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La Turchia apripista, verso un fronte di guerra peggiore

Stiamo facendo tutti finta di non vedere quel che sta per accadere in Siria: una guerra di ancora più vaste proporzioni che va ad aggiungersi a quella in corso che l’Occidente ha alimentato sostenendo radicalismi armati di ogni genere purché fossero contro Assad. Sarà un caos belli così devastante che l’abbattimento del jet russo da parte dell’aviazione turca — vero apripista di questo scenario caotico e micidiale — sembra un piccolo incidente di passaggio.

Dopo gli attentati di Parigi, la Francia dello stato d’emergenza ha avviato la sua guerra di vendetta contro lo Stato islamico, ma alla fine pronta a coordinare le azioni militari con la Russia già sul campo. Perché l’aviaziona russa era nel frattempo intervenuta di fronte alla débâcle del fronte occidentale, quella coalizione degli «Amici della Siria» — dagli Usa, ai Paesi europei alle petromonarchie del Golfo — impossibilitata a sbrogliare la matassa siriana dopo averla imbrogliata fino alla distruzione attuale. La risposta all’intervento russo non si è fatta attendere, con la bomba sull’aereo civile da parte dell’Isis e con l’abbattimento del jet militare Sukhoi da parte dell’aviazione di Ankara, grande sponsor dell’Isis. L’intervento militare anti-russo del Sultano atlantico Erdogan è stato indirizzato a far fallire ogni possibilità di essere esclusi dalla spartizione della Siria e dalle mire contro l’Iran. E quindi contro i risultati «unitari» del vertice di Antalya che, proprio in Turchia, aveva visto il riavvicinamento tra Putin e Obama.

La china presa dai nuovi annunci d’intervento armato nell’area, è un precipizio che sembra premiare proprio l’intraprendenza criminale di Erdogan, non a caso baluardo Nato. Accade così che la Gran Bretagna, nonostante i pacifisti e la volontà del leader laburista Corbyn, sia avviato verso i bombardamenti e già la Raf scalda i motori nella base britannica di Akrotiri a Cipro; che il segretario alla difesa Usa Carter annunci «stivali a terra» in Iraq, per operazioni mirate e addirittura in Siria per «operazioni unilaterali».

Accade che Netanyahu riveli che raid e operazioni coperte israeliane siano ormai in corso in territorio siriano; che arrivino truppe e aerei tedeschi fuori da ogni logica di legittimità dopo il passato della Germania ora riunificata; e che Federica Mogherini Mister Pesc cerchi un nuovo bis: mentre Renzi dichiara di non volere una «Libia bis», la rappresentante Ue chiama a responsabilità, per Siria e Libia, la Nato, cioè la protagonista dei raid che, con l’abbattimento di Gheddafi, hanno aperto il varco ai jihadisti e ai loro santuari verso Siria, Tunisia, Iraq e Mali. Si allarga dunque la scena bombardante, dei paesi che corrono alla spartizione della terra siriana e ad un ipotetico quanto lontano tavolo dei negoziati, pronti a gridare «vittoria»: ma chi avrà diritto a sedersi al tavolo dei vincitori, davvero non è chiaro.

Chiaro è che Damasco fa sapere che ogni azione militare, su terra e dal cielo, che non sia concordata — come quelle russa e francese — con il governo siriano è considerata «aggressione»: e si riferisce al ruolo dell’esercito di Ankara, a quello britannico e degli Stati uniti, per non parlare dei raid israeliani. La guerra dunque si allarga ancora di più. Mentre Obama ripete — come una litania — «Assad se ne deve andare», dimenticando che proprio per mandare via Assad la sua coalizione dal 2012 a alla fine del 2014, quando gli Usa si sono «ravveduti», ha sostenuto proprio il nemico jihadista. È certo e sicuro che Assad dovrà uscire di scena, probabilmente nell’arco di un anno; la Russia dice che deve decidere il suo popolo. Ma ora non a caso proprio la Francia con il ministro degli esteri Fabius sembra legittimare «con l’esercito libero siriano» anche l’«esercito di Damasco» come le vere truppe di terra da valorizzare.

