“Al saviva tot”. Lo sapevate tutti. Detta così, in dialetto, al telefono, l’espressione intercettata nell’ambito dell’inchiesta “Bosco perduto” non lascia margine alle interpretazioni: tutti, secondo gli stessi interlocutori, erano a conoscenza che tra la centrale a biomassa Dister Energia con sede a Faenza e le due aziende fornitrici di legname, la manfreda Recywood e la forlivese Enerlegno, c’era un accordo per lucrare sugli incentivi statali destinati alle energie rinnovabili. Chi più, chi meno, conoscevano anche le proporzioni di quella che la Procura di Ravenna ha inquadrato come una truffa milionaria ai danni dello Stato. E temevano infine le possibili conseguenze, che in effetti si sono concretizzate in questi giorni: un sequestro pari a 7,7 milioni di euro e sette ordinanze interdittive nei confronti di tre manager della centrale e quattro dirigenti delle altre due aziende, che ora non potranno esercitare attività professionali, imprenditoriali o direttive in tutta la filiera delle energie rinnovabili e in qualsiasi altro settore agevolato da contributi pubblici.
Nelle conversazioni ascoltate dalle Fiamme gialle di Forlì e dai Carabinieri forestali, il nome di Mario Mazzotti torna più volte, ma lui al telefono non rilascia parole compromettenti. Un «apprezzabile indice di esperienza» forse maturato dai passati incarichi da amministratore rimarca il giudice per le indagini preliminari Corrado Schiaretti, che individua nel 67enne legale rappresentante della centrale a biomassa, «il vertice del meccanismo». Restio a parlare al telefono, lui, ma non i sodali, che per tutto il corso dell’inchiesta «cercano di salvaguardare Dister e il suo presidente dalle ricadute negative dell’indagine».
Con lui, altra figura centrale, è quella del responsabile di Recywood, il cui ruolo chiave consentiva, secondo l’accusa, di recuperare legno triturato per la centrale non tracciato e in teoria non soggetto agli incentivi, trasformandolo attraverso un gioco di prestigio di fatture false e bolle di trasporto doppie (una vera e una alterata per dribblare eventuali controlli) in carichi di legname da filiera corta, soggetti a incentivi statali massimi poiché in apparenza recuperati da aree boschive da diradare o frutteti da espiantare entro un raggio di 70 chilometri dalla centrale.
Proprio lui al telefono, comprendendo che l’inchiesta partita seguendo le tracce del legno sottratto indebitamente dalle Foreste Casentinesi rischiava di far scoprire la maxi frode, commenta: “Vediamo cosa potere tirare fuori dal cilindro”, per poi affrettarsi a precisare (secondo gli inquirenti temendo di essere intercettato) “ci sono stati degli errori, ma della malafede non c’è”.
Sempre lui, con il vicepresidente della Dister Energia, insiste sulla necessità di cercare “una strategia difensiva coi nostri avvocati” per trovare “la meno, diciamo, impattante per quello che sono gli effetti collaterali su Dister” temendo di “aprire un fronte che devo dire più ci penso più ritengo che sia possibile che si apra”. Ma l’inchiesta ormai è avviata. Tant’è che di lì a poco dilagano le raccomandazioni su una maggiore prudenza: “Eh, e al telefono è meglio che la gente faccia poche chiacchiere”.
Non mancano i diversivi per salvare la centrale, ritenuta dagli indagati la realtà più importante del gruppo. Come il tentativo di trovare un capro espiatorio: il direttore tecnico della Recywood, che in un consiglio di amministrazione del 2020 rassegna le dimissioni assumendosi la piena responsabilità. Un passaggio smascherato dalle successive reazioni dei colleghi a sostegno: “In realtà lo sapevano tutti come era”. Una cosa “grossettina”, ammette dal canto suo il direttore tecnico.
Trascorsi un paio di danni dalle prime avvisaglie, è ancora il vice della centrale a insistere sulla necessità di un incontro con i presidenti, ormai certo che dal problema del legname sottratto al Demanio dai boschi dell’Appennino si sarebbe aperto “il tema delle certificazioni... e quel tema lì può andare a cadere ovviamente su Dister”. Ma a quel punto le quantità erano ormai enormi: 100mila l’anno le tonnellate mimetizzate come “filiera corta”. Troppe per essere spacciate per un errore. Fossero state “100 tonnellate - continua il dirigente - al limite dici vabbè ha sbagliato, ma qui è un po’ dura”. L’unica alternativa, spiattellata sempre al telefono: dire “come stanno realmente le cose, anche coi nostri legali, e impostare una linea difensiva che sia quella che ci crea meno nemici in giro”. Già, perché anche altrove, così pare, tutti sapevano.