La mobilitazione Il segretario della Cgil spinge per l'election day: accorpare il voto sui quesiti contro Jobs Act e per la cittadinanza ai nati in Italia da genitori stranieri. Chiesto un incontro al governo: "Favorisca la partecipazione". Via alla campagna referendaria anche a Palermo e a Napoli. Si voterà tra il 15 aprile e il 15 giugno
Bologna, Paladozza - Il segretario Cgil Maurizio Landini all'assemblea generale del sindacato – Michele Nucci / LaPresse
Un «Election Day» in cui votare sia per le elezioni amministrative che per i referendum contro il Jobs Act e per la cittadinanza ai nati in Italia da genitori stranieri che si dovranno tenere comunque tra il 15 aprile e il 15 giugno. È la richiesta che la Cgil, insieme al comitato per il referendum sulla cittadinanza, ha fatto alla presidente del consiglio Giorgia Meloni. Il segretario Maurizio Landini le ha chiesto un incontro dal palco dell’assemblea generale del sindacato che si è chiusa ieri al Paladozza di Bologna.
«L’election day sarebbe un’occasione per evitare di spendere soldi visto che tra l’altro nel nostro Paese esiste un problema di risorse – ha detto Landini – Credo che sarebbe una cosa intelligente e sarebbe anche un modo per favorire la partecipazione». Un incontro sarà chiesto anche alla commissione vigilanza della Rai per dare visibilità ai quesiti e alla campagna referendaria che sta accendendo i motori. Lunedì Landini sarà a Palermo all’assemblea dei gruppi dirigenti della Cgil in Sicilia aperta alle associazioni. Martedì sarà a Napoli in un incontro analogo.
«Credo – ha aggiunto ieri Landini nell’intervento di chiusura dell’assemblea generale a Bologna – che chi governa e il Parlamento dovrebbe favorire in tutti i modi la partecipazione al voto, è un elemento di responsabilità». Se, come sarà probabile, giungerà l’indicazione agli elettori di stare a casa, questo per Landini significherà «uccidere la democrazia». Un assaggio della risposta che arriverà dal Palazzo è arrivato da un messaggio su X dal vicepremier Salvini: «Accoglienza? Integrazione? Fratellanza? Figuriamoci. Vogliono la cittadinanza facile per garantirsi milioni di voti in più. Mai, mai e poi mai! La Lega si opporrà sempre».
Per Landini il quorum ai referendum di primavera può essere raggiunto. «Non ci chiamiamo De Coubertin. Sappiamo perfettamente che abbiamo bisogno di portate a casa dei risultati». «Non stiamo semplicemente resistendo al cambiamento o facendo una lotta di difesa». Stiamo proponendo una discussione per cambiare il paese e dargli un futuro». Quanto al contenuto politico dei quesiti ha aggiunto: «Una persona non è libera se è precaria, se non arriva alla fine del mese, se muore sul lavoro, se in base alle sue espressioni o genere può essere discriminata». O se non ha la cittadinanza. La vittoria del referendum potrebbe sancire un cambiamento.
Nei confronti del governo Meloni «non c’è una pregiudiziale opposizione», ma per Landini «sta favorendo chi evade il fisco e non chi paga le tasse, non sta aumentando i salari». Il referendum in sé è un’occasione di mobilitazione per il superamento della precarietà o il rinnovo dei contratti pubblici dove, in realtà, non c’è alcuna trattativa
Cisgiordania Una legge in via di approvazione alla Knesset e una conferenza internazionale a Gerusalemme confermano le mire israeliane sulle aree di interesse storico ora sotto il controllo dell'Anp
Una giovane palestinese scatta una foto alla stella di Davide disegnata da coloni israeliani su un resto archeologico a Sebastia – Nasser Ishtayeh/SOPA Images via ZUMA Press Wire
“Dopo 15 mesi di genocidio, bombardamenti e distruzione nella striscia di Gaza e nei Territori Occupati da parte di Israele, supportato da molti governi occidentali, è stata finalmente siglata la tregua con Hamas.