Mentre Obama pronuncia la cantilena «Assad se ne deve andare», invece sostiene Erdogan e il suo spazio aereo: il Sultano che massacra il suo popolo kurdo, che fa strage dell’opposizione e stralcia i diritti umani arrestando giornalisti che denunciano i traffici sporchi di Ankara con l’Isis. No Erdogan non solo non se ne deve andare, ma l’Ue gli regala 3 miliardi di euro per recintare e arrestare migranti, mentre il vertice Nato è corso in suo aiuto contro l’«aggressività russa nell’area». E mentre «Assad se ne deve andare», la monarchia saudita, santuario finanziario e in armi dello Stato islamico, va invece tenuta naturalmente e saldamente al suo posto.

Il circo di menzogne fa davvero paura. Ma siamo «tranquillizzati» finalmente dal ministro Angelino Alfano: scopriamo infatti i foreign fighters, ora li snidiamo e li arrestiamo. Erano 20mila dall’Europa e altrettanti dagli Usa, denunciava Obama un anno fa. Ma nessuno si è chiesto com’è stato possibile che decine di migliaia di giovani siano partiti dalle capitali europee ( e dalel città americane) e poi arrivati in Medio Oriente quando non direttamente in Turchia per essere addestrati, senza che una sola intelligence occidentale avesse da dire nulla negli ultimi quattro anni? Adesso «li scoprono». E prima? Prima chiudevamo tutti e due gli occhi, perché «Assad se ne deve andare». E così in questi giorni «scopriamo» le cellule islamico-kosovare in Italia e, dice il procuratore di Pristina, che «300 combattenti kosovari sono partiti per la Siria». È davvero una «bella» scoperta, per una «nazione», il Kosovo, che vive intorno — come la caramella col buco — alla mega-base Usa e Nato di Camp Bondsteel presso Urosevac, una «nazione» ora etnicamente ripulita con un milione e 700mila abitanti, grande quanto il Molise e inventata dai bombardamenti Nato del 1999, considerata un narcostato dall’Onu e con il 50% di disoccupazione nonostante finanziamenti in percentuale superiori a quelli degli organismi internazionali verso l’Africa. E dove non si muove foglia che l’Alleanza atlantica non voglia e non sappia: davvero una «rivelazione».

Ma forse qualcosa deve essere sfuggita anche alla Nato, se ieri per allargare l’orizzonte, ha chiesto anche al Montenegro di entrare nell’Alleanza atlantica che si allarga sempre più a est. Abbiamo creato deserti che chiamiamo pace. E la guerra ci ritorna in casa.

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181 paesi hanno definito un percorso che potrebbe consentire di limitare a 2,7 °C l’aumento di temperatura rispetto al periodo preindustriale. Siamo ancora distanti dalla definizione di sforzi coerenti con uno scenario che eviti di sorpassare i 2 °C, ma si intravvede finalmente un cammino globale di controllo delle emissioni.
La Conferenza sul clima di Parigi si è cautelata rispetto al rischio di un fallimento analogo a quello registrato a Copenaghen nel 2009, quando si era cercato senza successo di estendere lo sforzo di contenimento delle emissioni climalteranti a tutti i paesi del pianeta.
Questa volta, infatti, è stata prevista l’individuazione di obiettivi climatici da parte dei singoli paesi prima dell’appuntamento delle Nazioni Unite, obbligando in questo modo a compiere uno sforzo di analisi e di proposte. Un criterio bottom-up che ha portato necessariamente ad approcci molto diversi tra loro. I piani più rigorosi, come quelli dell’Europa e degli Usa, indicano riduzioni assolute delle emissioni, mentre in quelli di molti paesi in via di sviluppo sono previste riduzioni rispetto ad uno scenario tendenziale condizionate all’ottenimento di risorse finanziarie.
Ma è un fatto che 181 paesi hanno definito un percorso che potrebbe consentire di limitare a 2,7 °C l’aumento di temperatura rispetto al periodo preindustriale. Siamo ancora distanti dalla definizione di sforzi coerenti con uno scenario che eviti di sorpassare i 2 °C, ma si intravvede finalmente un cammino globale di controllo delle emissioni.

