ARMI E BAGAGLI. Il M5S non è più la prima forza parlamentare. Stasera Giuseppe Conte raduna i suoi
«Davanti alle atrocità commesse da Putin dovevamo scegliere da che parte stare della storia», dice Luigi Di Maio per motivare la scelta di uscire dal Movimento 5 Stelle e fondare un altro soggetto politico. È appena salito al Quirinale, per informare Sergio Mattarella del rimescolamento all’interno della maggioranza che sostiene Mario Draghi e per rassicurarlo sul fatto che il suo nuovo gruppo è anche un’assicurazione sulla vita del governo. Di Maio, dunque, sceglie di dar vita alla prima scissione vera e propria nella storia del M5S. La notizia aveva circolato dall’ora di pranzo, quando mancavano meno di due ore all’intervento di Draghi al Senato e non c’è ancora accordo sulla risoluzione di maggioranza.
È UNA MOSSA INATTESA. Tanto che molti dei parlamentari precettati da Di Maio cadono dalle nuvole. Il che, dice il senatore Primo Di Nicola (che sta con Di Maio), dimostra che non è mai esistita una corrente vera e propria che fa capo al ministro degli esteri. Di Maio forse pensava di uscire dopo il doppio voto sulla risoluzione, che oggi va in aula Montecitorio. Altri fino a ieri assicuravano che puntava a stare dentro il M5S e logorare Conte un altro po’, fino alle regionali siciliane. A segnare «il punto di non ritorno», dicono i dimaiani, sono state le parole con le quali due giorni fa Roberto Fico ha rivendicato il diritto dei 5 Stelle di tutelarsi di fronte agli attacchi e alle illazioni «immotivate» del loro ex capo politico. Per il nuovo gruppo circola un nome che contiene suggestioni macroniane: «Insieme per il futuro». Avrebbero accettato di aderirvi una cinquantina di deputati, il che consentirebbe di fondare il gruppo alla Camera. Al Senato le sottoscrizioni sembrano più ridotte.
QUESTA SERA tocca Giuseppe Conte, che riunisce l’assemblea congiunta degli eletti alla Camera e al Senato del Movimento 5 Stelle. Sarà un test sullo stato di salute dei gruppi parlamentari. Trapela l’ipotesi di passare all’appoggio esterno al governo Draghi visto che il M5S da oggi ha già un piede fuori dalla squadra di governo: con Di Maio se ne vanno almeno cinque sottosegretari di peso: Laura Castelli all’economia, Manlio Di Stefano agli esteri, Dalila Nesci al Sud, Pierpaolo Sileri alla salute e Anna Macina alla giustizia. Il ministro dell’agricoltura e capodelegazione M5S nell’esecutivo Stefano Patuanelli smentisce ogni tentazione di mollare la maggioranza: «Altri che creano problemi al governo, non noi».
CI SONO STATE diverse espulsioni dal M5S e soprattutto in questa legislatura si sono contati numerosi addii (quasi un terzo di 320 parlamentari), ma mai una spaccatura organizzata. Poche ore prima della notizia della rottura, il Consiglio nazionale del M5S aveva preso in considerazione la possibilità di cacciare fuori Di Maio, ma questa era stata scartata. In primo luogo per impossibilità tecnica: il nuovo Statuto è di fatto ancora sotto processo e il M5S non è in grado neanche di espellere Vito Petrocelli, l’ex presidente della commissione esteri del Senato che ha platealmente disatteso la linea politica in dissenso con le scelte sulla guerra in Ucraina. L’espulsione era stata considerata improbabile anche per motivi di opportunità politica e dei rapporti con Draghi.
ANCHE BEPPE GRILLO aveva chiesto di evitare fratture. Ieri mattina, prima che tutto precipitasse, ha usato il suo blog per un ultimo appello: «Qualcuno non crede più nelle regole del gioco? Che lo dica con coraggio e senza espedienti. Deponga le armi di distrazione di massa e parli con onestà». Dopo quello che potrebbe essere un riferimento a Di Maio e al tetto dei due mandati, il fondatore ha scelto una citazione che parla di morte e fine dell’effetto novità: «Quando il M5S fece i primi passi Steve Jobs chiese agli studenti di Stanford di accettare la morte come agente di cambiamento della vita e disse loro ‘ora il nuovo siete voi, ma un giorno non troppo lontano da oggi, diventerete gradualmente il vecchio e verrete spazzati via’». «Ci mettiamo in cammino – dice Di Maio evocando ancora una volta il lessico di Macron – Non ci sarà spazio per sovranismi, estremismi, populismi. Partiremo dai territori e dai sindaci».
