Si è conclusa alle ore 15:00 di oggi 24 novembre 2024 la consultazione in rete degli iscritti del Movimento 5 Stelle sulle proposte oggetto di consultazione in rete nell’ambito dell’Assemblea Costituente, con i seguenti risultati:
Aventi diritto al voto 88.933
Per i quesiti relativi alle modiche dello Statuto hanno votato in 54.452 (61,23 % degli aventi diritto);
Per i quesiti relativi alle modiche del Codice etico hanno votato in 48.112 (54,10% degli aventi diritto);
Per i quesiti relativi alle proposte tematiche hanno votato in 46.402 (52,18 % degli aventi diritto);
Per i quesiti relativi organizzazione territoriale e proposte varie hanno votato in 45.825 (51,53% degli aventi diritto).
Qui puoi scaricare le slides mostrate durante l’evento NOVA.
Chris Wright è ormai da qualche giorno il segretario in pectore all’Energia designato dal presidente americano eletto Donald Trump.
Wright è amministratore delegato di Liberty Energy, società di servizi petroliferi specializzata nel fracking, la fratturazione idraulica della crosta terrestre che ha avviato la rivoluzione del petrolio di scisto, o “shale oil”, e che ha permesso agli Usa di diventare il maggiore esportatore mondiale di greggio.
Il segretario designato all’Energia Usa è sostanzialmente un negazionista climatico. Ritiene cioè che la crisi del clima non sia affatto una crisi ma solo una “sfida globale” e che sia “ben lontana dall’essere la più grande minaccia alla vita umana”, come sostiene anche il rapporto Bettering Human Lives, pubblicato quest’anno da Liberty Energy.
Non crede inoltre sia in corso alcuna transizione energetica e ritiene che una fonte di energia valga l’altra, “purché sia sicura, affidabile, conveniente e migliori le vite umane”.
Se sarà confermato (sempre che il Senato Usa non vada in recesso e i ministri voluti da Trump siano ufficializzati senza l’approvazione della Camera alta) che cosa ci si può attendere dalla sua nomina?
La risposta, a grandi linee, l’abbiamo già fornita in precedenti articoli considerando le affermazioni di Trump, di cui Wright seguirà ovviamente la linea. Cerchiamo di fare qui qualche considerazione, con una sorta di pagella scolastica di previsione degli effetti che il duo Trump-Wright avrà sul trittico energia-clima-ambiente.
I giudizi non esprimono un valore assoluto, ma una tendenza relativa all’avanzamento o al regresso realisticamente attendibile delle singole voci considerate, soprattutto nel breve-medio termine.
La nomina di Wright conferma lo spostamento delle priorità energetiche dell’Amministrazione Usa verso i combustibili fossili e una presa di distanza dalle rinnovabili, con potenziali benefici per l’energia nucleare, ma possibili e significative battute d’arresto per l’eolico, con FV e EV a passo un po’ ridotto, quanto a effetto netto delle nuove politiche Usa rispetto alle dinamiche normative e di mercato già in atto.
Le decisioni degli Stati Uniti si concentreranno sull’accessibilità e la sicurezza energetica a scapito della riduzione delle emissioni e della tutela dell’ambiente. Tuttavia, le dinamiche del settore privato, le iniziative a livello statale e le dinamiche del mercato globale controbilanceranno in modo importante le tendenze Usa nei comparti energetici, mentre la frenata di Washington su clima e ambiente avrà un impatto negativo maggiore sul ritmo di decarbonizzazione, che risultava già troppo lento rispetto agli obiettivi anche prima dell’entrata in scena del duo Trump-Wright.
Cerchiamo di motivare più nel dettaglio le previsioni appena fatte.
“Il mondo funziona con petrolio e gas, e ne abbiamo bisogno”, dichiarava Wright alla CNBC nel 2023, affermando che la richiesta di abbandonare i combustibili fossili in un decennio è una “tempistica assurda“.
Wright, come Trump, è un evangelista degli idrocarburi e della deregolamentazione. La conseguenza più immediata di questi due orientamenti è che negli Usa le società petrolifere e del gas fossile otterranno molto più facilmente i permessi di esplorazione e trivellazione nelle terre e acque federali.
Le semplificazioni non si tradurranno in un nuovo boom della produzione petrolifera nel breve-medio termine.
La maggior parte della produzione Usa avviene infatti su proprietà statali, non federali. Ciò significa che, nonostante la deregolamentazione prossima-futura, né il presidente Usa né il suo segretario all’Energia possono aumentare unilateralmente la produzione di greggio, nonostante la retorica politica. Se gli Stati vogliono offrire più permessi, non devono aspettare la nuova amministrazione Usa.