Ricordiamo che i 36 paesi industrializzati

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 Una guerra ingiusta ma utile? Parigi Rossana Rossanda

La Francia, non contenta del disastro senza via di uscita provocato in Libia dall’ignoranza di Sarkozy, reitera errore e vittime in Siria, attirandosi addosso – a proposito di guerre «utili» - l’attacco di quella parte del Daesh come movimento che filtra anche sul territorio dell’Europa occidentale.

Vedo che la «guerra giusta» di Norberto Bobbio, contro la quale ci eravamo battuti, riappare travestita da guerra «utile», ma non è una gran trovata. Utile per chi? Ogni guerra è sempre utile a una delle due parti in causa, almeno a breve termine, quindi il giudizio di valore va sempre spostato sulla causa del conflitto, mentre il metodo di risolverlo con una guerra va sempre rifiutato. Ricordiamoci di come apparve la seconda guerra mondiale a Gandhi e a molte parti del mondo non occidentale; se si è contro la guerra, non è possibile una guerra giusta, la guerra va misurata non nei termini dei rapporti di forza che ha prodotto, ma va rifiutata sempre per la quantità di vittime che produce. Non è semplice, perché - per esempio - io non tendo a definire «ingiusta » la seconda guerra mondiale perché i milioni di morti da ambedue le parti l’hanno subita; eppure, per la mia generazione, sulla vita dei cittadini i governi non dovrebbero aver potere di vita o di morte (come nel caso della soppressione della pena di morte).

In verità, per le guerre questo potere gli è lasciato - e non dovrebbe esserlo - con l’argomento per cui Daesh non si potrebbe danneggiare o sconfiggere in altro modo, anche perché si tratta di un nemico diffuso e meno esposto di quanto non sia un paese con il suo stato, con un territorio preciso dove si dispiegano eserciti, fortificazioni, industrie militari, sistemi di trasporto. In realtà, anche Daesh è più presente e concentrato in certi territori e, soprattutto, i mezzi militari gli sono forniti nientemeno che dall’Occidente, al più attraverso la mediazione di un altro paese. Nel caso della Turchia questa mediazione non è necessaria perché nella coalizione internazionale contro Daesh nessun altro stato partecipa alla guerra contro i curdi, che per Ankara sono il principale nemico. Il lancio di un missile turco contro l’aereo militare della Russia, che è in guerra contro Daesh ma non contro i curdi, ne è un segnale minaccioso, tranquillamente sopportato dall’Occidente.

In verità, la guerra nel Medio Oriente ha presentato e presenta sovente, a partire dall’Afghanistan, diversi fronti, anche in parte nascosti, aspetto che non è l’ultima delle sue specificità; essa mette in rilievo le ragioni per cui il più vasto movimento pacifista dei tempi recenti le è nato contro. E non solo i civili ne sono regolarmente le vittime (a ogni attacco, specie aereo) ma, come in tutti i conflitti con una forte componente ideologica, le parti non corrispondono nettamente a un territorio ben definito. Insomma, il carattere particolarmente brutale e non giustificabile delle guerre è qui singolarmente evidente.

La Francia, non contenta del disastro senza via di uscita provocato in Libia dall’ignoranza di Sarkozy, reitera errore e vittime in Siria attirandosi addosso – a proposito di guerre «utili» - l’attacco di quella parte del Daesh come movimento che filtra anche sul territorio dell’Europa occidentale, figlio non soltanto (anche se in buona parte) del disagio sociale, ma di una disperazione più interiorizzata e profonda che ha portato sinora giovani francesi e belgi a concludere le azioni omicide attivando le cinture esplosive e togliendosi la vita. Non ci si racconti che attendevano di essere accolti nell’aldilà da centinaia di vergini vogliose, disperavano della vita in terra, senza nulla che le dia un senso umano o sovrumano. Manca nel nostro mondo il solo elemento in grado di sconfiggere Daesh, cioè un senso umano o oltre umano che non sia il successo nel denaro, che non a caso essi bruciano, o lo spettacolo inteso in senso proprio come distrazione dal reale