DI FINE DEL GRILLISMO parla alla buvette del Senato anche Matteo Renzi. Mentre il dibattito sull’Ucraina è ancora in corso, il leader di Italia Viva si accompagna in un’ideale brindisi a Pierferdinando Casini e poi, chiacchierando coi giornalisti, profetizza che si andrà al voto solo a fine legislatura (dunque probabilmente a maggio 2023). Diche che le elezioni si terranno «in piena crisi sociale» ma in assenza di un soggetto in grado di raccogliere la rabbia e la voce di molti cittadini. Secondo il ragionamento di Renzi questa forza dovrebbe collocarsi alla sinistra de Pd. «Difficile che questo ruolo venga ricoperto un ex presidente del consiglio e uno che ha fatto il ministro degli esteri», dice il leader di Italia Viva riferendosi a Conte e Di Maio. La posta in palio dei prossimi mesi riguarda le sorti dello spazio politiche che per dieci anni, tra mille contraddizioni, hanno ricoperto i 5 Stelle.
CORSA AL RIARMO. L'allarme lanciato dall'ultimo rapporto del Sipri: gli Stati «atomici» ampliano l’arsenale. Gli altri si riuniscono la prossima settimana Vienna con la società civile e i pacifisti per frenarli
«Ormai i dati lo dicono chiaramente: è terminata la tendenza alla riduzione degli arsenali nucleari che era in corso dalla fine della guerra fredda».
È QUESTO IL LAPIDARIO (e preoccupato) commento di Hans Kristensen, associate senior fellow del Programma Armi di Distruzione di Massa del SIPRI e direttore del Nuclear Information Project della Federation of American Scientists, nel presentare i dati più aggiornati sulla consistenza delle forze nucleari contenuti nell’Annuario appena pubblicato dall’Istituto di ricerca svedese.
Un allarme direttamente collegabile alla modernizzazione degli arsenali dei nove Paesi (Stati uniti, Russia, Regno unito, Francia, Cina, India, Pakistan, Israele e Nord Corea) che le possiedono segnalata negli ultimi anni: pper tale motivo sebbene il numero totale di testate sia leggermente diminuito tra il 2021 e il 2022 è prevedibile per il prossimo decennio che la tendenza sarà quella di un aumento.
Tra gli «ammodernamenti» in corso vanno ricordate anche le nuove bombe B61-12 che verranno dispiegate in Italia anche per essere utilizzate dagli F-35 della nostra Aeronautica militare.
CIRCA 9.440 TESTATE delle 12.705 esistenti a inizio 2022 si trovavano in condizione di uso potenziale: 3.732 dispiegate con missili e aerei, circa 2mila – quasi tutte appartenenti a Russia o Usa – tenute in stato di massima allerta operativa.
I due Paesi possiedono congiuntamente oltre il 90% di tutte le testate, ma gli altri sette Stati «nucleari» stanno a loro volta sviluppando o dispiegando nuovi sistemi d’arma o ne hanno annunciato l’intenzione.
Ad esempio la Cina è nel mezzo di una sostanziale espansione del proprio arsenale nucleare che, secondo alcune immagini satellitari, comprende tra l’altro la costruzione di oltre 300 nuovi silos missilistici.
TUTTI GLI STATI DOTATI di armi nucleari stanno aumentando o potenziando i loro arsenali e la maggior parte di essi sta intensificando la retorica nucleare e il ruolo che tali armamenti svolgono nelle loro strategie militari.
Senza dimenticare il costo anche finanziario: secondo la International Campaign to Abolish Nuclear Weapons il mantenimento degli arsenali nucleari costa circa 75 miliardi di dollari all’anno e lo stesso Congresso degli Stati uniti ipotizza un costo complessivo di 634 miliardi di dollari per i soli Usa nel decennio 2021-2030.