La verità è che la produzione di petrolio, come quella di qualunque altra commodity, risponde soprattutto all’andamento dei prezzi. Se le estrazioni di shale oil Usa aumenteranno sarà sulla scia di prezzi sostenuti, non di altro, e potrebbero volerci anni per sviluppare nuovi giacimenti.
“Non ci aspettiamo che le prospettive di produzione degli Stati Uniti, almeno nel 2025, siano realmente influenzate dalle elezioni di Trump”, ha dichiarato Payam Hashempour, analista di S&P Global Commodity Insights.
Attualmente, i prezzi petroliferi internazionali sono relativamente alti, a causa del contenimento delle quote di produzione dell’OPEC+. Ma stanno aumentando le pressioni da parte degli Stati membri per aumentare le quote di produzione.
Dall’altra parte, nuove e maggiori eventuali sanzioni contro Paesi produttori, come Iran e Venezuela, potrebbero portare a una riduzione delle forniture e a un aumento dei prezzi.
Ma è improbabile che questo possibile calo delle forniture di due soli Paesi sovrasti l’atteso aumento dell’offerta dell’OPEC+. S&P Global Commodity Insights prevede dunque un eccesso di offerta di circa un milione di barili al giorno nel primo trimestre del 2025. Ciò potrebbe comportare un calo dei prezzi, con conseguente riduzione della produzione petrolifera Usa, a prescindere da Trump e Wright.
È dallo scorso gennaio che gli Usa hanno messo in pausa le autorizzazioni per gli accordi di gas naturale liquefatto (Gnl) con i Paesi non aderenti agli accordi di libero scambio.
La produzione di gas fossile con Trump e Wright potrebbe fare leva sulle stesse politiche permissive citate per il petrolio. L’andamento del mercato del gas però è di più difficile vaticinio, perché dipenderà in misura maggiore da vari fattori incrociati di politica internazionale e commerciale.
Il settore attende, infatti, di capire come si muoverà Trump rispetto alla guerra tra Russia e Ucraina e circa nuovi potenziali dazi contro la Cina.
Un’eventuale spinta americana verso un cessate il fuoco o un accordo di pace fra Russia e Ucraina potrebbe liberare nuovi flussi di gas via tubo verso l’Europa, che però nel frattempo ha ridotto molto la sua dipendenza dal gas russo.
Al contrario, i flussi di Gnl americano potrebbero ridursi in caso di guerra commerciale con la Cina, la cui domanda di gas continua a rimanere forte e che cercherà di aumentare la produzione interna, oltre a incrementare altre importazioni.
Nel breve-medio termine, insomma, potrebbe esserci una maggiore disponibilità di gas russo via tubo in Europa e una domanda cinese che dovrebbe riuscire a essere soddisfatta da un maggior numero di flussi regionali via tubo da fornitori asiatici e di carichi di Gnl provenienti dal Medio Oriente e dall’Africa, secondo S&P Global Commodity Insights.
In caso di rinnovate tensioni commerciali, il settore gas americano ridurrebbe o interromperebbe i carichi di Gnl verso la Cina. Tale gas potrebbe rimanere in parte in patria, continuando a dirigersi come Gnl soprattutto verso l’Ue, dove gli stoccaggi sono comunque pieni, o il Giappone.
Se l’inverno 2024/25 si rivelasse particolarmente rigido, potrebbe esserci una domanda maggiore, ma la combinazione di queste possibili dinamiche sembra indicare più un’abbondanza che una carenza di offerta di gas a livello internazionale e nelle varie regioni del mondo nel breve-medio termine.
In questo scenario, i prezzi del gas non salirebbero e, come per il petrolio, la sola presenza di Trump alla Casa Bianca e di un industriale del fracking al dipartimento dell’Energia non sarebbero sufficienti a innescare una nuova corsa agli idrocarburi. Tutto ciò al netto del fatto che l’elettrificazione degli Usa e del resto del mondo continua, sostituendo gradualmente il fabbisogno di gas e greggio.
Il presidente uscente Joe Biden è stato molto favorevole allo sviluppo dell’eolico marino e, per una sorta di reazione uguale e contraria, è prevedibile che Trump e il suo segretario all’Energia siano fortemente avversi a questa tecnologia.
Nonostante il 70% dell’energia eolica Usa sia generata negli Stati a maggioranza repubblicana, durante la campagna elettorale Trump ha detto che una delle prime cose che avrebbe fatto da presidente è annullare i diritti di superficie concessi per l’eolico offshore e di non offrirne di nuovi. Sembra improbabile che si arrivi a un annullamento delle concessioni in essere, visti i contenziosi che ciò innescherebbe e i tempi lunghi di una loro risoluzione.