Questa non è una tregua come altre nella storia dei conflitti tra paesi, questa è la Tregua con la T maiuscola: lo stato di Israele, appoggiato militarmente, politicamente e finanziariamente dal mondo intero, aveva scommesso di poter cancellare per sempre il movimento di resistenza islamica di Hamas. Nonostante i 15 mesi di durissimo scontro tra uno degli eserciti più avanzati del mondo e i gruppi paramilitari palestinesi, la devastazione di Gaza, l’elevato numero di vittime e l’embargo totale che dura da decenni, Israele è dovuto scendere a compromessi e ha firmato la Tregua con Hamas.
Non sono bastati a Israele i continui massacri, le torture, la privazione di cibo, di medicinali e di aiuti umanitari. Non è bastata l’uccisione dei leader di Hamas Ismail Haniyeh e Yahya Al Sanwar. Netanyahu e il suo governo di estremisti sionisti erano convinti che la popolazione di Gaza e Hamas stesso avrebbero sventolato la bandiera bianca e si sarebbero arresi, riconoscendo la sconfitta. Ma in questi mesi nessuna bandiera bianca ha mai sventolato tra le macerie, tantomeno oggi. Oggi sotto il cielo di Gaza e della Cisgiordania sventolano solo bandiere della Palestina.
Il bilancio di questi 15 mesi è drammatico da diversi punti di vista: fonti non ufficiali parlano di oltre 75.000 morti, 120.000 feriti, 15.000 dispersi, oltre la distruzione quasi totale delle infrastrutture, edifici, scuole e ospedali.
La resistenza di questi quasi 500 giorni di assedio sarà studiata nei libri e nelle accademie militari: i suoi protagonisti, ovvero l’intero popolo palestinese, sono invincibili perché da troppe generazioni vivono per lottare contro l’oppressore, l’identità stessa del popolo palestinese è plasmata sul concetto di resistenza.
Da parte mia, questa tregua rappresenta senza dubbio una vittoria della resistenza palestinese, che ha dettato le regole e ha impedito al governo fascista israeliano e a tutti i suoi sostenitori di realizzare un successo militare e politico. L’unica vittoria, se può essere considerata tale, del primo ministro israeliano, è l’uccisione indiscriminata di bambini e civili: in realtà una infame sconfitta morale ed etica che finirà anch’essa nelle pagine più buie dei libri di storia.
La Tregua tra Hamas e Israele è un testo articolato molto complesso, elaborato, controverso, da analizzare con attenzione per evitare ogni forma di equivoci e di interpretazioni errate. La sua applicabilità dipende dai firmatari (Hamas e Israele) e dai suoi garanti (Egitto e Qatar ). In sintesi, il cessate il fuoco inizia domenica 19 gennaio 2025. L’accordo prevede 3 fasi di 6 settimane ciascuna. Nella prima fase si compirà il ritiro in modo graduale dell’esercito israeliano e saranno rilasciati 33 ostaggi israeliani in cambio di circa 1700 prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Non si esclude che tra i prigionieri palestinesi ci sia anche il leader dell’intifada Marwan Barghouti. L’accordo prevede anche il ritorno della popolazione palestinese alle poche case ancora in piedi nella Striscia di Gaza.
L’esercito israeliano conserverà una forma di controllo marginale sui corridoi chiamati Saladino e Filadelfia e su una striscia di sicurezza di 700 metri lungo i confini di Gaza. Nella seconda e terza fase dell’accordo riprenderanno le trattative a partire dal sedicesimo giorno dell’entrata in vigore dell’accordo. Inoltre cessa il blocco dei rifornimenti che ha provocato la carestia e la morte per fame di migliaia di esseri umani: sarà ammesso l’ingresso degli aiuti umanitari con 600 camion al giorno e 50 camion di petrolio.
Sono più e meno gli stessi elementi dell’accordo proposto da Biden nel mese di maggio 2024 con l’aggiunta di dettagli supplementari elaborati dai mediatori egiziani. Da ricordare che la precedente proposta di cessate il fuoco fu respinta da Netanyahu, che preferì occupare il corridoio di confine tra Gaza e Egitto, facendo di fatto fallire la trattativa. Sette mesi di ritardo, di morti, di devastazione, che hanno permesso al primo ministro di conservare il consenso politico in patria, a Joe Biden di proteggere le lobbies israeliane in America e a Donald Trump di vincere le elezioni presidenziali dello scorso novembre. Tutto a spese del popolo palestinese.
