«Cosa faremo, dove andremo se Israele attaccherà anche Rafah? Francamente non lo so, ci sentiamo in trappola». La voce sembra giungere dall’altra parte del mondo tanto è flebile e lontana.
Ma Fares Abu Fares, direttore a Gaza dell’ong Heal Palestine, è a Rafah a portare aiuto alla sua gente nel pieno della crisi umanitaria scatenata dall’offensiva militare israeliana. «Ogni giorno – dice – un centinaio di nostri volontari preparano e distribuiscono almeno 10mila pasti, ma non sfamiamo solo la gente».
HEAL PALESTINE, aggiunge, «si preoccupa anche di tenere pulite quattro scuole in cui si trovano migliaia di sfollati. Per garantire un minimo di igiene a tante persone, in gran parte bambini, e proteggere le scuole. Un giorno ci serviranno di nuovo per dare un’istruzione ai nostri figli».
Se Israele non attaccherà Rafah, commenta Hala, una volontaria madre di tre figli, a cui Fares ha passato il telefono. «Leggiamo le nostre ultime preghiere ogni notte – racconta – Speravamo nella tregua ma è fallito tutto».
Heal Palestine ha pronto un piano di emergenza: «Se ci cacceranno da Rafah, andremo a Deir Al Balah – spiega Fares – però non sappiamo cosa troveremo lì, le bombe hanno distrutto Gaza».
A parole, sono ripresi ieri al Cairo i colloqui cominciati il mese scorso a Parigi – tra i capi dei servizi di intelligence di Stati uniti, Egitto, Israele con i mediatori del Qatar. In discussione c’è un nuovo accordo di tregua, dopo il rifiuto di Israele della controproposta presentata da Hamas.
Un funzionario egiziano ha affermato che l’incontro si sta concentrando sulla «elaborazione di una bozza finale» di una «pausa umanitaria» di sei settimane, con la garanzia che le parti continueranno i negoziati verso un cessate il fuoco permanente.
COMUNQUE sia, il compromesso appare lontano. Israele afferma di voler «stanare» i militanti di Hamas e il loro capo a Gaza, Yahya Sinwar, dai tunnel sotto Rafah e di voler liberare gli ostaggi con i suoi soldati.
Starebbe elaborando soluzioni per evacuare i civili palestinesi intrappolati nella città e nelle sue tendopoli. Ma non è stato presentato alcun piano e le agenzie umanitarie avvertono che gli sfollati non hanno altro posto dove andare nel territorio devastato.
L’impressione è che Israele, dopo la liberazione a Rafah di due ostaggi da parte dei soldati, si sia convinto ancora di più di dover usare la forza e non la trattativa per riportare a casa i 134 sequestrati (di cui almeno 31 sarebbero morti) attraverso uno scambio con prigionieri politici palestinesi. Allo stesso tempo Hamas insiste nella richiesta di un cessate il fuoco definitivo e di ritiro di Israele da Gaza.
Posizioni molto distanti che non sarà facile avvicinare. Inoltre, se sono affidabili le informazioni riferite due giorni fa dal quotidiano libanese Al-Akhbar, Israele non pensa in alcun modo alla tregua perché avrebbe elaborato un piano di evacuazione di Rafah assieme ai suoi alleati.
Secondo il giornale, che non cita le sue fonti, verranno creati circa 15 villaggi sulla costa tra Mawasi a sud e Sheikh Ajlin alla periferia di Gaza city, con 25mila tende ognuno.
Saranno gestiti da palestinesi non legati ad Hamas e verrà creato un porto galleggiante. I punti di transito di Rafah e Kerem Shalom saranno chiusi e gli aiuti arriveranno dai valichi sul lato est. Un piano che permetterebbe a Israele di attaccare Rafah con la benedizione dell’amministrazione Biden.
