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IL SALUTO DEL CONDIRETTORE. Il ruolo che "il manifesto" deve svolgere in questa fase politica è quello di essere, come insisteva Pintor, una «forma originale della politica», strumento dei conflitti e dei movimenti

La direzione di una storia che continua foto di Marco Cinque

Che succede al manifesto? Si son chiesti tanti nostri lettori e collaboratori che pure ci hanno subito inviato messaggi di ringraziamento e richiesta d’informazione. Allora, è fulmine a ciel sereno? Come Norma Rangeri – che ringraziarla per il suo lavoro e la sua testardaggine non sarà mai abbastanza – ha spiegato, la sua direzione del giornale data da 14 anni, in parte con la vecchia cooperativa e almeno 10 con la nuova, e la mia nella condirezione, voluta da Norma e votata a larga maggioranza dal collettivo redazionale nell’aprile del 2014, dura da nove anni. Una condizione che pone oggettivamente e all’ordine del giorno un cambio di direzione, alla luce di due questioni non da poco.

Che i termini statutari della nostra azienda cooperativa, l’unica vera che edita un giornale quotidiano senza padroni che non i suoi lavoratori, sanciscono che la direzione deve durare in carica tre anni – certo rinnovabili, ma il “rinnovo” è stato automatico, ed è stato il tempo lungo, inedito, oneroso, difficile della pandemia che ha creato tra l’altro necessarie quanto insopportabili e gravi distanze; secondo punto dirimente è che è emersa nella redazione una nuova generazione politica a cui passare il testimone che ha fatto il giornale ogni giorno, molti da trenta o più di venti anni, che chiede nuovo ruolo e attenzione.

Fatto che per me rappresenta, insieme ad avere stabilizzato la condizione economica del giornale che comunque deve vendere di più, il risultato migliore che potevamo ottenere e sicuramente un segno di vitalità per il nostro futuro. Molti, tante compagne e compagni, a cominciare dalla stessa Norma, mi hanno chiesto di candidarmi alla direzione, ma io ho risposto di no. Per una stanchezza, non certo politica, ma fisica dopo nove anni, e per la decisione di voler approfondire, anche con rigoroso studio, il precipitato allarmante della crisi italiana – era l’anello debole del sistema capitalistico, ora siamo approdati all’estrema destra inanellata al governo Meloni, che ha nella guerra e nel riarmo la sua polizza assicurativa, che ora viene presa per mano con calore da Biden – e di quella internazionale, approfondimento che certo farò dentro il giornale non altrove – per me un altrove non esiste. Ne vale la pena. Piuttosto che una coazione a ripetere il ruolo di direttore che non deve mai ridursi a «ministro delle rogne». Fatemi ringraziare qui Luciana Castellina, preziosa fin dai primi anni angusti nel sostenere il manifesto nella sua ripresa e rilancio con la nuova cooperativa dopo la storica, dolorosissima rottura del 2012 che, forse è bene ricordarlo, si caratterizzò per il fallimento della nostra impresa editoriale: Luciana non è solo la testimone della nostra origine – alla quale con l’orgoglio ho partecipato essendo io stato radiato dal Pci nel novembre-dicembre 1969 con il gruppo del Manifesto – ma è la persona infaticabile e sempre “in movimento” che più di ognuno di noi ha mantenuto i rapporti con i giovani. Altro che dinosauri.

IL MIO IMPEGNO e il mio lavoro sono a disposizione, per l’analisi editoriale quotidiana e per il coinvolgimento sempre più decisivo dei lettori e dei collaboratori – come abbiamo fatto con decine e decine di iniziative “Per il manifesto” nel 2019. Perché resto convinto che il manifesto, pur essendo indiscutibilmente sola proprietà dei soci della cooperativa e della redazione – da ammirare e ringraziare tutta, perché sopravvive con coraggio in condizioni economiche imparagonabili ad altri giornali quotidiani – appartenga però anche al vasto pubblico di chi ogni giorno ci sostiene, un mondo che vede nel manifesto non uno strumento qualsiasi, ma l’unico in questa fase per definire, in primo luogo, contenuti alternativi e nello stesso tempo per essere interlocutore di quello che viene rielaborato a sinistra: non penso solo alla pluralità dei partiti – per i quali siamo per vocazione la sede ideale ed unica del loro confronto -, ma dei movimenti.

