Altri trenta migranti morti in acque internazionali, nella zona Sar libica. E anche stavolta si potevano evitare: l’allarme era partito venerdì notte e solo domenica una nave mercantile è riuscita a salvarne 17. Coordinava l’Italia ma ha perso tempo. L’accusa di Alarm Phone al governo Meloni: «Li hanno lasciati annegare»
LA STRAGE IN DIRETTA. Il barcone aveva chiesto aiuto venerdì notte. È naufragato domenica mattina. Roma e Bruxelles scaricano le responsabilità. «La missione Irini non può intervenire in acque libiche», afferma il portavoce della Commissione Ue Peter Stano. Ma la strage è avvenuta in acque internazionali. Luca Casarini (Mediterreanea): «In quella zona presenti navi militari, non sono intervenute»
A Pozzallo i sopravvissuti del naufragio davanti a Libia - Ansa
Sul naufragio che domenica si è portato via 30 vite è scontro tra le Ong e le autorità italiane ed europee. Queste sottolineano come il barcone fosse nella zona di ricerca e soccorso (Sar) libica che però è cosa ben diversa dalle acque territoriali. Tanto che il soccorso è stato coordinato da Roma. Partiamo dai fatti.
Domenica mattina nelle acque internazionali tra Libia, Malta e Italia un’imbarcazione con 47 persone si ribalta. Ne vengono salvate solo 17, poi trasferite a Pozzallo. Il centralino Alarm Phone (Ap) aveva lanciato il primo Sos più di 30 ore prima.
ALLE 2.28 ITALIANE della notte tra venerdì e sabato, dopo aver ricevuto una chiamata da bordo, avverte tutte le autorità competenti: Libia, Malta e Italia. La barca è
alla deriva. Mezz’ora dopo Alarm Phone chiede al centro di coordinamento del soccorso marittimo di Roma (Imrcc) di dirottare, come avviene in molte operazioni di ricerca e soccorso, la nave privata Amax Avenue che transita nelle vicinanze. La petroliera tira dritto.
Sette ore e mezzo più tardi l’aereo Sea Bird della Ong Sea Watch avvista i migranti. Li fotografa dall’alto. Le immagini finiranno rapidamente sul web, sotto gli occhi di tutti. Intanto il velivolo lancia un mayday, in particolare al mercantile Basilis L che si trova poco distante: «La situazione è urgente. Le onde sono alte. Per favore andate nella posizione indicata». Alle 11.28 Sea Bird contatta via radio il ponte di comando della nave. Da lì rispondono che l’Imrcc ha detto di seguire le istruzioni della «guardia costiera» libica: avvicinarsi al barcone. Alle 16.51 l’Ong chiama Tripoli che fa sapere di avere tre motovedette nella capitale ma nessuna a Benghazi.
PASSANO ALTRE ORE. Non parte nessun mezzo di soccorso. Intanto i libici chiedono supporto a Roma. Lo afferma la guardia costiera italiana in un comunicato dove però non riporta la timeline dell’evento, cioè gli orari precisi che corrispondono a ogni passaggio. Roma, evidentemente assumendo il coordinamento del caso, dirotta altri tre mercantili verso l’obiettivo. Le operazioni di soccorso iniziano «alle prime luci dell’alba», scrive la guardia costiera. Durante il trasbordo dei migranti sulla nave Froland il barchino si capovolge.
Questa volta il mare non restituirà i cadaveri sulle spiagge di qualche borgo turistico. Eppure i morti restano e restano anche le responsabilità. Un eventuale procedimento penale dovrà sbrogliare una matassa di competenze e soggetti ancora più intricata rispetto alla vicenda crotonese. Per esempio accertare se i ritardi siano dipesi dal tentativo di far intervenire i libici in modo che le persone fossero riportate indietro invece che in un porto sicuro.
PER CONTESTUALIZZARE i fatti il primo punto da chiarire è che il naufragio, al contrario di quanto sostenuto da esponenti della maggioranza, non è avvenuto in acque libiche ma internazionali. Il barcone si trovava a circa 250 km da Benghazi, 400 da Tripoli, 420 da La Valletta e 450 da Pozzallo. Le coordinate ricadono nella cosiddetta Sar libica. «Il mare è diviso in zone di ricerca e soccorso con lo scopo di tutelare la vita umana anche dove non esiste una sovranità statale, che vale solo entro le 12 miglia dalla costa», afferma Lucia Gennari, avvocata Asgi. Si tratta di acque dove vige la libera navigazione e su cui i paesi costieri competenti hanno un dovere primario di organizzare il soccorso. Primario ma non unico se sono allertate altre autorità statali.
Soprattutto per l’area libica che è stata proclamata nel 2018 ma di fatto costituisce una finzione giuridica. Perché Tripoli non ha né porti sicuri di sbarco, né capacità operative per i salvataggi. Questa strage lo certifica per l’ennesima volta. Bisogna poi considerare che Tripoli e Benghazi fanno riferimento ad amministrazioni e poteri diversi che negli ultimi anni si sono fatti letteralmente la guerra. E infatti dalla capitale non partono motovedette verso la Cirenaica. L’Italia lo sa e per questo di recente ha coordinato vari eventi in quella zona.
IL TRATTO DI MARE del naufragio, poi, è quello dove insistono i mezzi aeronavali della missione Irini-Eunavfor Med. Difficile credere che proprio tra venerdì e domenica lo abbiano lasciato totalmente sguarnito. Più facile che preferiscano non intervenire perché sull’operazione pesa la bufala del pull factor. Cioè quel teorema, mai dimostrato, secondo cui la presenza di soccorritori farebbe aumentare le partenze. Sul sito del ministero della Difesa si legge: «Le modalità di impiego degli assetti navali (di Irini, ndr) renderà esiguo il numero di persone da soccorrere». In tre anni il numero è meno che esiguo, è zero.
«Irini non può operare nelle acque territoriali libiche: le sue navi pattugliano un’area specifica, che non è dove passano le principali rotte migratorie», precisa il portavoce della Commissione Ue Peter Stano. Dichiarazione che moltiplica i dubbi invece di dissiparli, visto che il barcone non era in acque libiche. «Le navi militari erano lì, hanno ricevuto il messaggio di allarme diffuso dal centro di coordinamento di Roma, ma non si sono mosse pur avendone l’obbligo», attacca Luca Casarini di Mediterranea.
AL DI LÀ DELLE RESPONSABILITÀ legali resta il tema politico. Le partenze aumentano, le Ong sono sotto attacco, Malta non interviene, la Libia non è un porto sicuro. L’Italia dovrebbe prendere un’iniziativa unilaterale come Mare Nostrum o spingere per una missione di soccorso europea, ma l’esecutivo è prigioniero dei suoi slogan su blocco delle traversate e caccia ai trafficanti per tutto il «globo terracqueo». Così l’ipotesi più probabile è un aumento dei naufragi. Prima o poi il governo dovrà assumersene la responsabilità politica