«Condivido le preoccupazioni bene esplicitate da Hans Kristensen – sottolinea Daniele Santi, presidente di Senzatomica – Se non saremo in grado di abolire le armi nucleari tutti gli altri temi di cui parliamo (emergenza climatica, democrazia, futuro) non avranno significato. Non avrà senso parlare di diritti civili perché non ci sarà nessuno che potrà goderne: non importa come o per quanto tempo le persone si sforzino di realizzare un mondo o una società migliore, una volta iniziata una guerra nucleare tutto sarà stato inutile. La realtà dell’era nucleare è che tutti siamo costretti a vivere accompagnati costantemente dal peggiore, dal più incomprensibile e assurdo pericolo che si possa immaginare».
DA QUESTA CONSAPEVOLEZZA è nata l’azione della società civile per un disarmo umanitario anche nell’ambito degli arsenali nucleari, con l’ottenimento del Trattato per la proibizione delle armi nucleari (Tpnw) votato nel 2017 ed entrato in vigore nel 2021.
«Senzatomica continuerà a impegnarsi nella mobilitazione “Italia, ripensaci” al fianco di tutti i cittadini e le cittadine italiane per un mondo libero da questa follia – aggiunge Santi – e per tale motivo continuiamo a chiedere anche al governo italiano di partecipare come osservatore alla prima Conferenza degli Stati parte del Tpnw che si terrà a Vienna dal 21 al 23 giugno».
«SAREMO A VIENNA, insieme ai movimenti per il disarmo nucleare, per partecipare alla prima conferenza degli Stati che fanno parte del Tpnw in un momento storico unico – fa eco Lisa Clark, co-presidente dell’International Peace Bureau e responsabile del disarmo nucleare per Rete Italiana Pace e Disarmo – Abbiamo sempre detto che le armi nucleari devono essere messe al bando in quanto rappresentano, insieme ai cambiamenti climatici, la principale crisi esistenziale per l’umanità e il pianeta. Purtroppo con le minacce del presidente Putin del febbraio scorso e con la diffusione dei dati del SIPRI di questi giorni, la discussione su come impedire la catastrofe ha assunto un ruolo di primo piano anche per l’opinione pubblica in generale. La buona notizia è che, con le società civili di tutto il mondo allertate contro il pericolo nucleare, siamo fiduciosi di convincere i governi nazionali a impegnarsi concretamente per liberare l’umanità da questa minaccia».
Un percorso che dovrà avere come primo obiettivo lo stop all’allargamento degli arsenali nucleari.
*Coordinatore Campagne della Rete Italiana Pace e Disarmo
https://www.collettiva.it/copertine/italia/2022/05/24/video/zuppi-2132772/
Il nuovo presidente della Cei in un intervento appassionato sul tema della fraternità e dell'aiuto reciproco pronunciato in occasione di Futura 2020
"C'è bisogno di fraternità. e non soltanto con chi la pensa come noi, perché fraternità è capacità di dialogo, di costruire ponti". Questo il nocciolo dell'intervento del nuovo presidente della Cei, Matteo Zuppi, pronunciato come ospite di Futura2020 della Cgil nell'edizione del 2020 al Brancaccio di Roma.
In quell'occasione Zuppi citò il primo viaggio di papa Francesco tra i migranti a Lampedusa, quando disse "noi rischiamo di essere degli spettatori in una bolla di sapone. In realtà noi siamo sulla stessa barca, e se qualcuno non c'è, vuol dire che l'abbiamo buttato fuori noi, vuol dire che ci lasciamo dietro qualcuno".
Perché "quello che succede in mezzo al mare, una mamma che ha perso il suo bambino, riguarda anche noi". Servono dunque "scelte vere", "dialogo" mentre al contrario, sempre citando Francesco, "quando si dice si salvi chi può, neanche più prima le donne e i bambini, si finisce tutti contro tutti". Parole ancora vere oggi, sempre più necessarie in uno scenario di guerra come quello attuale.
L’asse Bonaccini – de Pascale in prima linea per candidare l’Emilia-Romagna come hub nazionale del gas, in netta contraddizione con gli obiettivi regionali del Patto per il Clima e il Lavoro e il PER (Piano energetico regionale)
L’emergenza energetica non deve essere il pretesto per seguire il modello business-as-usual dettato dai grandi del fossile. Nei giorni scorsi quattro sì al pacchetto energia del sindaco ravennate Michele de Pascale di cui solo uno nella direzione giusta.
Legambiente: “Il nuovo rigassificatore non è una conquista, ma un fallimento della transizione ecologica”.