Se c’è un ruolo che il manifesto deve svolgere in questa fase politica è quello di essere, o di tornare ad essere come insisteva Pintor «una forma originale della politica» strumento dei conflitti, anche attraverso un «giornale che è un giornale che è un giornale». Per il quale manterrei semplicemente, umilmente, l’ispirazione in ditta che era stata di chi lo aveva fondato, vale a dire «Il manifesto quotidiano comunista». Comunismo, che certo non è all’ordine del giorno, ma resta il conflitto-movimento più alto pur se sconfitto nei suoi insediamenti storici. «Socialismo o barbarie» non è una bella e dimenticata frase del passato, ma attualissima. La fase che attraversiamo è infatti quella discendente della distruzione delle risorse, anzi «della» risorsa, l’esistenza del pianeta. Per un mondo dove tutto deve essere ridotto a merce, dai rapporti di produzione, al lavoro, ai rapporti sociali ed umani derubricati ad essere scarti di una logica di dominio che riproduce solo diseguaglianze. Senza quella dicitura in ditta saremmo mai stati capaci, e con una originale griglia interpretativa, – insisteva Rossana Rossanda – di esistere per più di 50 anni? Quanti giornali e giornaletti sono nati e naufragati senza un’idea di fondo del rivolgimento necessario sociale e politico e senza le parole per dirlo?
I giorni che stiamo attraversando sembrano indurci al pessimismo, ma credo che oggi il pessimismo oltre che serbatoio dell’intelligenza sia anche il risultato di uno scarso approfondimento della realtà.

LO STESSO governo Meloni è il risultato di una sconfitta che possiamo e dobbiamo considerare tutt’altro che eterna, FdI ha avuto il 26% del 63% di quelli che sono andati a votare il 25 settembre, è un governo di minoranza dunque che dobbiamo mandare a casa. È insidiato dallo stesso scontro sugli orizzonti della destra che, dopo la morte di Berlusconi, non riesce a consolidare la compagine dell’esecutivo, soprattutto in rapporto al più diretto referente internazionale, l’Unione europea fin qui realizzata, sempre meno sovranazionale, dove torna a spirare prepotente il vento freddo dei nazionalismi e dei sovranismi e per rapporto alla quale non riesce a spendere i fondi del Pnrr e si divide sul Mes.

E CHE PER sopravvivere ha bisogno di mettere d’accordo l’impossibile, l’autonomia differenziata che spacca socialmente ed economicamente l’Italia in feudi e potentati, con il presidenzialismo autoritario che riconduce ad unum il processo democratico. Mentre si appalesa una realtà che comincia i primi passi, di nuovi movimenti e conflitti latenti che ormai esplodono, che abbiamo avuto il merito di avere segnalato nel nostro numero speciale di fine anno.