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Referendum. Il sì della Cassazione. Ieri manifestazione No Triv ad Ancona, 700 persone in piazza anche da Abruzzo e Romagna

I quesiti delle regioni ’No Triv’ hanno superato il delicato vaglio della Cassazione. E ora non resta che aspettare l’anno nuovo per il pronunciamento definitivo della Corte Costituzionale. Hanno segnato un altro gol le dieci regioni che hanno deciso di ricorre al referendum per l’abrogazione di alcune parti dell’articolo 38 dello Sblocca Italia e dell’articolo 35 del Decreto sviluppo. Venerdì scorso l’ufficio centrale per il referendum presso la Corte di Cassazione ha ultimato la verifica di legittimità della procedura per la presentazione di sei referendum abrogativi. Il risultato è positivo. «Un altro passo avanti» per Piero Lacorazza (Pd), presidente del consiglio della Basilicata, capofila delle regioni in polemica con il governo. «Il sì della Cassazione è un buon punto di partenza, che testimonia l’ottimo lavoro tecnico — giuridico che è alla base dell’iniziativa referendaria», conclude con giustificato orgoglio. Una notizia «che sta passando nelle cronache senza troppa enfasi ma che riveste un’enorme importanza, tanto più a distanza di poche ore dall’apertura della conferenza internazionale di Parigi sui cambiamenti climatici», spiega Serena Pellegrino (Si — Sel) vice presidente commissione Ambiente alla Camera.

Ora si attende il parere finale della Consulta. Nel frattempo il 9 dicembre a Roma torneranno a riunirsi delegati delle Regioni promotrici dei sei quesiti referendari (oltre alla Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Abruzzo, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise) contro le procedure autorizzative delle attività petrolifere previste dall’art. 38 della legge Sblocca Italia e, per quanto riguarda le trivelle in mare, dall’art. 35 del Decreto sviluppo. Le Regioni si consultano, spiega Lacorazza, «per essere pronte se le norme in questione non dovessero cambiare, cosa che comunque auspichiamo. L’obiettivo è restituire ai territori la possibilità di partecipare alle decisioni che li riguardano, per ripristinare il principio di leale collaborazione fra Stato e Regioni e migliorare l’efficienza delle istituzioni pubbliche senza trascurare il percorso democratico». Grande soddisfazione anche per Antonio Mastrovincenzo, presidente del consiglio regionale delle Marche. Proprio ieri ad Ancona si è svolto un corteo di 700 persone, arrivate tutte le Marche ma anche dall’Abruzzo e dalla Romagna, contro le trivellazioni in Adriatico autorizzate dallo Sblocca Italia. <TB>m.t.a.

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Sulla vicenda del licenziamento di una lavoratrice da parte della cooperativa Agrintesa di Faenza, contro la quale il sindacato ha fatto ricorso perché basato su una palese discriminazione, vi proponiamo una breve rassegna stampa e una presa di posizione della lista L'Altra Faenza.

Da “Il Resto del Carlino” cronaca di Faenza del 21 .11.2015
Sindacalista licenziata, ricorso contro Agrintesa
LA FLAI Cgil di Ravenna ha presentato ricorso contro la cooperativa faentina Agrintesa per condotta antisindacale. 11 sindacato interviene riguardo al licenziamento di una lavoratrice, impegnata nella stessa Flai e candidata alle elezioni per il rinnovo della Rsu.
«L'azione legale ­ sostiene la Flai Cgil ­ si basa su una palese discriminazione perpetuata da Agrintesa ai danni della lavoratrice. La donna e stata licenziata per rappresaglia, in quanto intende candidarsi nuovamente per le prossime elezione per il rinnovo della Rappresentanza sindacale
unitaria». Per il segretario pro­vinciale della Flai Raffaele Vici­ domini, «il licenziamento della donna e solo l'ultimo di una Se­rie di atti perpetrati ai suoi danni fin dalla sua prima elezione nella Rsu». «Agrintesa riferisce il sindacato ­ ha motivato il licenziamento con l'indisponibilità del­ la lavoratrice, legata da un rapporto di avventiziato agricolo, a effettuare alcune giornate di lavoro. L'impossibilita a recarsi al lavoro, dovuta tra l'altro a una delicata situazione familiare, era stata ampiamente giustificata».
Per la Flai «non può essere solo una coincidenza il fatto che il giorno in cui la donna si e recata al lavoro, Agrintesa le ha conte­stato di non avere svolto corretta mente il suo compito e per questo e stata sospesa in via cautelare e poi licenziata in tronco.

