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Ieri il lavoro è tornato ad essere il protagonista in cinque piazze d’Italia. Il lavoro, non solo le pensioni che di una vita al e di lavoro sono il necessario e dovuto coronamento. Perché la Cgil non ha solo chiesto che si evitasse di andare in pensione a 67 anni, unici in Europa; che venissero rispettati gli accordi sottoscritti con il governo un anno fa, con nuove norme per le lavoratrici e per i giovani precari, per «rivedere», almeno, la legge Fornero. Non si è limitata ad aggiungere che bisogna cambiare la legge di bilancio, votata però già al Senato, perché essa elargisce solo sgravi e incentivi alle imprese, riservando bonus discrezionali al popolo, invece di delineare un nuovo tipo di sviluppo fondato sulla ricerca di una piena occupazione.

Ha voluto invece con una mobilitazione, geograficamente distribuita, ma sindacalmente compatta, porre davvero al centro dell’attenzione il tema lavoro, sviscerandolo e articolandolo in tutti i suoi aspetti. In particolare per quanto riguarda i giovani e le donne. Guardando alla qualità del lavoro, alle modalità e ai tempi della prestazione lavorativa, ai diritti offesi e violati ad essa connessi. Di questo hanno parlato le testimonianze e gli esempi riversati nelle piazze dai vari palchi. Il richiamo alla reintegrazione legislativa dell’articolo 18 – tutto intero, non frazioni del medesimo come qualche rappresentante di una incerta sinistra vorrebbe – ha avuto un significato tutt’altro che di routine, ma quello di riprendere in mano uno scudo contro licenziamenti ingiustificati, discriminatori e sempre più numerosi. Che peraltro, se combattuti con intelligenza e determinazione, già ora possono venire respinti da giudici capaci di trovare i sentieri stretti della giustizia in un campo pure dissestato dalla ferocia dell’offensiva neoliberista di questi anni.

Lo riconosceva ieri Maurizio Landini, proprio su questo giornale. La domanda che sorge nelle assemblee e nei cortei è una «Questa volta fate sul serio?». Una domanda semplice e terribile. Che interroga il sindacato, ma non solo. Troppi sono stati i fuochi di paglia. A volte solo flebili fiammelle immediatamente spente. La fiducia delle lavoratrici e dei lavoratori va riconquistata. E quando questa viene incrinata o persa, è cosa veramente dura. Chi ha frequentato i cortei di ieri lo ha visto e sentito. E ancor meglio nelle assemblee che li hanno preceduti. Negli sguardi attenti e preoccupati, ma mai smarriti. Nelle parole e nelle grida, determinate e ferme, ma illuminate da un senso critico che esigeva verifiche concrete. Dai palchi le e i dirigenti sindacali hanno parlato di un inizio di quella che sarà una grande vertenza. Hanno difeso l’autonomia del sindacato dai partiti e dal governo prossimo venturo, qualunque esso sia. In questo quadro acquista un senso non banale anche il tentativo ribadito di ritessere le fila con Cisl e Uil, malgrado il loro vassallaggio nei confronti dell’attuale governo.

Ma l’autonomia sarebbe parola rituale e quindi morta, se non significasse ripresa della conflittualità ad ogni livello. Nelle unità produttive, come nella logistica; sul territorio come nei vari punti che formano la catena del valore; a livello nazionale, quanto, almeno, europeo. Si tratta di ricomporre un mondo del lavoro mutato e frantumato. E il primo passo è conoscere la sua nuova morfologia. Nei nuovi processi di valorizzazione del capitale, il lavoro vivo da un lato viene mortificato nei suoi diritti o contrapposto al lavoro morto, quello incorporato nelle macchine, con cui «industria 4.0» vorrebbe sostituirlo. Dall’altro lato si annida ovunque, in ogni luogo e momento della vita quotidiana delle persone. Mai come in questa fase le paratie fra disoccupazione e occupazione, fra stabilità e precariato, fra età di lavoro e quella della pensione, sono così mobili e sottili da non essere percepibili. Su questo può basarsi la ricerca di una nuova confederalità e di una coalizione sociale che travalichi i confini organizzativi di un sindacato pur rinnovato.

Ma come non vedere come tutto ciò interroghi crudamente la politica. E come la risposta di quest’ultima più che insufficiente risulti squallida. Verrebbe quasi da dire, se non fosse per le argomentazioni appena richiamate, che l’autonomia del sindacato dai partiti è già garantita in negativo, per inconsistenza dei secondi non per succube acquiescenza del primo.

Ma allora questa mobilitazione di lavoratrici e di lavoratori, di giovani disoccupati e precari, di improbabili pensionandi e di pensionati è come un urlo che dovrebbe essere impossibile non udire. Non è solo dal sindacato che si attendono coerenti, combattive e continuative risposte. Ma dalla sinistra politica, quella che non c’è, ma di cui reclamano la ricostruzione le vene aperte di una condizione sociale abbruttita, ma non vinta, da anni di sconfitte e di crisi. Malgrado che il Censis con il suo immaginifico lessico intraveda «una vigorosa ripresa congiunturale»: un ossimoro, visto il senso negativo che solitamente viene dato a quell’ultimo aggettivo.

Ricostruire la sinistra a partire dal lavoro è impresa ancora più difficile, visto l’abisso da cui si parte. Ma è giusto pretendere almeno che alla sinistra del Pd nelle prossime imminenti elezioni si presenti una lista unitaria in totale discontinuità con le politiche degli ultimi governi, di centrodestra come di centrosinistra, denunciati ieri dalla Cgil. Il minimo sindacale, verrebbe da dire.