La vera «calamità naturale» deriva da uno sviluppo edilizio illimitato che rompe funzioni di vitale importanza per il riciclo e la ricostituzione delle risorse di base
Parlare di emergenza a proposito della siccità e della carenza d’acqua – per uso civile, agricolo e industriale – è un nonsenso. L’«emergenza» è una circostanza imprevista, una situazione di crisi inaspettata, non un evento che si ripete e si intensifica, anno dopo anno, a causa del riscaldamento climatico. Invocare lo stato d’emergenza, come fanno Regioni e Comuni, significa scarsa consapevolezza della gravità della crisi climatica, e limitarsi a chiedere un pronto intervento, in attesa che passi il peggio. Di fronte agli incombenti disastri ambientali l’unico rimedio è l’accelerazione dei processi di transizione ecologica. L’emergenza, per intenderci, non può essere la foglia di fico che copre politiche fallimentari.
Nella penuria d’acqua gioca un ruolo la pessima gestione, per lo più privata, della rete idrica. Da decenni ci portiamo dietro sprechi, dispersioni e inefficienze. Le società di gestione trovano vantaggioso rinviare qualsiasi intervento di ammodernamento e razionalizzazione delle condutture. Le Regioni, da parte loro, praticano il «pianificar facendo» e antepongono il diritto edificatorio all’interesse collettivo, tralasciano di programmare e realizzare un sistema di invasi, collinari e montani, utile a garantire un’adeguata riserva d’acqua nei periodi di siccità e a proteggere il territorio nel caso di alluvioni e di incendi.
Ma il punto cruciale è l’ondata di cemento che, in nome della «crescita economica», si riversa quotidianamente su terreni agricoli, parchi, coste, montagne, argini dei fiumi e torrenti. Il territorio è’ sottoposto a violenze e abusi di ogni tipo. Da «valore» da salvaguardare, bene comune (aldilà degli assetti proprietari), è diventato materia prima da sfruttare, facile preda di interessi privati e speculativi. Non si pone mai abbastanza l’accento sul legame tra acqua e territorio.
La vera «calamità naturale» deriva da uno sviluppo edilizio illimitato e caotico che rompe delicati equilibri dell’ecosistema, compromette attività e funzioni di vitale importanza per il riciclo e la ricostituzione delle risorse di base (aria, acqua, suolo), per la conservazione delle biodiversità e la tutela del paesaggio. Consumo di suolo e cementificazione senza regole sono, tra l’altro, la causa dell’inquinamento e della rovina delle falde acquifere. E’ venuta meno quella «divisione del lavoro» tra città e campagna che, come ci ricordava Eddy Salzano, è «il presupposto del mantenimento e del potenziamento di infrastrutture ambientali che sostengano, direttamente o indirettamente, la vita delle comunità e una parte significativa delle attività economiche, sociali e culturali».
La cattiva informazione tende a oscurare e a negare il legame esistente tra cambiamento climatico e modello di sviluppo. E tende a sorvolare sulla perversa continuità politica di interventi pubblici che danneggiano l’ambiente e accentuano le disuguaglianze sociali. L’ultimo Report Istat sulla povertà in Italia, ci ricorda, con dovizia di numeri e percentuali, che l’incidenza della povertà assoluta è di gran lunga maggiore nelle famiglie in affitto rispetto a quelle che hanno un’abitazione in proprietà. L’indagine Istat, in maniera involontaria, ci offre la chiave di lettura giusta per comprendere quale sia il filo rosso che collega la crisi idrica con l’aumento della povertà assoluta delle famiglie in affitto.
Da trent’anni a questa parte la chiusura di ogni canale di finanziamento dell’edilizia residenziale pubblica è andata di pari passo con un’espansione dell’edilizia privata senza precedenti. Si costruisce a un ritmo di 300 mila unità abitative all’anno, senza alcun riguardo per la qualità dell’abitare, per il contesto urbano, per il reale fabbisogno, per gli effetti sulla mobilità. Ogni anno vengono stipulati 900 mila rogiti notarili, di cui ben 600 mila riguardano abitazioni. Numeri da capogiro che si traducono in un gigantesco trasferimento di risorse finanziarie dal lavoro alla rendita urbana (proprietari fondiari, costruttori, banche).
Come scrive l’economista Marco Fortis sul Sole 24 ore del 22 giugno, l’edilizia «cresce a ritmi di ricostruzione post-bellica». L’industria delle costruzioni e il mercato immobiliare, considerati settori trainanti della crescita del Pil, beneficiano di notevoli incentivi di carattere fiscale e urbanistico.
Nel corso degli anni si è determinata una grande e ingiustificata asimmetria fiscale a danno delle famiglie in affitto. Il mercato della locazione, dopo la svendita di un enorme patrimonio residenziale pubblico, si concentra nelle mani di piccoli e medi proprietari immobiliari che preferiscono realizzare alti rendimenti tramite gli affitti brevi gestiti dalle piattaforme digitali. E qui il cerchio si chiude. Molte famiglie (monoreddito, giovani coppie, precari e immigrati) vanno ad abitare in periferie sempre più lontane, si accollano mutui o contratti d’affitto insostenibili, e sempre più numerose cadono nella trappola della povertà. Sono gli attuali rapporti economici e sociali, non i capricci del buon dio, a produrre distruzione ambientale e gravi ingiustizie. L’importante è che il Pil cresca.