Da “La Voce di Romagna” cronaca di Faenza del 21.11.2015
Operaia licenziata Via al ricorso contro la coop faentina Agrintesa 
La Flai Cgil di Ravenna ha presentato ricorso contro la coop faentina Agrintesa per condotta antisindacale: "L'azione legale ­ spiega in una nota ii sindacato ­ si basa su una palese discriminazione perpetuata da Agrintesa ai danni della lavoratrice che e componente della Rsu dal 2006. La donna e stata licenziata per rappresaglia, in quanto intende candidarsi nuovamente per le prossime e­ lezione per ii rinnovo della Rappresentanza sindacale". "Reputiamo ii licenziamento illegittimo, immotivato e discriminatorio ­ commenta ii segretario provinciale delta Flai Cgil, Raffaele Vicidomini ­ per cui ci siamo rivolti alle vie legali per tutelare, innanzitutto, la lavoratrice e tutti i lavoratori che intendono esercitare attività sindaca­ le senza che questi subiscano ritorsioni". Secondo la Cgil, "il licenziamento della donna è solo l'ultimo di una serie di atti persecutori perpetrati ai suoi danni. Agrintesa motive il licenziamento per l'indisponibilità della lavoratrice, legata da un rapporto di avventiziato agricolo, a effettuare alcune giornate di lavoro. L'impossibilità a recarsi al lavoro, dovuta tra l'altro a una delicata situazione familiare, era stata ampiamente giustificata. E non pub essere solo una coincidenza il fatto che il giorno in cui la donna si e recata al lavoro, Agrintesa le ha contestato di non avere svolto correttamente il suo compito e per questo e stata sospesa e poi licenziata in tronco.

Da “Il Corriere di Romagna” del 21.11.2015
Agrintesa, Il sindacato annuncia ricorso: «Lavoratrice licenziata ingiustamente» L'azienda replica «Lei è stata scorretta» 
FAENZA. La Flai Cgil ha presentato ricorso contro la cooperativa faentina Agrintesa per condotta antisindacale. L'azione legale si baserebbe su una ventilata «discriminazione perpetuata da Agrintesa ai danni di una lavoratrice che è componente della Rsu dal 2006». La donna sarebbe stata licenziata «per rappresaglia, in quanto intende candidarsi nuovamente per le prossime elezione per il rinnovo della Rappresentanza sindacale unitaria.
Siamo di fronte a un licenziamento discriminatorio ­ commenta il segretario provinciale della Flai Cgil, Raffaele Vicidomini ­. Reputiamo il licenziamento illegittimo e immotivato per cui ci siamo rivolti alle vie legali per tutelare, innanzitutto, la lavoratrice e tutti i lavoratori che intendono esercitare attività sindacale senza che questi subiscano ritorsioni o discriminazioni».
Agrintesa motiva il licenziamento per l'indisponibilità della lavoratrice, legata da un rapporto di avventiziato agricolo, a effettuare alcune giornate di lavoro. «L'impossibilita a recarsi al lavoro, dovuta tra l'altro a una delicata situazione familiare, era stata ampiamente giustificata ­ aggiunge Vicidomini ­. La decisione di Agrintesa non trova giustificazioni ed evidenzia ulteriormente le criticità, sotto il profilo dei diritti, che il mondo del lavoro sta vivendo. • Anche per questo, la Flai Cgil metterà in campo tutte le azioni necessarie a tutela della lavoratrice», «La signora si e resa responsabile di comporta­ menti non corretti rispetto all'aspetto contrattuale della disciplina lavorativa ­ dichiara in proposito il direttore del personale di Agrintesa, Franca Camporesi ­.
Se in quei giorni non poteva venire a lavorare, era sufficiente che mandasse una giustificazione, un'azione questa che non ha mai compiuto. Da qui prima la sanzione disciplinare e poi il licenziamento. Agrintesa e un'azienda storica e solida, con oltre 2.000 dipendenti. Non ci permetteremmo mai di mettere in atto azioni antisindacali».