È più probabile una stretta sui nuovi permessi, oppure che l’Amministrazione entrante si affianchi agli oppositori locali dell’eolico nei contenziosi civili nei casi di Nimby, aumentando le possibilità di frenare l’espansione del comparto. Su questo fronte la Casa Bianca potrebbe poi intervenire tramite una riforma dell’Inflation reduction Act (IRA), eliminando o riducendo i crediti d’imposta riguardanti l’eolico.
A differenza dell’eolico, il fotovoltaico è stato preso molto meno di mira da Trump durante la campagna elettorale. Data la crescente competitività dei costi dell’energia FV, questa dovrebbe continuare a espandersi anche senza il sostegno federale, pur se un po’ più lentamente.
I settori commerciale, industriale e delle utility stanno investendo infatti sempre più nel FV per ridurre i costi energetici e raggiungere gli obiettivi di sostenibilità, creando una domanda che prescinde dalle politiche federali.
A differenza dell’eolico, che è principalmente di grande taglia, il fotovoltaico può contare negli States su una miriade di piccoli impianti sui tetti delle case, che combaciano molto di più con l’idea di indipendenza, autonomia e resilienza individuale tanto cara alla mitologia della frontiera americana.
Anche sul fronte dei grandi impianti, comunque, il Texas, uno degli Stati repubblicani per eccellenza e teatro di tanta parte della mitologia americana della frontiera, ha sviluppato più energia FV (e anche eolica) di scala utility di qualsiasi altro Stato, ed entro la fine dell’anno supererà la California per il maggior numero di batterie collegate alla rete.
È abbastanza impensabile, visti i costi minori di queste soluzioni, che il Texas rinunci tanto facilmente alle rinnovabili con batterie, visto il ruolo svolto nell’evitare le emergenze di rete quest’estate.
Data poi la dichiarata volontà della prossima Amministrazione Trump di inasprire ulteriormente i dazi contro la Cina, anche nel segmento FV, difficile pensare a una contemporanea esclusione del fotovoltaico dai crediti d’imposta dell’IRA a casa propria, o un loro ridotto accesso, in un momento in cui si vuole consolidare il rimpatrio di almeno alcuni anelli della catena di fornitura.
Gli incentivi federali esistenti per il fotovoltaico e i veicoli elettrici godono poi di un sostegno bipartisan e potrebbero essere molto difficili da eliminare o ridurre, visto che il grosso dei sussidi è andato agli Stati repubblicani.
Il potenziamento previsto della rete elettrica, che tecnicamente non fa distinzione sulle fonti di generazione, rappresenta di per sé un fattore abilitante anche per le rinnovabili, oltre che per la generazione a gas, allentando uno dei maggiori colli di bottiglia dell’elettrificazione dei consumi.
Anche il mercato dei veicoli elettrici ha raggiunto un punto di svolta. Aziende americane come GM, Ford e Tesla (il cui capo Musk e notoriamente braccio destro di Trump) hanno effettuato ingenti investimenti nella produzione di veicoli elettrici, rendendo improbabile un’inversione di rotta del settore a causa di possibili cambiamenti nelle politiche federali.
L’industria automobilistica Usa, inoltre, non può fare a meno di allineare la propria produzione ai mercati internazionali, dove l’elettrificazione dei trasporti rimane una priorità, con i costi delle batterie che continuano a calare grazie a progressi tecnologici ed economie di scala, rendendo gli EV più accessibili.
La tendenza di lungo termine all’aumento della domanda da parte dei consumatori, grazie alla crescente consapevolezza dei problemi climatici, alla riduzione dei prezzi dei veicoli elettrici e al miglioramento delle infrastrutture di ricarica, sostiene insomma un’ascesa continua del settore, anche se forse più lenta.
Wright siede nel Consiglio di amministrazione di Okloha, una società impegnata nello sviluppo di reattori nucleari modulari, e come Trump ha espresso molto interesse per le fonti ad alta densità energetica come il nucleare, nelle vesti di complemento affidabile e scalabile agli idrocarburi, ponendolo come una delle opzioni preferite per la decarbonizzazione, a scapito delle rinnovabili.
Tale scenario, però, ha poche probabilità di realizzarsi nel breve-medio termine o anche entro la fine del mandato di Trump, cosa che rende il nucleare un’opzione molto più teorica che pratica, visti i ritardi sui tempi e gli sforamenti dei costi che da anni caratterizzano le diverse varianti di questa tecnologia.