Le Nazioni Unite valutano in circa 80 anni il periodo necessario per la ricostruzione della Striscia di Gaza. Oltre il 70% delle costruzioni sono state distrutte e in alcune zone nel nord la percentuale raggiunge il 100%. Le macerie, le bombe, i missili non esplosi rappresentano non solo un pericolo per la popolazione oggi, ma un ostacolo per il ritorno alla normalità, se di normalità si potrà mai parlare.
Questa catastrofe dentro la catastrofe che dura dalla prima metà del Novecento, non ha impedito alla popolazione di Gaza di uscire e festeggiare con il segno della vittoria e con la bandiera palestinese. Nessuna potenza militare può soffocare la speranza del popolo palestinese di avere la sua dignità, il suo passaporto e il suo Stato secondo il diritto internazionale. Che sia da lezione per Israele e per tutto il mondo occidentale che l’ha sostenuto in questo genocidio.
Ora tutte le parti in causa devono cooperare per garantire il rispetto e l’applicazione di questo accordo: che entrino ora tutti gli aiuti umanitari di cui necessita urgentemente la popolazione, ma che si lavori per il riconoscimento dello Stato di Palestina entro confini sicuri e riconosciuti e si continui a lottare su scala globale per la fine dell’occupazione. Altrimenti arriveranno nuovi massacri, seguiti da nuove tregue. L’unica certezza è che non sventolerà mai una bandiera bianca, perché la resistenza finirà solo con la vittoria del popolo palestinese”.
Milad Jubran Basir, giornalista italo-palestinese e militante Sinistra Italiana Forlì-Cesena
Libertà condizionata L'Iran: «L'arresto della giornalista non è una ritorsione, ma ci auguriamo che il caso si risolva presto». L'Italia temporeggia per la questione dell'estradizione di Abedini negli Usa
«L’arresto di Cecilia Sala non è una ritorsione» per quello di Mohammed Abedini. La prima parte del discorso fatto ieri dalla portavoce del governo di Teheran Fatemeh Mohajerani ribadisce la linea della negazione inaugurata ieri dall’Iran. La frase dopo, però, nel suo contraddire le premesse, suona decisamente come un’apertura: «Ci auguriamo che la questione della giornalista venga risolta rapidamente». Mentre in Italia prosegue la linea del silenzio stampa – nessuna comunicazione ufficiale sul tema -, nella Repubblica islamica ormai non passa giorno senza che si dica qualcosa del caso Sala-Abedini. Il fatto che le dichiarazioni siano sempre almeno in parte discordanti – alla Farnesina l’ambasciatore Mohammad Reza Sabouri aveva confermato il legame tra le due vicende – conferma un’analisi molto diffusa tra gli osservatori delle cose iraniane: tra il governo e l’intelligence non c’è accordo totale sulla gestione del dossier e, con ogni probabilità, la decisione di arrestare Sala è stata presa senza che l’esecutivo ne sapesse nulla.
In Italia la questione è quasi speculare: l’arresto di Abedini è avvenuto il 16 dicembre all’insaputa degli apparati di intelligence: gli Usa – che vorrebbero l’estradizione dell’ingegnere perché sospettato di aver venduto componenti tecnlogiche belliche ai Pasdaran – si sono coordinati solo con la polizia, escludendo i servizi segreti, che così, fatalmente, non sono più stati in grado di garantire la sicurezza della reporter di Chora Media a Teheran, presa il 19 dicembre.