 

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Marco Revelli da "Il Manifesto" del 19.11.2015

Ma anche perché la guerra è entrata nella testa dei nostri governanti, nell’agenda e nel lessico delle istituzioni europee, ne ha colonizzato l’immaginario e i protocolli, il linguaggio dei leader e gli ordini del giorno delle assemblee parlamentari.
Il socialista Francois Hollande — il presidente della Francia repubblicana, un tempo emblema delle libertà politiche e dei diritti dell’uomo — che parla con le parole di Marine Le Pen è il simbolo, tragico, di questa metamorfosi regressiva. Il governo “de gauche” francese, che si propone di modificare la Costituzione fino a intaccare le regole sacre dei diritti individuali e addirittura a ipotizzare il ritorno alla pratica primordiale della «proscrizione» — della cancellazione della cittadinanza per i reprobi che «non ne sono degni» trasformandoli in “eslege” -; e poi, appellandosi all’art. 42.7 dei Trattati, trascina l’Europa intera nella sua guerra — in un formale «stato di guerra» -, non rivela solo il compiuto fallimento del socialismo europeo, diventato col tempo non solo altro da sé ma l’opposto di se stesso. Mette in mostra anche uno «stato dell’Unione» ormai gravemente degenerato, incapace di tener fede nemmeno alla più elementare delle sue promesse originarie: tutelare la pace. Difendere i diritti. E intanto si rialzano muri e si chiudono confini contro le prime vittime di questa guerra di massa. Tutto questo la dice davvero lunga sul percorso a ritroso condotto in questi anni di crisi e di resa. E sull’urgenza che, a livello continentale, nasca e si consolidi una sinistra autorevole in grado di colmare quel vuoto. Una sinistra con le carte in regola — e senza scheletri negli armadi, bombe sulla coscienza e operazioni neo-coloniali nel curriculum — per parlare di pace, di giustizia sociale internazionale, di diritti (degli ultimi) e di doveri (dei primi).
I segni dell’emergere di una sinistra nuova, capace di emanciparsi dalla crisi delle socialdemocrazie novecentesche e di ritornare a contare nello scenario inedito attuale sono d’altra parte già visibili, soprattutto sull’asse mediterraneo, dalla Grecia, naturalmente — dove la riconferma del mandato a Tsipras con un voto plebiscitario fa di Syriza un punto fermo di contraddizione e di resistenza nel contesto europeo -, al Portogallo come alla Spagna. E anche in Italia, finalmente, le cose si sono messe in movimento. Il documento Noi ci siamo. Lanciamo la sfida, elaborato e condiviso da tutte le principali componenti di un’articolata area di sinistra — da Sel al Prc, da Futuro a sinistra a Possibile e ad Act, fino a Cofferati e Ranieri e, naturalmente a L’Altra Europa che per questa soluzione si è spesa senza risparmio -, indica finalmente una data, la metà di gennaio, per dare inizio al processo costituente con un appuntamento partecipato e di massa. E contemporaneamente offre una piattaforma politica di analisi e di prospettiva chiara e condivisa in una serie di punti qualificanti: la fine conclamata del centro-sinistra, la constatata natura degradata del Pd oggi incompatibile nel suo quadro dirigente con qualsiasi prospettiva di sinistra, la necessità di costruire, in fretta, un’alternativa autonoma, non minoritaria né testimoniale, competitiva e credibile.
Nello stesso tempo si lavora nelle città che andranno al voto nelle prossime amministrative: è di sabato scorso la formalizzazione, a Torino, di una candidatura forte,

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