Ciò nonostante, l’attenzione e le risorse dedicate al nucleare, che gode di grande appoggio anche da parte del Partito Democratico, aumenteranno. È prevedibile quindi che durante il suo mandato, Wright presiederà a un aumento dei finanziamenti federali e del sostegno alle tecnologie nucleari, come appunto i piccoli reattori modulari.
È scontato anche che la nuova Casa Bianca snellirà le autorizzazioni per i nuovi progetti nucleari, anche tradizionali, facendo vivere a questa tecnologia una rinnovata fase di fermento.
Segnata dalla probabile uscita degli Usa dall’Accordi di Parigi del 2015 e forse anche dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, la nuova politica climatiche americana darà priorità alla crescita economica e all’accessibilità energetica rispetto agli obiettivi di decarbonizzazione, riflettendo lo scetticismo o il negazionismo circa la portata dei mutamenti climatici rispetto ad altre sfide globali.
Le norme ambientali per l’estrazione e l’uso dei combustibili fossili saranno ridotte per stimolare la produzione di idrocarburi, aumentando le emissioni di gas serra. Anche gli sforzi di contenere le emissioni fuggitive di metano, cioè di gas fossile, che ha una capacità climalterante oltre 80 volte maggiore di quella della CO2, saranno probabilmente ridotti o interrotti.
Gli Usa cercheranno quindi di concentrarsi maggiormente sull’adattamento ai mutamenti climatici piuttosto che sulla loro mitigazione, cioè sulla riduzione delle emissioni.
Le modifiche delle regole sotto Trump e Wright potrebbero portare a 4 miliardi di tonnellate di emissioni statunitensi in più entro il 2030 rispetto ai piani democratici, secondo un’analisi di Carbon Brief.
Questi 4 miliardi di tonnellate di CO2 in più entro il 2030 annullerebbero, moltiplicati per due, tutti i risparmi di CO2 ottenuti negli ultimi cinque anni grazie a eolico, fotovoltaico e altre tecnologie pulite in tutto il mondo. Inoltre, causerebbero danni climatici globali per oltre 900 miliardi di dollari, secondo le valutazioni dell’Environmental Protection Agency (Epa) Usa.
In base alle politiche attuali, ci dovrebbero essere circa 7.700 miliardi di dollari di investimenti per il settore energetico statunitense nel periodo 2023-2050, secondo la società di analisi Wood Mackenzie. L’elezione di Trump potrebbe far scendere tale cifra di 1.000 miliardi di dollari (1 trilione di dollari), se i repubblicani annulleranno le politiche che sostengono l’energia a basse emissioni con le relative infrastrutture.
Sebbene un’Amministrazione Trump con Chris Wright come Segretario all’Energia potrebbero ridurre il sostegno federale a eolico, fotovoltaico e veicoli elettrici, tendenze strutturali come la competitività del mercato, le politiche statali, le iniziative aziendali, le dinamiche globali e il sostegno di una grossa fetta dell’opinione pubblica sosterrebbero comunque la crescita delle rinnovabili.
La nuova Casa Bianca non riuscirà insomma a invertire la transizione energetica e la decarbonizzazione, ma sicuramente le freneranno, a scapito di clima e ambiente, con emissioni nette che tarderanno ancora di più a raggiungere il picco storico, prima di iniziare a scendere.
È una conseguenza grave, visto che secondo il consenso scientifico il tempo per rallentare il surriscaldamento dell’atmosfera è poco e che questo decennio sarà cruciale nell’indirizzare la crisi del clima in peggio o in meglio.
I prossimi quattro anni avranno insomma un impatto decisivo sulle sorti del pianeta e dell’umanità e il risultato che il duo Trump-Wright avrà sul trittico energia-clima-ambiente sarà negativo. Rimane da vedere in che misura esattamente, se in maniera poco percettibile rispetto alla status quo o se con una forza molto maggiore.
Smontata la legge Calderoli in ben 7 punti. Torna la centralità del Parlamento: la strada costituzionale è quella del regionalismo solidale. Cgil: “Continuiamo a sostenere la richiesta di referendum”
Bisognerà aspettare il dispositivo della sentenza ma le tre pagine di comunicato rese pubbliche dalla Corte costituzionale al termine della due giorni di camera di consiglio sono chiare. Così come è concepita la legge Calderoli non va bene, sono 7 i punti ritenuti incostituzionali dai supremi magistrati.