Cosa sia successo tra il primo e il secondo evento, comunque, resta complicatissimo da ricostruire, ma l’ipotesi più probabile (nonché peggiore) è che non sia successo proprio niente . Nessuno si è preoccupato di valutare con attenzione il peso che poteva avere l’arresto di un iraniano dietro richiesta Usa, nessuno ha pensato che forse sarebbe stato il caso di tutelare in qualche modo gli italiani a Teheran. Va detto che tutto è avvenuto con grande velocità: la richiesta di Washington all’Interpol è datata 13 dicembre, il blitz a Malpensa è scattato il 16 dicembre e la convalida dell’arresto è del giorno successivo.
Ieri, intanto, l’avvocato Alfredo De Francesco è tornato nel carcere di Opera per fare visita ad Abedini. Il colloquio è servito sia a discutere degli ultimi avvenimenti di carattere giudiziario (la procura generale della Corte d’appello di Milano ha confermato il suo parere negativo alla scarcerazione) e a elaborare un minimo di strategia in vista dell’udienza del 15 gennaio, quando i giudici dovranno decidere sull’eventuale concessione degli arresti domiciliari. È possibile che l’iraniano farà una dichiarazione per respingere ogni accusa. Quasi una formalità, perché tutto è appeso alla vera trattativa in corso, che per Roma non è tanto quella con Teheran quanto quella con Washington. Èdall’altra parte dell’Atlantico, infatti, che dovranno in qualche modo accettare il fatto che Abedini non verrà estradato (può deciderlo in qualsiasi momento il ministro della Giustizia in autonomia in virtù del codice di procedura penale) e che, di conseguenza, verrà scambiato per la liberazione di Sala. Gli apparati di sicurezza Usa sono contrari a ogni ipotesi di questo genere – ritengono l’ingegnere in possesso di molte informazioni interessanti -, mentre, con la sua breve visita dnella residenza di Mar-a-Lago, nella notte tra sabato e domenica, la premier Meloni avrebbe ottenuto qualche apertura in più da Donald Trump in persona. A patto che tutto si risolva prima del suo insediamento, il 20 gennaio.
I tagli agli italiani Mentre il governo Meloni racconta un paese immaginario siamo arrivati al ventunesimo mese consecutivo di crollo della produzione industriale. Lo ha attestato l'Istat. La scelta di un'economia di guerra: l'esecutivo ha tagliato 4,6 miliardi all’automotive e li ha destinati alle armi. Beko: confermati 1.935 esuberi. Scioperi a Varese e a Siena. Fiom: «Urso chiarisca»
La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso
Siamo arrivati al 21esimo mese consecutivo di crollo della produzione industriale. Lo ha attestato ieri l’Istat. Una situazione di cui è politicamente responsabile il governo Meloni che è in carica da 25 mesi. La «lunghissima fase di contrazione», così è stata definita dall’Istat, è stata alimentata in particolare dal crollo di due settori: la produzione delle auto e quella del tessile. Solo nell’ultimo anno la produzione delle auto è crollata di oltre il 40% del suo valore, quella più generale dei mezzi di trasporto del 16,4%.
LA CRISI È GENERALE. Oltre a Stellantis, c’è Versalis o Glencore, e molte altre. Beko Europe ieri ha confermato «integralmente» il piano industriale con 1.935 esuberi, la chiusura degli stabilimenti e i ridimensionamento degli impiegati. Al tavolo di crisi Adolfo Urso, «ministro al made in Italy», ieri ha confermato che il «Golden power» è uno dei misteri gloriosi del governo Meloni. Urso ha fatto un excursus storico sulla crisi dell’elettrodomestico in Italia e ha concesso all’azienda un «secondo tempo supplementare». «Inaccettabile» hanno concluso i sindacati Fiom e Fim. Oggi è sciopero a Varese, venerdì a Siena.
IL TESSILE. Nel rapporto «flash» dell’Istat si è letto che ci sono state perdite da oltre il 20% nell’ultimo anno nei comparti della valigeria e degli articoli da viaggio e in quelli della concia e della preparazione del cuoio. I lavoratori di questo settore sono 110 mila, In Toscana 16 mila. Ordinativi in stallo, consumi fermi per i bassi salari, aumento della cassa integrazione. La situazione è drammatica. A Firenze c’è stato uno sciopero regionale.
