Partiti. La ricostruzione della sinistra non passa attraverso la partecipazione alle urne. Anche risultati locali a volte confortanti hanno corto respiro
Massimo D'Alema © LaPresse
Se un pregio lo hanno le esternazioni dalemiane di fine anno è quello di alzare impietosamente il velo sul “piccolo mondo antico” della sinistra. Quelle parole hanno creato non poca turbolenza su entrambi i versanti, nel Pd e in Articolo 1, ovviamente con opposte motivazioni. Saranno gli aderenti a Articolo1 a decidere della loro sorte nelle sedi opportune che siamo tenuti a rispettare. Ma già prima avevamo compreso, da altre voci, che era in atto un progressivo sfarinamento di Leu, realtà peraltro già virtuale, arroccata nelle istituzioni ma assente in quanto tale nella società.
Le cause non risiedono solo nella scelta, con l’eccezione della navicella di Sinistra Italiana, di collocarsi al governo entro il perimetro draghiano. Sono più profonde e più lontane. Lo evidenzia, per converso, la diagnosi di D’Alema sul Pd, che sarebbe stato affetto da una malattia, il renzismo, dalla quale sarebbe ora guarito. In realtà, dalla Bolognina in poi, attraverso i cambiamenti di nome e di assetto, abbiamo assistito a un percorso di fuoriuscita dalla storia del movimento operaio di questa forza politica. Un approdo ben più grave, credo irreparabile, di una sterzata a destra della linea politica, che ha portato con sé l’abbandono di referenti e legami sociali, dell’idea di una trasformazione seppure graduale della società, di strutture organizzative basate sulla partecipazione degli aderenti e su un insediamento sociale, per schiacciare le prospettive politiche sull’aggiustamento del presente, di cui la priorità del governo su ogni cosa è la manifestazione più evidente.
Ma è inutile negare che questo percorso ha avuto ed abbia tutt’ora una forza di attrattiva giocata su un malinteso realismo. Questo processo non poteva essere contrastato, e infatti non lo fu, raccogliendo semplicemente le antiche bandiere dismesse. Ma neppure sperando che la spinta di movimenti reali e innovativi fosse sufficiente per dare vita ad una nuova forza della sinistra. I frequenti appuntamenti elettorali sono stati più d’ostacolo che di aiuto. A distanza di cinquant’anni il monito della Rossanda contro il “contarsi per contare” è di bruciante attualità. Bisognerebbe allora mettere un punto fermo.
La ricostruzione della sinistra non passa attraverso la partecipazione alle urne. Anche risultati locali a volte confortanti hanno corto respiro. Di fronte al taglio del Parlamento e alla prospettiva per quanto da contrastare, che si torni a votare con la stessa legge, salvo rimaneggiamenti obbligati, avrebbe davvero poco senso un’aggregazione elettorale, per giunta con un incerto e improvvisato profilo.
Del resto più di un’analisi dimostra che il voto di appartenenza, non solo di testimonianza, ha perso terreno rispetto a quello di opportunità, per qualche risultato concreto.
Non si tratta quindi di recidere ogni confronto con le istituzioni. Si possono costruire intese con forze o individualità per specifici obiettivi. Ma in primo luogo serve raccogliere tutte le forze disponibili per avviare un processo costituente di una nuova forza di sinistra. Non sommare, ma riuscire a fare interloquire i portatori di un pensiero alternativo, siano questi pezzi di organizzazioni, esperienze di movimento, associazioni o singole intellettualità. Nessuna miniorganizzazione può proporsi come il centro di un simile progetto. Per cui individuare il punto di partenza non è facile. Tuttavia la discussione aperta su questo giornale ci può aiutare fornendo un modello di ambito comune, una sorta di crogiolo, in cui riversare le diverse riflessioni che puntano alla trasformazione dell’attuale società rifiutandosi di concepire il capitalismo come la fine della storia, che contrappongano al suo totalitarismo un’altra idea dialettica di totalità e l’esigenza di dare vita ad un’organizzazione che, con tutte le innovazioni necessarie, costituisca una massa critica capace di costruire concreti modi alternativi di vita e di lavoro.
Un percorso indubbiamente difficile perché ci si scontra con un pervicace attaccamento alle storie delle proprie organizzazioni nell’illusione di ognuno di fare della propria il centro di una nuova aggregazione più o meno larga. Il guaio è che questo vizio non è riscontrabile solo nei minipartiti, ma anche nei numerosi cenacoli intellettuali, spesso ricchi di idee, ma non comunicanti attivamente tra loro. Ma se non vogliamo la desertificazione bisogna evitare, come ci ammoniva Franco Fortini, di essere “materialisti con gli altri e idealisti con noi stessi”.