INTANTO l’Unrwa, l’agenzia dei profughi palestinesi, presa di mira per la presunta partecipazione di 12 suoi dipendenti all’assalto di Hamas nel sud di Israele il 7 ottobre (circa 1.200 morti), è tornata a mettere in guardia sugli effetti catastrofici di un’offensiva su Rafah. Juliette Touma, la portavoce, ha chiarito che l’agenzia non è a conoscenza di alcun piano di evacuazione.
«Dove manderete le persone visto che nessun posto è sicuro in tutta Gaza, il nord è distrutto, cosparso di armi inesplose, è praticamente invivibile. Qualsiasi ulteriore escalation sarebbe apocalittica», ha detto Touma, aggiungendo che l’Unrwa non parteciperà a un’evacuazione forzata.
Intanto il governo del Sudafrica, che accusa Israele di genocidio, ha presentato una richiesta urgente alla Corte internazionale di giustizia (Icj) per valutare se la decisione annunciata da Israele di estendere le operazioni militari a Rafah non richieda «l’adozione di ulteriori misure per imminenti violazioni dei diritti dei palestinesi a Gaza».
Il ministero della sanità a Gaza ieri ha riferito di altri 133 palestinesi uccisi nelle ultime 24 ore, portando il totale a 28.473 morti e 68.146 feriti dal 7 ottobre.
Resta ad alta tensione il confine tra Libano e Israele. Commentando ieri le notizie su un’iniziativa francese per mettere fine agli scontri, il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah ha ribadito che il movimento sciita interromperà i suoi attacchi soltanto quando Israele cesserà la sua offensiva a Gaza.
HA AGGIUNTO che le proposte fatte finora da paesi stranieri puntano solo a consolidare la sicurezza di Israele. Parigi ha consegnato una proposta scritta a Beirut che chiede ai combattenti, inclusa l’unità d’élite Radwan di Hezbollah, di ritirarsi di 10 km dal confine.
Gli scontri transfrontalieri hanno già ucciso circa 200 persone in Libano, tra cui più di 170 combattenti di Hezbollah, oltre a 10 soldati e 5 civili israeliani.
Il segretario generale Cgil: “Amadeus dia spazio alle lotte dei lavoratori e al camper della Cgil, che chiede di cancellare la precarietà”
“Credo che il palco di Sanremo, che è un elemento non solo nazionale ma internazionale, se dà spazio anche alla lotta per i diritti e per il lavoro, è un fatto importante”. Lo afferma il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, parlando a Genova a margine di un appuntamento al Teatro nazionale in occasione dello spettacolo Fantozzi. Una tragedia.
Il leader della Cgil ha risposto a una domanda dei cronisti sulla possibilità che la protesta degli agricoltori venga ospitata sul palco del Festival di Sanremo. “A Sanremo ci sarà anche il camper dei diritti della Cgil e del sindacato scuola – ricorda -, che sta girando per l'Italia per dire che per difendere i diritti bisogna bloccare l'autonomia differenziata, che non è ciò di cui abbiamo bisogno”.
“Mi auguro – aggiunge Landini – che Amadeus e Sanremo diano spazio a tutti quelli che hanno la possibilità di difendere i diritti e il lavoro”. Quindi, conclude, “mi auguro diano spazio anche al camper della Cgil e a questa idea che vuole unire il Paese e non dividerlo. E dice che non abbiamo bisogno dell’autonomia differenziata, ma di investire sul lavoro per cancellare la precarietà”.
UNA NUOVA RUBRICA MULTIMEDIALE. Il viaggio del manifesto verso la Casa Bianca. Con reportage, video, podcast e newsletter vi raccontiamo l'anno zero degli Stati Uniti, verso le elezioni presidenziali di novembre. Con i nostri corrispondenti Marina Catucci e Luca Celada. Tutti i contenuti nel link in fondo all'articolo
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ELEZIONI WIN-WIN. Niente colpi di testa, lo status quo è salvo. E per Pechino è un esito dal gusto agrodolce
Supporter del Partito progressista democratico celebrano la vittoria di Lai Ching-te alle presidenziali - Ap
Una scelta estrema e radicale. Di primo acchito, senza conoscere bene la realtà interna di Taiwan e le dinamiche delle relazioni intrastretto con la Cina continentale, verrebbe da definire così l’esito delle elezioni presidenziali e legislative svoltesi ieri sull’isola.