CRESCONO INVECE I SETTORI dell’alimentare e della farmaceutica, oltre che dei servizi energetici, ha scritto l’Istat. In generale sappiamo che crescono i servizi «poveri»: turismo, ristorazione e affini. Ci puntano gli enti locali che aumentano le tasse di soggiorno al fine di compensare i tagli del governo (8 miliardi fino al 2037 ha sostenuto il presidente dell’Anci Manfredi). E ci punta il governo che blatera di «miracolo italiano». A tale proposito andrà conservato il tragicomico tweet del 3 agosto dall’account di Fratelli d’Italia: «Le buone politiche del governo Meloni – si legge – avrebbero garantito «un’economia sempre in crescita mentre in Europa il settore manifatturiero ha subito una battuta d’arresto». La castroneria è stata contestata online. I motivi della crisi sono: fiacca domanda e crisi degli investimenti; tassi di interesse ancora troppo alti, così come lo sono i prezzi energetici; crisi sistemica dell’auto e i bassi salari. Si producono modelli costosi, sempre di meno sono i compratori.
IL 6 DICEMBRE l’Istat ha dimezzato la crescita 2024 dall’1% allo 0,5% e ha reso evidente come la legge di bilancio sia basata su previsioni superate. Eppure la crescita, pur stentata, c’è ed è trainata dai settori a più basso valore aggiunto, senza innovazione, bassi salari e alta precarietà. Questo è il motore dell’occupazione. Nelle prospettive per il 2025 l’Istat ha sostenuto che ci sarà un rallentamento. La «bolla» di posti di lavoro in più («mai così dai tempi di Garibaldi» ha detto il 25 ottobre Meloni in uno dei suoi involontari eccessi comici) si sta sgonfiando. Crescita e occupazione si stanno riallineando. Sempre di lavoro povero si tratta. Meloni & Co. «raccontano un paese immaginario, ma il paese reale affonda – ha sostenuto Pino Gesmundo ( Cgil) – E il ministro Urso si limita ad assecondare passivamente le richieste delle imprese e dei fondi di investimento, senza visione delle politiche industriali».
FACCIAMO UN’IPOTESI. Quella del governo è solo un’incapacità di governare un’economia industriale in dismissione? Oppure, facendosi trasportare da correnti ben più significative, l’esecutivo si è convertito a un’economia di guerra? Nella legge di bilancio c’è una prima risposta: il taglio di 4,6 miliardi di euro al fondo «green» dell’automotive, cioè il settore devastato dal crollo della produzione industriale. Questi soldi saranno trasferiti all’industria italiana che produce armi. Secondo il rapporto Mil€x nel 2025 la spesa militare esploderà: 32 miliardi, 13 in più per le armi.
IL COMMISSARIO UE alla «difesa» Andrius Kubilius ha ricordato ieri alla Reuters che è in preparazione un fondo comune europeo per le armi «da 500 miliardi di euro». Da un lato si decide di non finanziare il futuro dell’auto; dall’altro lato, si riversano soldi sui fabbricanti di cannoni. «Leonardo – ha sottolineato Kubilius – è tra le industrie della difesa più forti in Europa e nel mondo». Il messaggio, in fondo, è chiaro: le guerre reali, e quelle della propaganda, sono usate per trainare ciò che resta dell’industria verso il cosiddetto Warfare.
Si è conclusa alle ore 15:00 di oggi 24 novembre 2024 la consultazione in rete degli iscritti del Movimento 5 Stelle sulle proposte oggetto di consultazione in rete nell’ambito dell’Assemblea Costituente, con i seguenti risultati:
Aventi diritto al voto 88.933
Per i quesiti relativi alle modiche dello Statuto hanno votato in 54.452 (61,23 % degli aventi diritto);
Per i quesiti relativi alle modiche del Codice etico hanno votato in 48.112 (54,10% degli aventi diritto);
Per i quesiti relativi alle proposte tematiche hanno votato in 46.402 (52,18 % degli aventi diritto);
Per i quesiti relativi organizzazione territoriale e proposte varie hanno votato in 45.825 (51,53% degli aventi diritto).
Qui puoi scaricare le slides mostrate durante l’evento NOVA.