È quella dunque compiuta dalla Cgil che da tempo contrasta questa idea di autonomia differenziata. Si rimarca infatti in una nota della Confederazione di Corso d’Italia: “A leggere il comunicato stampa con cui la Corte costituzionale ha anticipato i contenuti della sentenza che dichiara illegittime parti significative della Legge Calderoli, trovano ‘solenne’ conferma molte delle ragioni che ci hanno spinto a mobilitarci per contrastarla e a schierarci, fin dal 2017, contro un percorso di attuazione dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione che minava l’unità del Paese”.
È proprio questo uno dei punti di bocciatura della norma: la devoluzione complessiva delle 23 materie previste da Calderoli è in contrasto con la Costituzione. Dice infatti la Corte che si possono devolvere solo funzioni legate alle singole materie e solo se esistono ragioni precise e specifiche per singola Regione per farlo. Altro che tutta l’istruzione, tutta la mobilità, tutta la politica energetica ecc: è la differenza che passa tra il regionalismo solidale voluto dai costituenti e la competizione tra Regioni auspicata da Zaia, Fontana, Calderoli e Salvini.
La nota della Cgil, parlando della bocciatura della Corte, aggiunge: “È la dimostrazione che si tratta di un disegno volto a disarticolare la Repubblica in venti piccole patrie e a compromettere irrimediabilmente i fondamentali principi di uguaglianza, di solidarietà e di coesione sociale.
Altro punto dirimente riguarda i Lep. Innanzitutto non può esserci differenza tra le materie Lep e quelle non Lep nella devoluzione di funzioni e un’affermazione contenuta nel comunicato fa ben capire quanto i diritti di cittadinanza siano da tutelare ovunque e per tutti. Scrive la Corte che l’autonomia differenziata “deve essere funzionale a migliorare l’efficienza degli apparati pubblici, e a meglio rispondere alle attese e ai bisogni dei cittadini”.
Altro che intese tra Regioni e governo, altro che definizione dei livelli essenziali delle prestazioni stabiliti a Palazzo Chigi, l’alta magistratura afferma che tutto deve essere deciso da Camera e Senato, le intese devono essere discusse ed emendate dal Parlamento, così come la definizione dei Lep e tutta la parte fiscale. Un bel cambio di paradigma davvero, e un bel ritorno alla Carta del ’48. Speriamo valga non solo per l’autonomia differenziata, il riequilibrio tra potere esecutivo e potere legislativo sarebbe davvero auspicabile.
Rimane ovviamente in piedi il quesito referendario sottoscritto da oltre un milione di cittadine e cittadine che chiede l’abrogazione dell’intera norma. Nessuna correzione di quel testo a cura dello stesso autore, il ministro Calderoli, potrà farla tornare nel solco costituzionale. Conclude, infatti, la nota della Cgil: “Attendiamo, ovviamente, la pubblicazione della sentenza per valutazioni più approfondite. Riteniamo comunque che, per lo spirito egoista e separatista che ha ispirato fin dal principio questo progetto di autonomia differenziata, resti in piedi il rischio che si determinino danni pesantissimi al tessuto economico e sociale nazionale. Perciò continuiamo a sostenere la richiesta di referendum integralmente abrogativo sottoscritta da oltre 1,3 milioni di cittadine e cittadini affinché, nella prossima primavera, le elettrici e gli elettori possano cancellare definitivamente una legge pericolosa e antistorica, facendo tramontare ogni ipotesi di sua attuazione”.
La Via Maestra Insieme per la Pace della provincia di Ravenna fa propria la Campagna promossa dalla Rete Pace e Giustizia in Medio Oriente per l’immediato riconoscimento dello Stato di Palestina. Della Via Maestra della provincia di Ravenna fanno parte più di trenta associazioni, fra cui, ARCI, ANPI, CGIL, Casa delle donne, Coordinamento per la Democrazia Costituzionale, Donne in nero, Libera, Over All Faenza, UDI.
In tal senso, nel corso del tempo, si sono alzate tante autorevoli voci di organismi internazionali. Inoltre, i due terzi dei paesi che fanno parte delle Nazioni Unite riconosce lo Sato di Palestina e fra questi numerosi Stati Europei. L’Italia non può attendere oltre. Ci rivolgiamo quindi ai Sindaci della nostra Provincia con la richiesta di trasmettere ai Presidenti dei consigli Comunali, agli assessori competenti, alle Consigliere e ai Consiglieri la lettera con la quale la Campagna è stata promossa e una bozza di ordine del giorno che alcune importanti città, come Firenze e Milano, hanno già approvato.
Spediremo la lettera ai Sindaci e, contestualmente, in ogni città una nostra delegazione chiederà al Sindaco un incontro per illustrare le nostre ragioni e verificare un sollecito inserimento dell’ordine del giorno nel calendario dei lavori del Consiglio Comunale. Una nostra delegazione seguirà il dibattito nei vari Consigli Comunali.