Dopo la stroncatura a più riprese del progetto CCS (cattura e stoccaggio di CO2), Ravenna riprova a candidarsi "Capitale del Fossile”: poco tempo dopo le dichiarazioni del primo cittadino ravennate a proposito del cosiddetto pacchetto energia, ovvero quattro proposte di cui tre incentrate sull’industria fossile e solo una sulle rinnovabili, arriva in questi giorni la proposta del governatore Stefano Bonaccini di candidare l’Emilia-Romagna per ospitare sulle sue coste uno dei due FRSU, ovvero le navi rigassificatrici commissionate a SNAM.
“Ancora una volta l’esacerbazione del conflitto russo-ucraino ci pone davanti la fragilità energetica del nostro Paese, che sta compiendo gravi passi indietro sul fronte della transizione.” – afferma Legambiente Emilia-Romagna – “Ci auguriamo che certe decisioni non vengano prese a cuor leggero, o addirittura con toni trionfalistici. Stiamo pagando alto il ritardo negli investimenti sulle rinnovabili”.
La scelta di accogliere il rigassificatore potrebbe rivelarsi un cavallo di Troia nella strategia energetica a medio termine della regione Emilia-Romagna: gli obiettivi del patto per il clima ed il lavoro (100% rinnovabile al 2035) così come gli obiettivi indicati all’interno del Piano Energetico Regionale (27% di rinnovabile sui consumi finali e -40% di emissioni di CO2 al 2030) richiedono di avviare già ora un processo di totale de-metanizzazione ed elettrificazione dei consumi sul territorio regionale.
La crisi energetica ha evidentemente messo in difficoltà i decisori politici, che tuttavia in questi giorni propongono di rispolverare progetti basati soltanto sulle fonti fossili. Alcuni di questi progetti sono al centro delle proposte del sindaco di Ravenna: oltre all’installazione del rigassificatore ha infatti proposto l’avvio di nuove attività estrattive di gas oltre le 12 miglia nell’Adriatico e l’investimento in tecnologie di cattura e stoccaggio della CO2.
“La situazione emergenziale che stiamo affrontando non deve dare linfa vitale a idee del passato, strategicamente errate e inefficienti”, commenta Legambiente, “ma dev’essere il volano per il rilancio energetico della nostra regione. Non vanno persi di vista gli obiettivi essenziali: efficientamento energetico, elettrificazione dei consumi e diffusione degli impianti per la produzione di energia da rinnovabili.”
Rinnovabili che trovano un piccolo spazio fra le righe delle proposte di de Pascale: l’unica eccezione al business-as-usual del fossile fra le 4 proposte è infatti il timido sì alla Realizzazione di un parco eolico offshore da 600MW di potenza con impianto fotovoltaico galleggiante annesso da 100MWp
“Da anni sosteniamo la realizzazione degli impianti eolici sulla costa romagnola, a Ravenna come a Rimini”, ricorda Legambiente. “Se si avviasse un processo di decommissioning delle piattaforme fossili oggi esistenti, parallelamente a una vera transizione energetica, la Romagna potrebbe giocare un ruolo chiave nel raggiungimento degli obiettivi energetici della regione e del paese. Purtroppo, si tratta di un potenziale ancora ignorato e vittima degli interessi a breve termine dei soggetti economici locali, decisamente legati all’estrazione del fossile e a un turismo non sostenibile.”
“Oggi è previsto un summit in regione con Cingolani e possiamo già prevedere le proposte che Bonaccini e De Pascale porteranno al Ministro, prima fra le quali il rilancio di nuove attività estrattive oltre le 12 miglia. Si tratta di operazioni che si riveleranno inutili, dato che le tempistiche ed i costi non potranno mai essere competitivi rispetto alla realizzazione di nuovi impianti a fonti rinnovabili. Al contrario, il Governo ritiene essenziale puntare su un mix energetico, dando maggior respiro a nuovi impianti rinnovabili. Continuare imperterriti con la politica energetica del passato è la prova definitiva che si sta sfruttando il periodo emergenziale per soddisfare le esigenze delle industrie del fossile”, conclude Legambiente.
L’Ufficio stampa
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PRESIDENZIALI-FRANCIA. La vittoria di Macron in Francia è di certo preferibile rispetto all’alternativa di Marine Le Pen. Ma ci consegna la realtà di un presidente sostanzialmente minoritario, che dopo cinque anni […]
Emmanuel Macron esprime il suo voto al ballottaggio del 24 aprile 2022 - Ap
La vittoria di Macron in Francia è di certo preferibile rispetto all’alternativa di Marine Le Pen. Ma ci consegna la realtà di un presidente sostanzialmente minoritario, che dopo cinque anni all’Eliseo si è fermato nel primo turno al 27.8% dei consensi.