C’È LA CGIL, il principale e più storico sindacato di classe, che si propone all’attenzione essa stessa come movimento, fatto rilevante che coinvolge e unifica lotte e protagonisti; c’è il reddito di base da rivendicare di fronte alla ormai strutturale incapacità del capitalismo finanziario di garantire occupazione se non precarizzata, mentre il welfare viene subordinato anche in Europa al warfare; c’è la «flotta dei soccorsi», le navi delle Ong che, osteggiate e bandite, salvano i migranti, e che oltre a questa vitale iniziativa per fermare la deriva dei massacri ha il merito di ricordare che la vicenda delle migrazioni è l’evento di massa più grande della nostra epoca, l’Onu calcola 3 miliardi di «spostati» entro il 2059 per effetto di crisi climatica, ambientale, nuove miserie e guerre. Su questo, sull’accoglienza comunque e dovunque, il manifesto si è fortemente caratterizzato; il femminismo, la lotta alla violenza contro le donne, l’uguaglianza di genere, i diritti Lgbt che aprono il campo ad una nuova visione dei diritti della persona costitutivi dei diritti umani; l’ambientalismo che da predicazione è diventato un fronte di lotta con l’obiettivo della transizione ecologica e dell’energia rinnovabile sempre più allontanato e rimesso ormai in discussione dai governi, un fronte per il quale resta fondamentale l’individuazione dei soggetti sociali, a partire dai lavoratori dell’energia, che possono esserne i protagonisti; la sanità pubblica che torna in piazza contro la privatizzazione che si è fatta sistema; il nuovo pacifismo che sempre più si caratterizza come dichiarava Gino Strada “contro la guerra”, contro ogni guerra comunque mascherata, dell’Occidente e dell’Oriente, dell’est e dell’Ovest, della Nato e di Putin: il mondo è cambiato in questi dieci anni, ma la costante è rimasta la guerra, quante ne abbiamo viste prima di arrivare all’aggressione di Putin all’Ucraina, Libia 2011, Siria 2013, l’allargamento della missione in Afghanistan, Yemen senza dimenticare la Palestina che resta ancora in balia di una occupazione militare dei suoi territori.

A MIO PARERE, per comprendere la guerra in Ucraina – che anche quella abbiamo problematizzato con una posizione originale che ci viene riconosciuta da più parti, ma senza dividerci in questo tragico anno e mezzo di conflitto scellerato -, bisogna necessariamente tornare ad interrogarsi sull’89 e sulla fine dell’Urss: l’avere abbandonato quel campo di ricerca, rimproverava Rossana Rossanda a tutta l’ex redazione – i vecchi e i giovani – nel settembre 2012 – ci ha sguarniti delle categorie interpretative anche per giudicare la natura reale della «vittoria» rivendicata dall’Occidente e la fine della Guerra fredda, proprio quando tornavano d’attualità nuove guerre e nuovi muri.

E c’è la questione del digitale, che ha cambiato fruizione e modo di scrivere – anche da noi si riducono le vendite cartacee e aumentano quelle online – un tema che non solo pretende la costruzione di una redazione online adeguata al cartaceo e viceversa – per questo si è speso Matteo Bartocci che ha fatto fare un salto di qualità a tutti noi nella comprensione delle novità. Non basta, dovremmo farlo diventare lavoro d’informazione e ricerca come ai tempi del sempre presente, amico e compagno fraterno, Benedetto Vecchi e dell’inserto Chip&Salsa – comunque è certo che non sarà l’intelligenza artificiale a dirigere il manifesto: questa è una delle poche sue impossibilità.

Ultimo, ma non per ordine d’importanza, lo scontro che si apre sulla memoria, quella remota e quella prossima: questo farà il governo Meloni, rimetterà in discussione la verità sulla lunga stagione delle stragi nere e di Stato – quella strategia della tensione degli anno Settanta e Ottanta contro i movimenti studenteschi, operai e l’ascesa del Pci – nonostante che ormai la verità sia convalidata da ripetute sentenze della giustizia. E allora bisognerà opporre quella che io chiamo «memoria attiva». Da questo punto di vista c’è una ricchezza del manifesto assolutamente inesplorata, una miniera dove l’estrattivismo sarebbe augurabile: sono i nostri archivi, ai quali ricorrono miriadi di ricercatori, giovani e no, saggisti e scuole di giornalismo, che dovrebbero diventare iniziative tematiche del lavoro della redazione e forse una base memoriale di una «fondazione» che tenga insieme tutte le epoche della storia del Manifesto proiettandole nell’orizzonte futuro che ci sta davanti.

C’È DUNQUE molto lavoro da elaborare, da fare, da informare, da scrivere, mescolando se possibile le lingue delle sezioni, esteri cultura interni società visioni, in una migliore configurazione dei nostri preziosi inserti settimanali. Perché su tutto questo il manifesto dovrà essere il laboratorio. Dei movimenti e di tutta la sinistra. Viva il manifesto