ELEZIONI PARLAMENTARI. Alle urne si reca il 75,9% degli aventi diritto in quello che si era profilato come un referendum sul sistema politico. Nel 24,1 di astensione e nel 10% di contrari un segnale forte di malcontento
«Cuba ha vinto». Sono stati dimostrati «la legittimità del nostro sistema elettorale» e «l’appoggio popolare alla rivoluzione». I commenti dei massimi dirigenti politici e degli organi di stampa del Partito comunista di Cuba non risparmiano enfasi sul dato principale delle elezioni politiche – per il rinnovo del Parlamento unicamerale – di domenica scorsa: l’affluenza registrata alle urne.
I dati finali diffusi dalla Commissione elettorale nazionale riferiscono di una partecipazione al voto del 75,90% degli aventi diritto al voto.
Di questi voti, il 90% sono stati ritenuti validi, il 6,2 % è stato in bianco e il 3,5% delle schede sono state annullate.
SI TRATTA DI PERCENTUALI migliori di quelle registrate nelle ultime due convocazioni al voto popolare l’anno scorso, il referendum sul Codice di famiglia (74% affluenza) e le elezioni municipali (68,5%).
Come era da aspettarsi, i 470 candidati, tutti affini al Partito comunista o a suoi alleati nella “società civile”, sono stati eletti deputati, la maggior parte con il “voto unito” proposto dal governo cubano. Fra questi, il presidente Díaz- Canel e Raúl Castro.
I due schieramenti ferocemente contrapposti, il partito-governo-stato cubano e un’opposizione che è in stragrande maggioranza fuori dal paese e che ha come unico obiettivo abbattere il governo socialista dell’Avana, nei mesi precedenti le elezioni hanno, quasi paradossalmente, espresso la stessa linea riguardo alle elezioni: la partecipazione sarebbe stata una sorta di termometro politico per misurare la legittimità della Stato socialista nei confronti della popolazione.
Le elezioni sono state presentate come un referendum sul sistema politico del Paese.
Tutti i cospicui mezzi di comunicazione dell’opposizione — e i loro affini nelle reti sociali – , sia siti in Florida che a Madrid per mesi hanno martellato chiamando la popolazione cubana a astenersi dal voto. I principali loro hashtags #YoNoVoto e #EnDictaduraNoSeVota non riconoscevano nessun valore al processo elettorale in quanto «avviene in un sistema non liberal democratico. E dunque dittatoriale».
Al contrario i mass media statali (e unici) dell’isola hanno centrato una massiccia campagna sul voto «per Cuba», «per la Rivoluzione», per «il socialismo». In sostanza, per dimostrare il sostegno popolare ai nuovi dirigenti – soprattutto al presidente Díaz-Canel – nati dopo la Rivoluzione del 1959 e alla loro politica «di continuità» rispetto al sistema «alternativo al modello liberista» voluto dai fratelli Castro.
CON QUESTE PREMESSE, sul terreno di scontro delineato anche dall’opposione (e dagli Usa che lo appoggiano e foraggiano), la leadership politica cubana ha ragione a tirare il fiato.
Poco importa se l’opposizione, soprattutto quella che viene dalla Florida, lancia accuse di massicci brogli (non minimamente provati) e di forti pressioni (evidenti) sulla popolazione. O che venga sottolineato che la partecipazione a queste elezioni politiche è stata ben più più bassa rispetto alle precedenti (nel 2018 l’affluenza fu del 85,6%).
Il risultato è che la maggioranza della popolazione, sia per convinzione, sia per passività, ha dato un voto di appoggio al governo. O comunque non ha seguito le indicazioni che venivano dalla Florida.
IL SEGNALE, PERÒ, DEL 24, 1% di astensione e del circa 10% di voti contrari è giunto forte e chiaro ai vertici del partito-governo-Stato. È un segnale che il malcontento si estende a quasi un terzo della popolazione, per una crisi che da molti mesi fa tirare la cinghia alla gran parte dei cubani e pone al bordo della miseria la parte più debole (ad esempio i pensionati). Ma anche che la società civile cubana è tendenzialmente più pluralista rispetto al sistema politico, a partito unico, che la governa.
La nuova Assemblea del poder popular è più inclusiva della precedente: il 20% degli eletti sono giovani dai 18 ai 35 anni, il 55% sono donne, e anche la percentuale etnica (neri e mulatti ) è alta. Inoltre vi sono deputati che rappresentano il crescente settore privato dell’economia.
Ma una serie di oppositori, come il “socialdemocratico” Manuel Cuesta Morúa, ribattono che «inclusività non significa democrazia, né rispetto delle richieste di cambiamento che vengono da una consistente parte della società civile».
LA DIAGNOSI SULLA GRAVE CRISI di Cuba è nota da tempo. Con una eventuale ripresa del turismo, con l’esportazione dei servizi medici ed eventuale vendita dei vaccini, l’isola può sopravvivere, seppur nella penuria. Ma se non produce gli alimenti e i beni che necessita non potrà far fronte a un feroce embargo che gli Stati uniti, qualunque sia il presidente in carica, non sono intenzionati a smettere.
Esiste nel vertice politico cubano una evidente titubanza nel mettere in opera riforme già delineate. Tali riforme implicano un aumento dell’incidenza del mercato e potenziali cambi nello status della proprietà.
Secondo una parte della leadership questo comporterebbe il pericolo di una restaurazione capitalista, con gravi conseguenze per «le conquiste della Rivoluzione». Ma l’esito delle elezioni politiche di domenica dimostra che l’immobilismo è altrettanto pericoloso di scelte difficili