Avremo cura di informare di questa nostra azione anche sua Eccellenza il Prefetto di Ravenna.
La Via Maestra Insieme per la Pace della nostra provincia ha inoltre predisposto un proprio calendario di presidi permanenti per la fine del massacro del popolo palestinese, che molte autorevoli voci dicono possa definirsi genocidio.
Il primo presidio è previsto per il 26 ottobre, nel contesto della mobilitazione nazionale straordinaria contro la guerra promossa da moltissime associazioni, con il motto “Fermiamo le guerre. Il tempo della pace è ora!”.
Il presidio si terrà ogni sabato, fino alla fine di novembre, dalle 17 alle 18, in luoghi che variano a seconda della agibilità degli spazi.
26 ottobre, piazza Anita Garibaldi
2 novembre, Piazza del Popolo
9 novembre, Piazza del Popolo
16 novembre, piazza Andrea Costa
23 novembre, spazio da verificare
30 novembre, Piazza Andrea Costa
Valuteremo, a fine novembre, come continuare la mobilitazione.
La Via Maestra Insieme per la Pace della provincia di Ravenna
Tre anni fa ho partecipato, una notte, all’assemblea permanente all’ex GKN di Campi Bisenzio. Una notte di sorveglianza, a fine agosto, con dei giovani operai. Otto ore di racconti e riflessioni molto varie. Avevano perso il lavoro con un messaggino sul cellulare e non è che si facessero grandi illusioni sulla vittoria finale. Apparivano anzi molto consapevoli del realismo capitalista che dettava le regole del gioco del lavoro (sfruttato) e della vita (precaria) un po’ dappertutto. Immaginare gloriose vittorie era difficile. E tuttavia al presidio c’erano, con un grande legame affettivo, cioè con un legame politico. Si sentivano in questo intensamente fratelli – anche di noi, solo solidali, solo di passaggio. Mi sembravano un pezzo di classe che esisteva non solo in sé ma anche per sé, come soggetto politico, per quanto con la consapevolezza amara di tutto. Ma il tutto resta un problema. E non solo in Italia, dove le tragedie acquistano dal Governo sempre un po’ il tono della farsa crudele. Carcere per i neonati, telefoni vietati per i migranti, galera per qualunque dissenso, proclami di epica difesa dei sacri confini. E però è tutta l’Europa che va verso il baratro. E tutto l’Occidente, muto sulle stragi in Palestina. Sulla scena politica sembrano restare solo una specie di centrosinistra da establishment e una destra antiliberale e iperliberista, nazionalista e razzista. Come fosse sempre Hillary Clinton contro Donald Trump. E allora davvero non c’è partita.
L’immigrazione genera dappertutto la paura che detta l’agenda, che l’estrema destra sia al potere o no. Vedi Germania e Francia, ora Austria. In Germania, oltre all’AFD avanza il partito di “sinistra conservatrice” di Sarah Wagenknecht. Una specie di socialismo sovranista e patriottico, ma antiliberista e attento ai bisogni dei ceti svantaggiati. E quei bisogni includono una drastica riduzione delle aperture alle frontiere. Perché sarà vero che in termini assoluti l’immigrazione non è un’invasione, ma in certi quartieri popolari, lontani dalla ztl, quell’invasione c’è o è percepita come esserci. Minacciosa e competitiva. La classica vicenda dei penultimi contro gli ultimi, o degli ultimi contro i nuovi ultimissimi. Il suo partito personale (BSW) in questo forse assomiglia un po’ ai Cinque Stelle prima maniera, quella di Di Maio e delle Ong taxi del mare. In una intervista spiegò che il popolo sentiva la presenza dei migranti come una minaccia da allontanare. E loro erano il popolo, dunque riflettevano quella paura e quel bisogno. Lo assumevano. Contano solo i bisogni così come si presentano sulla scena – scena data per definizione, quella della penuria di risorse e dell’impossibilità di redistribuirle. Tutto il resto è sovrastruttura, moralismo dei ricchi, etica ridotta a lusso per le élite. E la classe che libera se stessa non libera più tutto il mondo, anzi si libera se si chiude al mondo. È possibile, come sostiene anche Stefano Fassina, che così si riconquisti il popolo alla sinistra – e però si paga mi pare un prezzo molto alto, quello di chiudersi in una politica dei bisogni che si nega ai desideri, che legge tutto a partire da una condizione di abbandono e solitudine. E non vede le altre tante periferie del mondo, né quanto l’ostilità verso l’immigrazione sia non un dato meccanico, prodotto necessariamente dalla condizione economica, piuttosto il risultato di quella condizione dentro un isolamento, nella desertificazione di relazioni politiche, di vicinato e prossimità, indotta dal neoliberismo che poi si sposa serenamente con i mitici legami del sangue e del suolo.