Il primo voto con potenziali implicazioni globali di questo 2024 denso di appuntamenti alle urne. Se si scava più a fondo, però, si capisce che non è così. È vero che la vittoria di Lai Ching-te consegna al Partito progressista democratico (DPP) un terzo mandato presidenziale consecutivo per la prima volta da quando si svolgono le elezioni libere, cioè dal 1996. Ma è altrettanto vero che rispetto alle presidenziali del 2020 lo stesso partito ha perso circa due milioni e seicentomila voti. Una cifra imponente, considerando che gli aventi diritto sono poco più di 19,5 milioni. Dagli oltre otto milioni totalizzati quattro anni fa si è passati ai cinque milioni e mezzo di ieri. È vero che allora alla presidente uscente Tsai Ing-wen fu di fatto steso il tappeto rosso sotto i piedi: la repressione delle proteste di Hong Kong e il sostanziale prepensionamento dell’applicazione meno restrittiva del modello «un paese, due sistemi» in vigore nell’ex colonia britannica ribaltò i rapporti di forza con il Guomindang (Gmd), l’opposizione dialogante con Pechino, spostando completamente la campagna elettorale sul tema identitario.
Fu la prova che più il Partito comunista cinese mostra i muscoli e più i taiwanesi se ne allontanano. Era successo anche nel 1996 quando, nonostante le ripetute esercitazioni e i lanci di missili durante quella che è passata alla storia come la «terza crisi dello Stretto», vinse un candidato osteggiato da Pechino: Lee Teng-hui.
Non deve sorprendere eccessivamente, dunque, se bollarlo come un «secessionista radicale» come hanno fatto a più riprese le autorità continentali non sia bastato per sbarrare la strada del palazzo presidenziale a Lai. Anzi, consapevole che un’eccessiva aggressività durante la campagna elettorale avrebbe potuto rivelarsi controproducente, nella seconda parte del 2023 la Repubblica popolare ha adottato un profilo relativamente basso. Soprattutto sul fronte militare, preferendo invece un approccio da bastone e carota su quello commerciale. Prima, a due settimane dal voto, la rimozione di una serie di agevolazioni tariffarie sulle importazioni di prodotti taiwanesi. Poi, solo pochi giorni prima delle urne, la pubblicazione di un piano di integrazione economico e culturale tra Taiwan e Fujian, la provincia che si affaccia sullo Stretto. Con una serie di agevolazioni per i taiwanesi nell’aprire attività o risiedere sul “continente”, con accesso garantito anche al sistema di assistenza sociale.
Per Lai è stato così più difficile spostare il voto sul tema identitario come in precedenza era agevolmente riuscito a Tsai. Come la retorica da “guerra e pace” proposta a intermittenza da Pechino e dal Gmd ha delle lacune, anche quella identitaria del Dpp inizia a mostrare segni di stanchezza. Basti guardare al risultato delle legislative, dove il Dpp perde la maggioranza in modo piuttosto fragoroso.
Si scopre allora che forse il voto dei taiwanesi è stato più pragmatico di quanto sembrasse a prima vista. Non sono pochi coloro che ieri ai seggi parlavano di una necessità di bilanciamento dei poteri tra ramo esecutivo e ramo legislativo. Un modo anche per allontanare ulteriormente eventuali colpi di testa in grado di mettere a repentaglio lo status quo, il vero faro dei taiwanesi visto che quasi il 90% di loro lo indica come (non) soluzione preferita ai rapporti con Pechino.
