IRAN. Un anno fa la morte in custodia della polizia di Mahsa Amini: indossava male il velo. Il 16 settembre 2022 nasceva il primo movimento guidato da donne in un paese islamico. Il regime si prepara ll’anniversario con arresti, minacce, droni e migliaia di milizie
L’immagine di Mahsa Amini a una manifestazione a Berlino - Ap
Centinaia di arresti preventivi, licenziamento dei docenti universitari e degli insegnanti più critici, minacce alle famiglie delle vittime, obbligo per gli attivisti di prendere l’impegno, per iscritto, di non partecipare alle eventuali manifestazioni: così la Repubblica Islamica si è preparata ad affrontare l’anniversario della morte di Mahsa Amini. Come se non bastasse, sono state installate telecamere 3d con software sofisticati per il riconoscimento facciale in ogni angolo della città, e addestrate milizie, che saranno assistite dai droni, per soffocare eventuali disordini sul nascere.
UN ANNO FA si diffondeva la notizia della morte di Mahsa Amini, ventiduenne, fermata pochi giorni prima dalla polizia morale a Teheran perché indossava in maniera non corretta il velo obbligatorio. La notizia viene divulgata da una giovane giornalista, Niloofar Hamedi, e il funerale viene raccontato da un’altra collega, Elaheh Mohammadi. Entrambe vengono arrestate e rimangono tuttora in carcere.
La straziante morte di Mahsa enfatizza la discriminazione, la libertà negata e la
negazione del corpo delle donne che da 44 anni regna nel Paese. Migliaia di raduni improvvisati di protesta dilagano nelle piazze, nelle università e nelle scuole da nord a sud. Giovani donne bruciano i loro veli in raduni festosi, alcune si tagliano i capelli in segno di lutto. Le proteste raggiungono villaggi e città periferiche, coinvolgendo le classi più fragili, anche nei territori tradizionalmente più conservatori e religiosi. La partecipazione nelle aree etniche in Kurdistan e Baluchistan è totale, manifestazioni e scioperi paralizzano intere città.
Nel cuore della società autocratica iraniana, con il suo alto grado di violenza istituzionalizzata, nasce il movimento “Donna, Vita, Libertà”. Un movimento guidato delle donne per la prima volta in un paese islamico, che sfida le norme tradizionali, religiose, discriminatorie e autoritarie.
I manifestanti non sono ispirati da una specifica ideologia o leadership e non fanno affidamento sulle tradizionali istituzioni ereditarie e religiose e sulle loro basi. Le rivendicazioni sono semplici, moderne e democratiche. Sostengono i diritti delle donne e sono contro la diffusa discriminazione di genere, di origine etnica e di credo.
L’ESTABLISHMENT islamico, colto di sorpresa, fatica inizialmente a reagire. La mancanza di leadership organizzativa del movimento rende incapace il governo di colpire i capi per sedare la ribellione. Allora mette in atto una violenta repressione generalizzata. Migliaia di poliziotti antisommossa e gruppi di Basij, milizie religiose, affrontano i manifestanti. Contro i ribelli, spesso pacifici, vengono usate pallottole letali, lacrimogeni, pallini di metallo come proiettili e manganelli. Le soluzioni proposte da diversi leader riformisti, tra cui i due ex presidenti Mohammad Khatami e Mir-Hosein Musavi, si scontrano con il muro di indifferenza dell’establishment. Musavi propone di tenere un «referendum libero per modificare o redigere una nuova costituzione», mentre Khatami chiede riforme basate sulla costituzione esistente.
La sperata apertura del sistema alva incontro al netto rifiuto di Khamenei, leader della Repubblica Islamica, e dei personaggi chiave del regime. La chiusura è totale, nessuna mediazione e nessuna concessione.
La repressione è l’unica risposta. In pochi mesi vengono uccisi oltre 500 manifestanti, migliaia feriti e oltre 20.000 arrestati.
L’immagine di Mahsa Amini viene portata come segno di protesta durante una manifestazione foto di Safin Hamid /Getty Images
LA PERCEZIONE generale è che senza un mutamento totale del sistema non sia possibile nessun cambiamento. I media di lingua persiana trasmessi all’estero, spesso finanziati da paesi avversari, e una parte dell’opposizione in diaspora creano illusione e ottimismo sulla capacità del movimento di smantellare il sistema in modo rapido e veloce, sottovalutando il potere di repressione del governo e l’assenza di un’alternativa, che è il punto fragile del movimento. Invece di raccontare, questi media si trasformano in attivisti, e invece di riflettere e analizzare gli eventi agiscono in modo selettivo e fazioso.
NON AVENDO connotazioni economiche il movimento non trova un collegamento con i sindacati e le rivendicazioni e le proteste di classe degli operai e degli impiegati. La passività dei riformatori religiosi e coloro che hanno legami economici e culturali con il regime aumenta la sua capacità di repressione e impedisce la partecipazione delle masse.
La violenta repressione, il rischio di una guerra civile, il timore realistico di un futuro sconosciuto sommato alla crisi economica che devasta il potere d’acquisto della maggioranza della popolazione causano paura, dubbio e passività. Dopo 5 mesi, nonostante la grande empatia della popolazione, le manifestazioni si intiepidiscono e il governo riesce infine a frenarle.
TUTTAVIA, l’idea di aver schiaciato il desiderio di cambiamento delle iraniane e degli iraniani è ben lungi dall’essere realtà. Il movimento dà un nuovo volto alla protesta, la disobbedienza civile diventa strumento della battaglia sociale e politica. Le coraggiose ragazze iraniane continuano a mostrarsi senza velo in pubblico malgrado l’opprimente campagna di terrore contro coloro che rifiutano di indossare l’hijab obbligatorio. È evidente che le conquiste morali, psicologiche e culturali del movimento sono irreversibili. La transizione verso la libertà e la democrazia in Iran continua inesauribilmente il suo lungo cammino