità alle persone in cerca di protezione e a migliorare l’efficacia delle attività di respingimento e rimpatrio.

Nulla su attività di ricerca e salvataggio pubblica e nulla su canali d’accesso legali e sicuri. Quindi nulla di nuovo. Sempre il vecchio e stantio razzismo di stato, che favorisce e alimenta i trafficanti e produce morte e ingiustizie.