A sembrare estrema e radicale potrebbe essere anche la prima presa di posizione ufficiale cinese dopo il voto.
«Taiwan è la Taiwan della Cina», si legge nel comunicato dell’Ufficio per gli Affari di Taiwan di Pechino. E ancora: «La madrepatria sarà inevitabilmente riunificata».
Eppure, c’è un’altra frase significativa: «I risultati delle elezioni a Taiwan mostrano che stavolta il Partito progressista democratico non rappresenta l’opinione pubblica maggioritaria dell’isola». Un modo per sottolineare una piccola vittoria, ma anche (probabilmente e auspicabilmente) per evitare reazioni scomposte al voto
Aria di bonus per l’acquisto di veicoli a impatto zero. Samuele Lodi, Fiom: “Noi siamo d’accordo con gli aiuti di Stato, ma che siano mirati ad aumentare la produzione in Italia”
C’è davvero poca elettricità nell’aria del mercato italiano delle auto elettriche. Le vendite non decollano, la loro quota sul totale resta ferma al 4,2%. Per questo da tempo c’è grande attesa per gli incentivi che il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, si prepara a varare. Per adesso però le prime bozze in circolazione – fanno notare gli analisti più accorti – potrebbero avere l’unico effetto di deprimere ancor più il mercato, cosicché anche chi era deciso a inaugurare il 2024 con l’acquisto di una full electric aspetterà di vedere il colore della fumata e poter toccare con mano gli aiuti di Stato.
“In Italia – sottolinea il dirigente dei metalmeccanici Cgil – si produce poco più del 20% delle auto immatricolate, in Germania la quota è del 119%. Per capirci, in Italia di cento auto vendute se ne producono 20, in Germania 119. Il tema è proprio questo: non possiamo pensare di creare un sistema di incentivi a beneficio delle vendite di auto prodotte all’estero. Bisogna aumentare la produzione di Stellantis”.
Il quadro è desolante, visto oggi. “Stellantis deve portare la produzione a un milione di automobili e 300mila veicoli commerciali. I numeri che sosteniamo noi della Fiom sono quelli che permetterebbero di saturare la forza lavoro dei vari stabilimenti nel medio termine. Al momento ci sono solo due fabbriche in cui non si impiegano ammortizzatori sociali: Atessa in provincia di Chieti e Termoli in provincia di Campobasso. Dalla prossima settimana non dovrebbero più fare cassa integrazione, dopo quasi 15 anni, anche a Pomigliano. Una bella notizia se non fosse che in tutti gli altri stabilimenti si continua con gli ammortizzatori. A Cassino almeno fino a marzo, a Torino si prosegue con la cassa, a Melfi con il contratto di solidarietà e con 1300 dipendenti che quotidianamente devono andare in trasferta a Pomigliano, 4 ore di pullman andata e ritorno tutti i giorni oltre alle 8 ore di lavoro”.
Intanto il 2023 si chiude con 1.566.448 immatricolazioni di auto, il 18,96% in più del 2022. Un dato apparentemente positivo, ma come evidenzia il Centro Studi Promotor in realtà si registra "un calo del 18,3% sul 2019, cioè sull'anno precedente la pandemia e tutti gli altri eventi negativi che l'hanno accompagnata. In valore assoluto, rispetto al 2019, nel quadriennio 2020-2023 sono state immatricolate 1.944.794 auto in meno".
Nel 2023 Stellantis ha venduto in Italia 591.156 auto, il 10,5% in più dell'anno precedente, con una quota di mercato pari al 33,5% contro il 36,3%, ma a dicembre le immatricolazioni sono state 36.833, in calo del 4,6% rispetto all'analogo periodo del 2022. Il gruppo anche nel 2023 ha mantenuto la leadership del mercato italiano e tra i veicoli elettrificati ha registrato una quota del 25,1% (vetture più veicoli commerciali leggeri), "confermando il ruolo guida nella transizione energetica nazionale". Tesla in un anno triplica i volumi, i cinesi di Mg moltiplicano per quattro le vendite e sfiorano il 2% di quota di mercato.
