Non funziona l’alibi "lo vuole l’Europa", visto che una parte delle tensioni con Varsavia e Budapest derivano dal sopruso di quei governi sui poteri delle loro magistrature
Salvo ripensamenti dell’ultima ora, la riforma Draghi-Cartabia conferisce al Parlamento poteri d’indirizzo sulle priorità dell’azione giudiziaria, in violazione del sacrosanto principio della separazione dei poteri che ispira la nostra Costituzione e, potenzialmente, dell’indipendenza della magistratura.
In tal modo, si realizza un obiettivo perseguito da anni con tenacia da un variegato schieramento partitico non privo di propaggini, se non diramazioni, all’interno della sinistra, ma soprattutto da quegli interessi privati e pubblici che s’intrecciano a vario titolo, non di rado illegalmente, con l’esercizio del governo.
Né il governo di oggi, con la maggioranza che lo sostiene, potrà accampare il solito alibi di un’imposizione di Bruxelles; che, anzi, potrebbe anche riservarci qualche sorpresa positiva, visto che una parte importante delle tensioni con Varsavia e Budapest derivano proprio dalle manomissioni da parte di quei governi dei poteri delle loro rispettive magistrature.
Un poco di storia – con un’impronta personale, difficile da evitare da parte di chi è stato partecipe, oggi testimone – può servire a chiarire l’entità della posta in gioco. La parte offesa non è soltanto Montesquieu perché, peggiorandoli con la nuova riforma, si entra nel nerbo dell’intreccio di poteri che segnano il nostro passato e presente. Questa storia non inizia con Tangentopoli, ma con la caduta del Muro di Berlino che la rese possibile. Anche se questa opinione mi costò un civile diverbio con Antonio Di Pietro, di fronte ad un attonito pubblico svedese, poiché egli attribuiva tutto il merito di quanto stava accadendo – perché di merito si trattava, su questo eravamo entrambi d’accordo – alla procura di Milano.
In realtà, se la guerra fredda non avesse avuto termine, quei poteri indipendenti che la Costituzione conferisce ai magistrati non si sarebbero esplicati nelle forme variegate e massicce, tipiche di Tangentopoli, colpendo bersagli altrimenti protetti da una ragion di stato votata a non favorire una forza politica che era e restava esclusa dal governo del Paese. Non a caso quei magistrati che non sottostavano a questa regola non scritta venivano bollati come “pretori d’assalto” (il copyright spettava a Flaminio Piccoli).
Purtroppo la partita riguardante l’indipendenza dei poteri della magistratura non era finita. Il così detto patto della crostata, consumata a casa di Gianni Letta, diede vita ad una nuova Commissione Bicamerale per la riforma della Costituzione, sotto la presidenza di Massimo d’Alema (allora segretario del Pds, per i suoi gusti insufficientemente occupato, essendo riuscito a portare Romano Prodi al governo del paese). Ricordo, come fosse ieri, il commento di uno dei partecipanti, Cesare Salvi, mio capogruppo al Senato, ad un tempo divertito e sconvolto: “L’unica cosa che a loro – Berlusconi e soci – interessa, è una riforma che consenta un controllo politico della magistratura che li garantisca in sede giudiziaria”.
Per ragioni ovvie. Infatti, nei mesi successivi il capitolo dedicato alla giustizia divenne il cuore del negoziato. Mentre il plenum della Commissione si cimentava su altri temi, in realtà dominava la scena politica la successione delle riscritture – se non sbaglio, si arrivò alla nona stesura – dedicate al capitolo della giustizia da parte del relatore Marco Boato.
A questo punto alcuni senatori, senza compromettere il loro capogruppo, si misero al lavoro per stilare un documento che raccolse ben 85 firme (quasi un terzo del Senato) prima di essere consegnato alle agenzie. Intento di Carlo Smuraglia, Raffaele Bertoni, Corrado Stajano, Rocco Larizza ed altri (tra cui il sottoscritto) era quello di dichiarare che non avrebbero votato alcuna riforma che condizionasse in alcun modo l’indipendenza della magistratura come garantita della Costituzione in vigore.
È possibile che concorsero altre ragioni. Sta di fatto che quell’iniziativa, dopo il fallimento di un’assemblea congiunta dei gruppi Pds della Camera e del Senato convocata allo scopo di richiamare all’ordine i firmatari del documento, segnò la fine della Bicamerale. Era diventato evidente a tutti, soprattutto a Berlusconi, che Massimo D’Alema, se anche lo avesse voluto, non sarebbe stato in grado di consegnargli ciò che egli esigeva: un controllo politico della magistratura che lo salvaguardasse dalle sue incombenze giudiziarie.
Infatti, negli anni successivi furono seguite altre strade consentite da maggioranze più o meno fluttuanti di centro-destra, dalle leggi ad personam a risoluzioni parlamentari ad hoc. Oggi, una maggioranza comprendente Pd e M5S, fino a qualche mese fa maggioranza di governo di diverso orientamento, reintroduce quella menomazione dell’indipendenza della magistratura e della separazione dei poteri che la Bicamerale aveva fallito attraverso una riforma costituzionale. Se non dovesse provvedere la Consulta, sarebbe necessario ricorrere ad un referendum abrogativo che troverebbe una maggioranza probabile, oltre che auspicabile, nel paese. Una maggioranza diversa da una, politica che oggi si riduce ad interesse collusivo e corporativo.