Credo che agisca in questa sinistra anche l’idea un po’ bizzarra che rivendicando il concetto di patria e di nazione magicamente le masse popolari si riavvicineranno, ritrovando la nobile tradizione di risorgimento e resistenza – si chiama “Patria indipendente” la rivista dell’Anpi. E tuttavia a me la verità sembra molto più banale. Senza un “privilegio nazionale” associato alla patria, della nazione non credo che importi molto a nessun nazionalista, di sinistra o di destra. Se la definizione non serve a escludere, la patria torna ad essere puro sterile mito. Il contenuto di liberazione che possedeva, oggi mi pare del tutto scomparso – salvo in certi paesi del sud del mondo o in America Latina, dove appunto conserva un contenuto di emancipazione. Da noi funziona solo come autorizzazione a liberarsi dallo sguardo degli altri: di quelli che fuggono, soffrono, o desiderano vivere la propria vita, altrove. Forse alla base c’è di nuovo l’accettazione del realismo capitalista che rende il grande capitale, globalizzato e finanziarizzato, inarrivabile, assurto a dato di natura. Sottratto al discorso pubblico.
Quando nel paese in cui sono nato arrivarono negli anni Sessanta i migranti dal sud d’Italia – che chiamavamo tutti “siciliani” di qualunque regione fossero – anche per loro c’era una sorta di segregazione sociale e culturale. Avevano i loro bar, le loro piazze, nelle scuole i loro quadernini neri del patronato scolastico. Uno stigma. Credo che siano stati salvati dal 68-69 operaio: da un progetto di liberazione collettiva che li faceva alleati nella lotta contro il capitale. Ma oggi, se non c’è quell’orizzonte politico di emancipazione, che almeno ci si liberi dalla concorrenza verso le risorse sempre più esigue dello stato ex sociale delle famiglie numerose degli ultimi arrivati. All’epoca il vecchio PCI teneva insieme tutte le dimensioni: quella economica con quella culturale ed etica. A me non piaceva quella lettura universale che disegnava una specie di chiesa capace di offrire tutte le risposte, però mi rendo conto adesso che funzionava. Dava appartenenza e apertura alla complessità – insieme a un filo rosso per attraversarla. Oggi è un casino. E c’è una separazione triste fra l’etica dell’accoglienza, l’apertura a chi soffre, il rispetto della natura e dei diritti di chi è diverso e i bisogni quotidiani di strati popolari abbandonati, senza speranza, che la sinistra ha perduto.
Questo tuttavia mette in evidenza un aspetto sacrosanto. Senza spostamento di risorse verso uno Stato sociale che sia protettivo per tutte e tutti; senza conversione ecologica e una radicale redistribuzione del reddito, di fronte alla penuria, le guerre fra poveri saranno inevitabili. E dunque il conflitto per le questioni sociali e ambientali, quello per i diritti civili e la libertà delle migrazioni, sono da tenere insieme. In Francia, in Place de la République, si poteva leggere in uno striscione: La nation est un tissu de migration. Ecco: il popolo tanto invocato dai sovranisti è un tessuto di migrazioni. Lo è già di fatto. Basta guardare nelle nostre scuole, o le squadre alle olimpiadi. È in un certo senso tutto già accaduto. Ma è una realtà difficile a farsi discorso politico. Se non torna pensabile cambiare tutto. Se non si torna a parlare del capitalismo e dei suoi disastri. Così poco naturali.
Giappone Il premio di Oslo per la pace assegnato a Nihon Hidanky, l’organizzazione giapponese dei sopravvissuti alla bomba nucleare. Che ricorda: Gaza come allora Hiroshima
I resti di un edificio a Hiroshima a seguito dell’impatto della bomba atomica – foto Ap
Il premio Nobel per la pace 2024 è stato assegnato all’organizzazione giapponese Nihon Hidankyo, un gruppo fondato nel 1956 da sopravvissuti delle due bombe sganciate su Hiroshima e Nagasaki nel 1945. Il riconoscimento è stato assegnato per il forte e fermo impegno dell’organizzazione, che era già stata candidata in tre passate occasioni (1985, 1994 e 2015), nel costruire una società dove non esistano più le armi nucleari. Si tratta del secondo Nobel per la pace giapponese dopo quello vinto cinquant’anni fa dal primo ministro Eisaku Sato per l’adesione del Giappone al Trattato di non proliferazione nucleare.