È stato salvato dalla tradizione francese del patto repubblicano, ancora vitale se pure incrinata, che nel secondo turno ha sbarrato la porta alla destra e gli ha dato – con molte astensioni – il 58.5%.
Secondo le prime analisi, Macron ha raccolto un prevalente consenso di centro, con venature a destra. Ha preso voti delle realtà metropolitane e nei ceti medi e medio-alti. Ha perso invece voti tra gli ultimi e i penultimi, che hanno votato Le Pen (le campagne) e Melenchon (i giovani, le periferie urbane, gli ecologisti).
Le urne testimoniano un paese diviso, e arrabbiato. Lo ha riconosciuto lo stesso Macron nel discorso ai sostenitori dopo la vittoria.
Tutto questo probabilmente tornerà nelle elezioni legislative che seguiranno. È ampiamente possibile una maggioranza parlamentare diversa da quella presidenziale, con il partito di Macron in minoranza. Tornerebbe la coabitazione. Il dato è interessante, soprattutto ricordando che la dottrina francese era divisa sulla forma di governo e in specie sulla coabitazione.
Per alcuni era un inaccettabile punto di fragilità istituzionale, per altri un utile elemento del complessivo sistema di checks and balances.
Con una riforma costituzionale del 2000 (2000-964) e una legge organica del 2001 (2001-419) si chiuse la querelle, abbreviando la durata del mandato del presidente da sette a cinque anni, e ponendo il voto legislativo in immediata successione a quello presidenziale. Si pensava così a un effetto di trascinamento che avrebbe garantito al presidente neo-eletto la “sua” maggioranza in parlamento, con un rafforzamento del ruolo istituzionale e una migliore governabilità.
Non è andata così per Macron, da nessun punto di vista. Avere una ampia base parlamentare dopo la sua prima elezione non lo ha rafforzato né gli ha evitato una progressiva emorragia di consensi. Una prova è stato il movimento dei gilet gialli.
In sintesi, potremmo dire che il Macron di oggi è la prova dell’effetto non conclusivo e univoco delle riforme del 2000 e 2001. Ne dovrebbero trarre insegnamento i riformatori professionali di casa nostra.
Il sistema francese, insieme a quello britannico, è stato a lungo presentato dai fan della stabilità e della governabilità come modello da importare nel nostro paese. Un modello iper-presidenzialista da preferire anche a quello classico degli Stati Uniti, responsabile di un presidente troppo debole nei confronti del congresso nella politica interna. Tra i principali argomenti a sostegno di tale apprezzamento possiamo ricordare il richiamo alla funzione unificante dell’elezione formalmente o sostanzialmente diretta del capo dello stato o del governo.
Questo poteva forse avere un senso, se mai lo ha avuto, in società largamente omogenee, con una classe media ampia e in espansione, e con una distribuzione ragionevolmente equilibrata della ricchezza. In siffatte società un impianto maggioritario poteva reggere un sistema politico tendenzialmente bipartitico o bipolare, portatore di programmi elettorali in buona parte simili. Poteva avere un senso il mantra per cui la vittoria elettorale si conseguiva convergendo verso il centro.
La realtà di oggi è diversa.
In società prive di un solido tessuto connettivo di formazioni politiche organizzate, a frammentazione e diseguaglianze crescenti, l’elezione diretta radicalizza e divide. E l’opzione maggioritaria applicata a una elezione legislativa o distorce in misura inaccettabile il voto, o – come potrà accadere in Francia – conferma la divisione.
Chi nel centrodestra si ostina a proporre riforme in chiave di elezione diretta dovrebbe riflettere. E ancor più dovrebbe riflettere chi discute in parlamento di una nuova legge elettorale, comunque non facile da cambiare, perché il centrodestra alzerà probabilmente un muro. Qualcuno vorrebbe un maggioritario a doppio turno. La Francia insegni.
Non è utile occultare artificialmente nei numeri parlamentari le faglie sociali che generano conflitto e malessere. Meglio rappresentarle e sperimentare la via della politica. La forma di governo parlamentare e una buona legge elettorale proporzionale che rafforzi le assemblee e i soggetti politici che in esse operano sono la ricetta migliore per l’Italia.