L'attore di Villanova di Bagnacavallo morto a 77 anni dopo il ritiro: «Recitare cambia la vita». Il legame con la Romagna, i matrimoni, la cacciata dal Pci, il voto per Grillo, la candidatura con Tsipras
Ivano Marescotti è stato uno dei più grandi figli-padri-maestri di una cultura eterna come quella del Carro dei Tespi. Un predicatore di teatro, che girava ovunque lo chiamassero, non aveva nemmeno bisogno di quattro assi per andare in scena. È morto sabato sera all’ospedale di Ravenna, aveva 77 anni compiuti il 4 febbraio. Tumore, una malattia che aveva già affrontato un quarto di secolo fa, lo aveva attaccato e fatto soffrire a lungo, come adesso: ne era uscito, proprio la sera in cui tornò su un palco seppe che suo figlio Mattia era morto, a 44 anni, tumore. Era un girovago ironico, amaro, comico, amava la poesia romagnola, Raffaello Baldini in testa, e uno scrittore acido come Pierre Lemaitre, il volto scavato, gli occhi mefistofelici come i suoi. «Per essere attori – diceva, citando la sua amica Piera Degli Esposti – bisogna calarsi nel proprio buio profondo, per risalire poi, portandosi alla luce».
Il ritiro e l'insegnamento
Era dionisiaco, come Tespi, inventore della tragedia greca. Era partito anche lui su un carro nemmeno troppo metaforico, una ventina di anni fa gli avevano dato la direzione del teatro di Conselice, in quella piana di Ravenna dove era nato, a Villanova di Bagnacavallo, e sempre tornato. Con il terzo matrimonio, quando già il male già covava, si era fermato, ritirandosi da teatro, cinema, tv per dedicarsi interamente all’insegnamento nell’accademia di recitazione con il suo nome, fondata a Marina di Ravenna. «Recitare cambia la vita. È qualcosa che sconvolge il carattere, che capovolge il modo di vedere le cose anche dopo decenni che erano così immutevoli e ferme. Il teatro smuove e muove. Non fa teatro chi vuole fare l’attore. Fa teatro chi vuole scoprire cose che non sapeva di sapere e non ha paura di scoprire». Con Andrea Mingardi ha inciso, cappellacci e baffoni alla Passator Cortese, «Emilio Romagno». «Mi chiamo Emilio Romagno/ fra Don Camillo e Peppone compagno/ Mi piace la terra/ e anche la gente che non sa stare senza far niente».
La famiglia e gli amici
Versione romagnola di Testi, aveva sposato in seconde nozze Ifigenia Kanarà, greca, femminista amorosa e decisa, avevano avuto una figlia di intelligenza vivacissima, Iliade, ora ventenne, abitavano in fondo a via Galliera a Bologna, palazzo anni 60, vedevano i tetti. Con la moglie aveva fondato la società Nekamè (servo, lascia che) poi diventata Patàka, lingua maori, patacca romagnola grecizzato, che dal 2002 si era occupata del teatro di Conselice. Un anno fa Marescotti aveva sposato Erika Leonelli, 49 anni, legale in un’azienda ravennate, già allieva al Tam, il Teatro accademia Marescotti. Era nelle file in Palazzo d’Accursio a Bologna davanti al feretro di Lucio Dalla, con cui progettava spettacoli autogestiti di artisti bolognesi non famosi. Era a quello di Maurizio Cevenini, il politico uccisosi per le durezze della politica. «Diceva di sentirsi ormai solo un presentatore e che non faceva nemmeno più ridere. Terribile», raccontava. Non era a nessuno dei funerali religiosi dei quasi-amici.
Da Benigni a Ridley Scott
Aveva avuto successo come caratterista in film di cassetta e importanti, da Benigni a Zalone, ha vinto un Nastro d’Argento dei critici («L’han vest giost lour») con lo sconosciuto nel cortometraggio Assicurazione sulla vita di Tommaso Cariboni e Augusto Modigliani. Rideva di tre parti internazionali, come vescovo guerriero in «King Arthur», come capitano dei carabinieri in «Il talento di Mr. Ripley», assassino sardo in «Hannibal». «La mia faccia chissà cosa ispira agli stranieri». Custodiva, raccontava, inventava la memoria in ogni parte. Le stragi terroristiche, le cooperative, gli scariolanti, il nazifascismo, la miseria, le insurrezioni, mamma Speranza e babbo Amleto «un partigiano che non aveva mai studiato e aveva dedicato tutta la sua vita al lavoro nei campi». Scriveva, dirigeva, recitava, riscriveva Dante (Dante, un patàca) e Ariosto (Bagnacavàl, Orlando furioso in Romagna).
La delusione della politica
È stato costantemente deluso dalla politica amatissima. Fu cacciato dal Pci per «frazionismo» («Non sapevo cosa voleva dire. Lo scoprii quando a Genova, dove cercavo di cominciare a fare l’attore in una comune, arrivarono i carabinieri pensando fossimo brigatisti rossi»), ha votato Grillo, si è candidato alle elezioni europee 2014 nella lista Tsipras (ah, la speranza greca). «La Rai mi cancellò dagli schermi. Presi 12.837 voti. Primo dei non eletti. Il patto era che a metà mandato gli eletti si dimettevano per la rotazione. Nessuno mollò il posto. Solo Moni Ovadia se ne andò subito, primo nel Nord Ovest. Io ero nel Nord Est».