Gli incentivi allo studio del governo nel caso delle vetture "full electric" partono da 6.000 euro e arrivano a 13.750, se si rottama una Euro2 e si ha un Isee sotto i 30 mila euro, mentre l'aiuto per l'acquisto di un veicolo ibrido va da 4 a 10 mila euro, e quello per un'auto a basse emissioni dai 1.500 ai 3.000 euro. Ancora non si tratta di numeri ufficiali, ma di ipotesi contenute nella bozza di lavoro per il rinnovo degli incentivi auto sui quali il governo punta a utilizzare risorse per 930 milioni, sommando 570 milioni di nuovi fondi per l'automotive e quanto rimane non speso dei vecchi incentivi. L'intervento riguarda anche veicoli commerciali, taxi e noleggi a lungo termine. Per il leasing sono previsti 50 milioni.
Nel merito del provvedimento si entrerà con il tavolo automotive convocato dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy per giovedì primo febbraio 2024. Nel corso dell'incontro, presieduto dal ministro Adolfo Urso e con i principali rappresentanti delle imprese del settore, oltre alle organizzazioni della filiera, "verrà illustrato il nuovo piano degli incentivi per il settore automotive di prossima attivazione". La bozza di incentivi auto indica tra gli obiettivi da raggiungere: cambiare il parco auto circolante in Italia, che è uno dei più vecchi d'Europa (oltre 11 milioni di vetture Euro 3 o inferiori); sostenere e supportare le famiglie meno abbienti (extra bonus del 25% per Isee 30 mila euro); rimodulare gli strumenti incentivanti per stimolare l'acquisto di auto effettivamente prodotte in Italia.
“Il tavolo al Mimit – spiega Samuele Lodi – è importante per lanciare un segnale che attragga altri produttori. Siamo l’unico paese che ha un settore dell’automotive sviluppato, ma tutti gli stabilimenti sul territorio appartengono alla stessa casa. Servono politiche che attraggano anche le produzioni estere”. Più in generale, rivendica il dirigente Fiom, “è giusto parlare di incentivi e risorse pubbliche, ma questi strumenti devono essere legati al fatto che Stellantis si assuma delle responsabilità, investa nel nostro paese, garantisca occupazione in tutti gli stabilimenti. E questo finora non è avvenuto, Stellantis non si è espressa. Qui vengono chiesti impegni a tutti, regioni e governi, ma gli impegni se li deve assumere anche Stellantis”.
Anche per tenere alta l’attenzione dell’opinione pubblica e la consapevolezza dei lavoratori, la Fiom ha lanciato, già a partire da queste settimane, una campagna di assemblee in tutti gli stabilimenti di Stellantis “al fine di valutare e decidere insieme i prossimi passi da fare”. Obiettivo, far ripartire la macchina. Prima di tutto quella produttiva.
In leggero anticipo rispetto a quanto previsto, nella prima mattinata di mercoledì 3 gennaio 2024 è approdata a Ravenna la nave ong Geo Barents di Medici senza Frontiere con 336 migranti a bordo, tra cui decine di minori e una donna incinta.
Come previsto dal protocollo messo a punto in occasione dei precedenti sbarchi e nel corso di diverse riunioni operative coordinate dalla Prefettura negli ultimi giorni, per i profughi sono iniziate le procedure di identificazione e sanitarie (molti di loro hanno la scabbia), prima dello smistamento nei vari centri secondo il piano governativo. Sul posto anche il sindaco di Ravenna Michele De Pascale: “Restare umani ed essere organizzati sono le due vere chiavi per affrontare un fenomeno epocale che invece a livello nazionale viene affrontato con disumanità e, come ormai è evidente a tutti, con assoluta disorganizzazione”