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SLALOM GIGANTE. Il premier vede Letta e sale al Colle. La destra: «Sconcertante». Poi riceve anche Lega e Fi. I giochi però non sono ancora fatti

Appuntamento  al buio alle camere.  Ma Draghi ci prova Enrico Letta - Lapresse

Draghi arriverà stamattina alle 9.30 al Senato, e poi domani mattina alla Camera, con le migliori intenzioni. La disponibilità a ritirare le dimissioni è ormai certa, però non a ogni condizione e non al prezzo di tornare al punto di partenza, magari senza più il Movimento 5 Stelle nel governo ma con gli altri partiti impegnati in un braccio di ferro continuo. I toni del presidente del consiglio saranno duri, in un discorso che risponderà alla logica secondo cui non sono i partiti che possono avanzare richieste e pretese ma è il premier che reclama chiarezza. Poi Draghi ascolterà la discussione generale e al termine, al momento della replica, trarrà le conclusioni. Se riterrà che sono stati fatti passi avanti sostanziali si procederà col voto di fiducia in tarda serata. Altrimenti taglierà corto e salirà al Colle per rendere irrevocabili le dimissioni.

IL QUADRO, PERÒ, non è più quello di cinque giorni fa. Draghi non considera più

remota la possibilità di proseguire, anche se avrebbe preferito che la ventilata scissione dei 5 Stelle si verificasse prima che l’aula aprisse i battenti. Un po’ le pressioni della società civile, molto quelle delle capitali estere, della Ue e del capo dello Stato e il lavorio soprattutto del Pd qualche risultato lo hanno raggiunto. Sia il presidente Mattarella che il segretario dem Letta avrebbero anche fatto riferimento a quella presidenza della Repubblica alla quale forse il premier non ha rinunciato del tutto. Però di qui a dire che i giochi sono fatti e la crisi superata o quasi superata ce ne passa. Il rischio di incidenti è altissimo.

Se ne è avuta una dimostrazione ieri. Il premier ha ricevuto a palazzo Chigi il segretario del Pd, poi è salito al Colle per fare il punto con il presidente. Il doppio appuntamento ha mandato su tutte le furie Matteo Salvini e ancor più Silvio Berlusconi. In mattinata il leader leghista aveva incontrato l’intero vertice del partito, poi era iniziato a villa Grande il vertice del centrodestra di governo, senza Giorgia Meloni. Partono di qui bordate violente contro Draghi. Tutti esprimono «sconcerto» per l’effettivamente clamoroso strafalcione. In privato il Cavaliere è più duro: «Ma è il capo di un governo di unità nazionale o del campo largo?».

NEL TARDO POMERIGGIO Draghi tenta di metterci una pezza, telefona al Cavaliere furioso, da villa Grande parte la delegazione invitata a palazzo Chigi, l’interminabile vertice si aggiorna. I pareri e gli umori all’interno tra i convenuti sono diversi: morbidi i centristi, rigidissimo un Salvini ormai palesemente allettato dalle urne, tanto da proporre di mettere sul tavolo la richiesta di dimissioni della ministra dell’Interno, Lamorgese, e di quello della Salute, Speranza, e tanto varrebbe votare direttamente la sfiducia, senza messe in scena. Lo fermano i governatori, con il veneto Luca Zaia in testa, e lo stesso Berlusconi. Ma la linea che viene decisa resta poco conciliante: indisponibilità totale a restare al governo con i 5 Stelle, nessuna concessione ai loro 9 punti, ma una lista di richieste tutte in funzione anti M5S, dalla revisione del reddito di cittadinanza alla pace fiscale al nucleare di ultima generazione. In più l’impegno a votare in marzo, sciogliendo le camere subito dopo l’approvazione della legge di bilancio.

È IL CONTRARIO ESATTO degli obiettivi a cui mira Letta. Al premier il segretario del Pd ha chiesto senza mezzi termini di non picchiare duro sul Movimento in aula e la stessa prudenza, però a tutto campo e non solo con il partito di Conte, ha consigliato anche il capo dello Stato. Il Pd lavora per una ricucitura completa, con i 5S non solo in maggioranza ma ancora al governo. Giuseppe Conte non ha ancora deciso, ufficialmente aspetta l’intervento del premier, probabilmente non vuole scoprire le carte in anticipo. La voce di un incontro anche con Draghi nella notte si rivela infondata, anche se c’è sempre il telefono. Di certo l’ex premier è orientato a votare la fiducia ma probabilmente sceglierà di ritirare i ministri, non oggi ma nei prossimi giorni, per evitare lo scontro frontale con l’ala dura del Movimento. Sui tempi delle elezioni il Pd vuole la campagna elettorale in primavera.

LA DISPOSIZIONE delle forze politiche parla da sola. La ricomposizione auspicata da Draghi non c’è stata. I partiti arriveranno all’appuntamento armati fino ai denti e senza ancora sapere con certezza cosa faranno. Molto dipenderà da quanto alta sarà l’asticella posta da Draghi. Per evitare il naufragio deve trovare un difficile equilibrio, nei toni e nei contenuti, tra aperture e irrigidimenti. Sarebbe difficile per un politico di professione. Lo è molto di più per un premier che con questo tipo di politica ha poca dimestichezza.