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Piazza Fontana 1969 - 2024 La bomba di Milano e quella del Rapido 904:oltre le responsabilità materiali restano aperte (e ambigue) le piste su complici e mandanti

Indagini infinite nella zona grigia delle stragi L’interno della Banca dell’agricoltura di piazza Fontana a Milano poco dopo l’esplosione del 12 dicembre 1969 – Publifoto Press Torino/LaPresse

Tra la strage di piazza Fontana e quella del Rapido 904 passano 15 anni. È in questo arco di tempo che gli storici inquadrano la cosiddetta «Strategia della tensione», un percorso di sangue e dinamite cominciato con il «centrosinistra organico» del doroteo Mariano Rumor e finito con Bettino Craxi alla guida del pentapartito, per dire quanto, nel mentre, sono cambiato i connotati della Repubblica.

PER I FATTI del 12 dicembre 1969 (17 morti per lo scoppio di un ordigno nella sede milanese della Banca dell’agricoltura) una verità giudiziaria esiste, anche se contorta, ed è contenuta in una sentenza di Cassazione del giugno 2005: la responsabilità è del nucleo padovano di Ordine Nuovo guidato da Franco Freda e Giovanni Ventura, non perseguibili però perché in precedenza già assolti per gli stessi fatti. Il resto, come sempre nella storia delle stragi, resta sfumato, anche se gli storici hanno ormai pochi dubbi (anzi nessuno) nel citare frange dei servizi segreti come complici e mandanti. E non si parla solo di italiani.

Era il primo luglio del 1997 quando la Commissione stragi ascoltò il senatore a vita Paolo Emilio Taviani (che nel 1969 era ministro del governo Rumor) dire una frase di estrema chiarezza: «Che agenti della Cia si siano immischiati nella preparazione degli eventi di piazza Fontana e successivi è possibile, anzi sembra ormai certo: erano di principio antiaperturisti e anti-centrosinistra. Che agenti della Cia fossero fornitori di materiali e fra i depistatori sembra pure certo».

SUI MATERIALI, cioè sugli esplosivi, c’è una pista ancora aperta: l’ha seguita negli ultimi anni la procura di Brescia e attualmente è al vaglio processuale nell’ennesimo (e forse ultimo) capitolo giudiziario di un’altra strage, quella di piazza della Loggia del 1974. La tesi investigativa, suffragata da diversi riscontri, è che «i materiali» facessero parte di un fitto giro di scambi di varia natura tra Ordine Nuovo e la base Nato di Verona. Sui depistaggi pure ci sono pochi dubbi: la colpa della strage venne inizialmente attribuita agli anarchici. Pino Pinelli volò giù da una finestra della questura dopo due giorni di interrogatorio, Pietro Valpreda venne dipinto come un mostro, incarcerato e sottoposto a una lunga trafila di processi. Solo nel 1987 una sentenza decreterà in via definitiva la sua innocenza (e l’estraneità ai fatti di Pinelli ). Diciotto anni dopo la tragedia, quando ormai la verità era andata via e l’opinione pubblica era in altre faccende affaccendata.

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I DEPISTAGGI e le verità mutilate sono anche le due principali caratteristiche della strage del 23 dicembre 1984, quella della bomba esplosa

alle 19 e 08 nella Grande galleria dell’Appennino, a San Benedetto Val di Sambro, tra Bologna e Firenze sul Rapido 904, partito da Napoli e diretto a Milano. Sedici le vittime e una responsabilità giudiziaria che, ad oggi, è attribuita in via esclusiva a Cosa nostra, con la complicità di un artificiere tedesco, Friedrich Schaudinn. Poi ci sarebbe la posizione dell’ex parlamentare del Msi Massimo Abbatangelo, stralciato dal processo dopo essere stato eletto alla Camera, poi assolto dal reato di strage ma condannato a sei anni per aver consegnato l’esplosivo a un altro assolto per la strage, il camorrista Giusepe Misso.

Secondo il procuratore di Firenze Pier Luigi Vigna, la strage del Rapido 904 è da considerare come una sorta di diversivo escogitato da Cosa Nostra per distogliere l’attenzione dalle indagini di Falcone e Borsellino in Sicilia. Siamo quasi alla vigilia del maxi processo di Palermo, il pool antimafia è in piena attività e Tommaso Buscetta ha appena cominciato a parlare. Tutti questi elementi insiemi avrebbero convinto Totò Riina a organizzare un massacro nell’Italia del nord, lontano dai suoi affari.

LA SALDATURA tra mafiosi siciliani e neofascisti è una tesi che attraversa molte indagini sul terrorismo ma sin qui non ha avuto sbocchi. Nemmeno l’ultima avanzatissima inchiesta sulla strage di Bologna (quella su Paolo Bellini) è riuscita a trovare un collegamento diretto, nonostante adombri in più passaggi una qualche continuità tra i due universi. È su questo punto che, ormai due anni fa, i procuratori aggiunti di Firenze Luca Turco e Luca Tescaroli hanno delegato ai carabinieri del Ros nuovi approfondimenti. Non è ancora emerso niente di rilevante, ma l’idea di fondo è chiara: esisteva un accordo larghissimo che coinvolgeva neofascisti, Cosa nostra, servizi segreti e politica. In questo contesto, la fine della strategia della tensione sarebbe poi sfociata all’inizio degli anni ’90 nella stagione delle stragi di mafia. Il collegamento è ardito e sullo sfondo si vedono chiaramente gli intrecci e i teoremi del «romanzone» sulla trattativa stato-mafia, smentita dalla Cassazione ma ancora viva in un gran numero di fascicoli aperti tra Palermo, Caltanissetta (dove ancora si indaga su via D’Amelio) e Firenze.

In assenza di prove, tutto si regge su alcune dichiarazioni del pentito di Cosa Nostra Giovanni Brusca, che ha tirato in ballo per la strage del Rapido 904 il boss palermitano Antonino Madonia, vicino sia ai corleonesi sia agli ambienti dell’eversione nera. Una storia che è stata già al centro di un processo finito in primo grado nel 2015 con l’assoluzione di Riina per insufficienza di prove. L’Appello poi non si è mai tenuto a causa della morte del capo dei capi.

E COSÌ, nel loop dei processi infiniti, delle indagini che si aprono spesso ma non si chiudono mai, degli esecutori certi e dei mandanti solo immaginabili, degli imputati che muoiono per cause naturali e degli investigatori che sognano sin troppo in grande, la strategia della tensione continua ad essere quello che è da decenni: una gigantesca zona grigia in cui ognuno vede solo quello che vuole vedere.