NEL SUO DISCORSO, il presidente del comitato norvegese per il Nobel, Joergen Watne Frydnes, ha dichiarato che gli sforzi del gruppo e di altri rappresentanti degli hibakusha, i sopravvissuti ai due ordigni atomici, hanno contribuito in maniera importante alla formazione di un sentimento anti-nucleare nella società contemporanea. È quindi enormemente allarmante, ha continuato Frydnes, che oggi questo tabù contro l’uso delle armi nucleari sia messo sotto pressione e in discussione da paesi che stanno modernizzando e potenziando i loro arsenali. Inoltre nuovi stati sembrano prepararsi ad acquisire armi nucleari ed esiste la minaccia di usare queste testate nei conflitti attualmente in corso. Frydnes ha concluso il suo discorso sottolineando il fatto che, in questo momento della storia umana vale la pena ricordare a noi stessi cosa siano le armi nucleari, le armi più distruttive che il mondo abbia mai visto.
Una preoccupazione confermata dalla stessa associazione nipponica. «A Gaza vediamo bambini insanguinati, è come in Giappone 80 anni fa», ha affermato Toshiyuki Mimaki, direttore dell’organizzazione esposto alle radiazioni nella sua casa di Hiroshima all’età di 3 anni, commentando l’assegnazione del premio.
IL RICONOSCIMENTO arriva un anno prima dell’ottantesimo anniversario delle due bombe sganciate su Hiroshima e Nagasaki il 6 e il 9 agosto 1945 e premia l’attività dell’organizzazione giapponese in un annata in cui fra i candidati c’erano anche l’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel vicino oriente, il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres e la Corte penale internazionale, tra gli altri.
AL MOMENTO sono circa centocinquantamila gli hibakusha e la loro età media sarebbe, secondo i dati del governo giapponese, di 85 anni, il che significa che sarà sempre più difficile, in futuro, portare le loro testimonianze dirette alle nuove generazioni. Si tratta di una testimonianza che è inscritta, con dolore, nei corpi e nella memoria di questi sopravvissuti e delle loro famiglie, vittime che furono doppiamente colpite dalla tragedia. Non solo le bombe sganciate sulle due città con gli orrori che ne conseguirono infatti, ma il fatto che in seguito, e in parte ancora oggi, siano stati oggetto di discriminazione continua, senza dimenticare poi che lo stato Giapponese rifiutò la responsabilità di aver scatenato la guerra e quindi il conseguente risarcimento agli hibakusha, sia giapponesi sia i migliaia di coerani che furono portati in Giappone come manodopera e che si trovavano nelle due città al momento delle esplosioni.
LA TESTIMONIANZA dell’orrore senza fine causato dai due ordigni atomici e la colpa e responsabilità dello stato sono due dei pilastri su cui si fonda il Nihon Hidankyo, il cui nome completo è Confederazione Giapponese delle Organizzazioni delle Vittime delle Bombe Atomiche e a Idrogeno. Bomba a idrogeno perché in principio, fu fondato il dieci agosto 1956, si trattava di un gruppo di protesta anche contro i test americani effettuati nei pressi dell’atollo di Bikini a partire dal 1954, quando circa un migliaio di pescherecci giapponesi furono contaminati dalle radiazioni. È una coincidenza affascinante che proprio fra qualche settimana, esattamente il 3 novembre, si celebri il settantesimo anniversario dell’uscita del primo Godzilla diretto da Ishiro Honda, il 3 novembre 1954, lungometraggio che fu ispirato ai fatti dell’atollo di Bikini.
SECONDO LO STATUTO dell’organizzazione, i tre obiettivi principali delle attività del gruppo sono la prevenzione della guerra nucleare e l’eliminazione delle armi nucleari, da ottenere attraverso la firma di un accordo internazionale per la messa al bando e la totale eliminazione di queste. Il risarcimento da parte dello stato dei danni causati dalle due bombe, vale a dire, la responsabilità dello stato giapponese per aver scatenato la guerra, come si scriveva più sopra, dovrebbe essere pienamente riconosciuta con i conseguenti risarcimenti. Non ultimo, l’organizzazione si adopera e lotta per il miglioramento delle attuali politiche e misure di protezione e assistenza nei confronti degli hibakusha. Come ha fatto attentamente notare la studiosa Akiko Naono, una caratteristica poco discussa del Nihon Hidankyo, ma importante se si vuole comprendere come l’organizzazione abbia saputo evolversi, è stata la sua ferma opposizione verso il governo giapponese, una politica di fatta di lunghi contrasti e lotte