La guerra in Ucraina Le storie di Svetlana e degli anziani che ancora abitano queste regioni martoriate. La vita dei civili dopo 31 mesi di bombe. Vige il proibizionismo e dilaga l’alcolismo. «Ci hanno venduto, prima avevamo carbone, terra, risorse… Ora non ci resta più niente»
foto di Vincenzo Circosta – foto di Vincenzo Circosta
«Senza vodka non resisteremmo un giorno intero» dice Svetlana dopo essersi scusata per il suo alito pesante. Una donna accanto a lei ride e si allontana, altri due anziani restano in disparte e la lasciano raccontare.
È MATTINA A POKROVSK, in una via sterrata della periferia a nord della città diventata l’obiettivo principale dei russi in questa fase della guerra ci sono solo case a un piano con l’intonaco cadente e i tetti rattoppati con i teli cerati. Sono le tipiche case delle aree semi-urbane e rurali del Donbass, tutte uguali, con un pezzetto di giardino, un capanno per gli attrezzi e le conserve e le pareti di legno ammuffite. La maggior parte non ha le fondamenta e neanche le fogne.
È in abitazioni del genere che hanno vissuto generazioni di famiglie di queste regioni martoriate. Nel 2022 potevi ancora vedere i fiori di fronte ai cancelletti di legno e i cigni realizzati con i copertoni delle auto pitturati di blu e bianco. Le babushke qui ancora portano il fazzoletto a triangolo sulla testa e gli scarponi, preparano kompot e conserve, ogni cantina era una miniera di primizie. Un contesto non agiato ma pulito, dignitoso. Sono regioni di operai e contadini che con la terra hanno sempre mangiato e convissuto. Ora solo erbacce, buche sugli stradoni con i resti dei proiettili e abitazioni sventrate dalle bombe o assalite dall’abbandono.
NELLE CASE ANCORA ABITATE ci sono loro: gli anziani del Donbass. Abbiamo raccontato spesso dei soldati dell’Ucraina occidentale che li chiamavano Moskalì, un dispregiativo per definirli filo-russi, e di come molti di loro fossero diffidenti nei confronti del potere centrale di Kiev. Dopo 31 mesi di guerra questo ideal-tipo di vecchio dell’est ucraino è ancora duro a morire ma la guerra abbrutisce e degrada il contesto e le persone. L’alcolismo dilaga e, anche se nel Donetsk ufficialmente vige il proibizionismo, la vodka si trova. «Al triplo del prezzo» lamenta Svetlana, che parla senza sosta e si scusa a ogni frase. «Non mi riprendete con la sigaretta, per carità». Si fa il segno della croce alla maniera ortodossa, con il figlio che sta più in basso, vicino all’ombelico, e dice «slava Bogu», gloria a Dio alla fine di ogni frase.
«Non abbiamo più niente – dice – ma se Dio vorrà sopravviveremo, perché la sofferenza che Lui ci manda ha un motivo». Ma quale può essere il motivo di tutto ciò? Piange in continuazione, è l’alcol ma guardandosi intorno non c’è nulla di sobrio intorno a noi.
Svetlana non ha più la casa che è stata danneggiata da un bombardamento russo. Ci accompagna a vederla e quando trova una macchina dei militari parcheggiata davanti al cancello inizia a prenderla a pugni e a calci. Se non la fermassimo si romperebbe un piede.
«MIO MARITO era qui in giardino, quando ho sentito i gatti miagolare forte l’ho chiamato e gli ho detto di entrare; non voleva, ma poi gli ho detto che se non entrava l’avrei strangolato. Poco dopo sono arrivati i missili russi». In giardino si lancia in confessioni a bassa voce, nonostante non ci sia nessuno: «ci hanno venduto, prima della guerra avevamo tutto: carbone, terra, risorse… ora non ci resta più niente». Chi li ha venduti? «L’Ucraina!». Ma a chi? «Non lo so, ai potenti che vogliono le nostre risorse. Io ho votato Zelensky quando si è candidato, gli ho creduto, ma ora non gli credo più, anche lui è come tutti gli altri. Ma prego per lui, prego che torni in sé e che prenda le scelte giuste. D’altronde – si fa il segno della croce – bisogna sempre pregare per il tuo zar».
Ripartiamo per l’altra casa, dove ci accolgono 4 cani e almeno 7 gatti. Le porte e le finestre sono chiuse, puzza tutto di muffa e cibo vecchio. Svetlana saluta gli animali – i suoi «bambini» li definisce quando ci dice che non ha avuto figli – e inizia a chiamare: «Valera!». Da una porta chiusa si sente un mugugno e dopo poco esce un uomo in accappatoio. È ubriaco e quasi non riesce a reggersi in piedi. Gli occhi gialli e con grumi di sangue ci guardano perplessi. Ci propone subito un brindisi e Svetlana ci intima di accettare, poi lo bacia teatralmente e pretende una foto. Sotto al lavandino molte bottiglie finite, in frigo altre piene.
MA COME FANNO a comprare queste cose? «Non abbiamo la pensione perché io ho solo 65 anni, sono una maestra delle elementari e, vedi? – indica una lampada dell’Unhcr e un pannello fotovoltaico – questo me l’hanno dato quelli degli aiuti umanitari per fare lezione a distanza. Ma non c’è mai internet, è impossibile».
«Con gli altri vicini» riprende, «ci riuniamo a turno in case diverse, mangiamo insieme, mettiamo i soldi in comune per fare la spesa e passiamo le giornate». Bevono anche gli altri? «Certo, cosa dovrebbero fare!».
A UN CERTO PUNTO le viene un’idea e scappa in un’altra stanza. Torna con i lembi del vestito sollevati e inizia a trarne ninnoli e un set di bicchieri di porcellana a forma di pesce. «Questi me li ha regalati il padre di Valera quando ci siamo sposati, voglio che li prendiate voi». Le diciamo che non possiamo accettare ma lei insiste. «Noi non usciremo vivi da questa guerra, lo sappiamo, voglio che qualcuno li continui a usare». Ma come, e Dio? «Già mi ha graziato una volta» preme una mano sul seno destro per dimostrare che sotto non c’è niente, non ce ne eravamo accorti. «Prendeteli vi prego e dite a tutti di pregare per noi perché se tutti nel mondo si mettono insieme per la stessa preghiera la guerra può finire».
Alla fine accettiamo i ninnoli più insignificanti e le lasciamo il servizio con la promessa che quando finirà la guerra li useremo per brindare. Slava Bogu